Feste, dribbling e panettoni

Storie tragicomiche di calciatori sovrappeso.

Dello stato e dello status di un calciatore si può capire moltissimo, forse tutto, osservandone il tessuto adiposo. L’equilibrio psicofisico di un giocatore risiede in quegli angoli in cui il corpo tende ad accumulare se stesso: le guance, il mento, i fianchi, l’addome, il fondoschiena. Le parti del corpo umano in cui si ritrovano le feste, i problemi, le pigrizie, gli eccessi, le frustrazioni, le cattive abitudini o semplicemente il tempo che passa. Tutte quelle cose che i “semplici” esseri umani possono permettersi perché il loro corpo è quasi esclusivamente una questione privata, una rappresentazione di sé e niente altro. Ma il corpo di un calciatore è una faccenda pubblica, un ferro del mestiere la cui manutenzione è parte fondamentale dello stesso, soggetto e oggetto di una performance di quasi-arte che si ripete più volte alla settimana. Nel corpo di un calciatore non possono mostrarsi le feste, i problemi, le pigrizie, gli eccessi, le frustrazioni, le cattive abitudini o semplicemente il tempo che passa. Perché, nell’immaginario collettivo, il calciatore, finché è calciatore, non ha diritto a nessuna di queste cose.

È quasi impossibile conoscere il corpo vero di un calciatore moderno. Il calcio – lo sport in generale – in questo è scienza: ha i mezzi, le risorse e le conoscenze per trasformare ogni corpo nella migliore versione di se stesso. E guardare un corpo perfetto è come guardare qualsiasi corpo dall’interno: alla fine si somigliano tutti, sangue, scheletri e organi interni, con differenze percettibili solo all’occhio esperto. Ma anche nella vita ipocalorica e iperperformativa di un calciatore esistono due momenti in cui chi osserva può vedere davvero: uno è l’inizio del ritiro precampionato e l’altro è il rientro post vacanze natalizie. Si dirà: è impossibile che professionisti di questo livello, gli one percenter dello sport mondiale, si concedano la stessa grigliata ferragostana o panettone a colazione di noialtri novantanove percento. O magari sì ma con contorno di insalata, con il panettone senza canditi. E invece la carne è debole, anche quella forgiata, temprata, allenata per resistere alle tentazioni.

Durante la solita maratona calcistica natalizia inglese, c’è stato un momento in cui la questione del (sovrap)peso dei calciatori è diventata attualità. Narratore dell’aneddoto, ovviamente, Pep Guardiola: ai giornalisti che gli chiedevano di una mancata convocazione di Kalvin Phillips, Guardiola ha risposto – dopo un po’ e piuttosto esasperato – che Phillips non era in condizione di scendere in campo. Infortunato, hanno dato per scontato i giornalisti presenti. «Non è infortunato, è tornato in sovrappeso. Non so perché», ha spiegato un interdetto Pep. In realtà, Guardiola il perché lo sa benissimo: a Phillips piace mangiare, lo ha pure detto pubblicamente, ci ha pure scherzato su con i giornalisti. Pare che ai tempi del Leeds il suo regime alimentare fosse una delle cose che più scatenasse la locura di Marcelo Bielsa, che per il giocatore aveva ideato un dieta specifica frutto di complessissimi calcoli di importi calorici e proiezioni di sviluppo della massa corporea. Per come la ricorda Phillips: «Ho dovuto smettere di mangiare la torta al cioccolato alla fine della cena della domenica».

Cioccolato e calciatori non appartengono allo stesso immaginario, si incontrano solo nella finzione del messaggio promozionale (il primo e più recente che mi viene in mente è quello dei Ringo mangiati da Kakà, ma chissà quanto è davvero lunga la lista). Eppure i calciatori – lo so, è sconvolgente ammetterlo a se stessi – il cioccolato lo mangiano e il cioccolato ha sui loro corpi lo stesso effetto che ha sui nostri. Buonumore, sazietà e, in dosi eccessive, aumento del peso. Ed è opinione diffusa tra gli allenatori – e i dietologi e i nutrizionisti e i preparatori atletici – che l’aumento del peso sia d’ostacolo all’espressione del talento. Quando era allenatore della Fiorentina, Mihajlovic si sentiva spesso chiedere perché non facesse giocare di più Adem Ljajic. La sua risposta era sempre che Ljajic aveva due problemi: uno era la passione per i videogiochi, che gli toglieva preziose ore di sonno notturno, e l’altro era quello per la Nutella. Quando Ljajic, anni dopo, passò all’Inter concesse un’intervista al Corriere dello Sport in cui raccontava, con evidente orgoglio, che «ora di Nutella ne mangio meno». Nel frattempo, si era guadagnato il soprannome di “Nutellino” e ciclicamente tornava a circolare su Internet la notizia di un suo accordo con Ferrero per diventare testimonial della Nutella nel mondo.

Per via di numerosi e gravi infortuni, Ronaldo ha concluso la sua esperienza al Milan con appena venti gare giocate in un anno e mezzo. Lo score: nove gol complessivi. (Paco Serinelli/AFP via Getty Images)

È opinione diffusa tra gli allenatori che l’aumento del peso sia d’ostacolo all’espressione del talento, eppure esiste un pezzo dell’immaginario calcistico collettivo popolato da geni in sovrappeso. Sarebbe troppo semplice risolvere la questione citando Maradona, ma l’eccezione non può essere presa come regola né usata come spiegazione. Anche se di eccezione vera e propria non si tratta. Il più grande talento prodotto dal calcio italiano negli ultimi quarant’anni era uno a cui spesso la maglietta stava un po’ troppo aderente. Antonio Cassano ha raccontato in più di un’occasione che il suo peso forma sta in un numero tra gli 83 e gli 85. «A Madrid non giocavo perché ne pesavo 93. Quando sono arrivato alla Samp ne pesavo 95, poi sono tornato a 83 ma so che posso riprendere 7-8 chili nel giro di un mese». Più o meno coetaneo di Cassano è Fabrizio Miccoli, che prima di finire nelle pagine della cronaca giudiziaria è stato l’altro immenso talento di quella generazione di football Italia. In molti ricorderanno il video in cui Miccoli palleggia con un’arancia: per scherzare sulle eccessive rotondità del suo corpo, compagni, tifosi e avversari dicevano che quella era la prima volta che vedevano Miccoli toccare della frutta. E lo faceva coi piedi. Eppure, Cassano e Miccoli sono solo due esempi di un estetica alternativa del numero 10: la maglia un filo troppo aderente, portata fuori dal pantaloncini perché altrimenti l’elastico degli stessi stringerebbe troppo attorno alla vita, la corsa leggermente pesante che provoca vibrazioni visibili del ventre, il sudore che ci mette un attimo di più per scendere dalla fronte al collo a causa di un’estensione eccessiva delle guance. La testa e il pallone che devono andare necessariamente più veloci per compensare. Un’estetica portata a compimento da Kevin De Bruyne, se si vuole usare un riferimento più contemporaneo: il talento più unico contenuto nel fisico più comune.

Certo il sovrappeso certe volte è segno di altro oltre che di una propensione per i piaceri della tavola. Sono in molti a sostenere che la fine dell’epopea blaugrana di Ronaldinho sia cominciata in realtà quando le feste divennero troppe, troppo lunge e troppo frequenti perché il metabolismo le smaltisse in tempo. In tanti ricorderanno che la depressione di Adriano cominciò a vedersi nell’arrotondamento del viso, che la grassezza di Ronaldo era un’anomalia tale che poteva essere spiegata solo come è poi stata spiegata: una malattia, l’ipotiroidismo, che lo ha costretto – assieme alle infinite cicatrici e contusioni rimediate nel corso della carriera – al ritiro. E che comunque non gli aveva impedito di essere Fenomeno.

La lista dei giocatori più in là di una taglia o anche due è in realtà molto lunga – Higuaín, Nasri, tutti abbiamo visto le foto del ventre leggermente concavo di Lukaku – ma quella mia, personale, si chiude con un nome sconosciuto ai più. Era un esterno ai tempi ai quali gli esterni ancora si chiamavano ali, che nel corso della carriera si spostò sempre più verso la zona centrale della trequarti, più o meno in corrispondenza di ogni chilo preso. Quando arrivò a Taranto, nel 2003, era ormai un affermatissimo, centralissimo, avanzatissimo, immobilissimo trequartista. Nelle sue appena otto partite con la maglia del Taranto, Casale divenne una piccola leggenda, un inspiegabile manifestazione del dominio della mente sul corpo: giocava solo di prima perché controllare il pallone, girarsi, avanzare avrebbero richiesto uno spostamento di massa eccessivo ed eccessivamente lento persino per l’allora C1. Di fronte al mio stupore di fronte a questo inspiegabile fenomeno – con la f minuscola ma pur sempre fenomeno, ai miei occhi – mio padre mi ripeteva sempre che «guarda che in questo gioco è il pallone che deve correre più di tutti».