Quando, nel corso dell’ottavo di finale mondiale del Mondiale di Russia 2018 tra Francia e Argentina, Kylian Mbappé ha aperto il gas e si è lanciato a tutta velocità verso la porta della Selección, mettendosi alle spalle con estrema naturalezza Mascherano prima di circumnavigare Rojo, costretto ad abbatterlo causando il rigore del vantaggio francese, qualcuno in Camerun ha rivisto per un attimo le accelerazioni fulminanti di Samuel Eto’o. Una sensazione rafforzata poco dopo: a bordo del pullman che da Kazan ha riportato i bleus nel ritiro di Istra, Kylian si è lasciato andare ai festeggiamenti assieme agli altri giocatori noirs, ballando al ritmo di una playlist di brani africani in cui non mancavano hit come “Séka Séka” del dj ivoriano Marechal e “Sentiment Môkô” di DJ Caloudji, quasi come a voler omaggiare le proprie origini. Per questo, forse, anche se in teoria l’Africa aveva salutato il Mondiale già alla fine della fase a gruppi, un evento che non si verificava dal 1982, il giornale burkinabé Courrier International ha parlato provocatoriamente della Francia come della “sesta” squadra africana presente in Russia, risollevando una tematica che ciclicamente compare all’interno del dibattito calcistico francese.
Una provocazione a metà tra la critica nemmeno troppo velata al colonialismo e la battuta smaliziata, certo, ma con più di un fondo di verità. D’altronde bastava dare una rapida occhiata alla lista dei convocati di Deschamps per coglierne il senso: dei 23 Bleus selezionati per l’avventura in Russia, infatti, in 14 avevano radici africane, senza contare i giocatori originari dei Dipartimenti e regioni d’oltremare, come ad esempio il martinicano Raphaël Varane. Con tre giocatori a testa erano “presenti in rosa” la Repubblica Democratica del Congo (Mandanda, Kimpembe, N’Zonzi) e il Mali (Sidibé, Kanté, Dembélé), seguiti a ruota da Camerun (Mbappé, Umtiti), Guinea (Pogba), Senegal (Mendy), Angola (Matuidi), Togo (Tolisso), Marocco (Rami) e Algeria (Fekir).
Quello tra l’Africa – in special modo quella Occidentale – e la Francia è un rapporto speciale, basato su una contiguità linguistico-culturale imposta attraverso decenni di dominio coloniale e di successivi flussi migratori. Il calcio, naturalmente, non poteva rimanerne estraneo. A partire dal 1931, con la convocazione di Raoul Diagne, il primo giocatore nero a vestire la casacca di una Nazionale europea, i giocatori di origine africana hanno rappresentato una costante per la selezione francese, contribuendone ai successi e alla gloria. Nel 1998, ad esempio, la prima Francia a salire sul tetto del mondo è stata considerata il simbolo dell’immigrazione di seconda generazione, una sorta di rappresentazione in miniatura del multiculturalismo della società transalpina. Non a caso, subito dopo il trionfo nella finale con il Brasile, sarebbe nato il mito della generazione black, blanc, beur: uno slogan populista cavalcato con entusiasmo in un celebre discorso anche dall’allora presidente Jacques Chirac, ma allo stesso tempo fortemente osteggiato dalle formazioni di estrema destra. Jean-Marie Le Pen, il leader del Front National che nel 2002 andò ad un passo dal raggiungere l’Eliseo, era stato tra i più netti: «Non ha granché senso prelevare giocatori dall’estero e poi chiamarla Équipe de France».
In realtà, però, almeno a livello calcistico, lo scambio di giocatori tra Africa e Francia è stato piuttosto reciproco. Sono stati davvero parecchi i giocatori nati e cresciuti nell’Esagono che alla fine hanno deciso di rappresentare le Nazionali africane. Un fenomeno emerso con maggiore prepotenza soprattutto negli ultimi anni. Ai Mondiali appena andati in archivio, per dire, 34 calciatori con passaporto francese sono scesi in campo con la maglia di una nazionale africana: a guidare questa speciale classifica la Tunisia (10) di Wahbi Khazri, match winner proprio con i Blues, seguita da Senegal (nove), Camerun (otto), Ghana (quattro) e Marocco (tre). Ma la pattuglia dei binazionali con origini africane formati dal sistema calcistico francese avrebbe potuto esser ancora più nutrita, se solo all’ultimo Mondiale si fosse qualificata pure l’Algeria. Le Volpi del Deserto sono già una delle Nazionali nordafricane con la maggior presenza di atleti con doppio passaporto, ma il punto è che la quota è destinata ancora ad aumentare. Per esempio Houssem Aouar, che ha giocato solo un’amichevole con la Nazionale francese nell’ottobre del 2020, sembrerebbe in procinto di fare uno switch di nazionalità calcistica e rendersi eleggibile per l’Algeria. Il raffinato trequartista del Lione non è da solo: nel mirino della FAF sono finiti anche Rayan Aït Nouri, laterale sinistro dei Wolves, e Amine Gouiri – anche se l’attaccante del Nizza in un primo momento pare aver smentito le voci di un suo possibile futuro con le Fennecs.
Una pausa di riflessione comprensibile, anche perché il cambio di nazionalità sportiva è un momento delicato per la vita di un atleta: si tratta di scelta complessa che ha a che fare con il concetto di identità, con la percezione di sé stessi e con la propria coscienza come persona rispetto ad un gruppo sociale. Si tratta, del resto, di dover ricondurre in uno schema stabile e univoco ciò che molto spesso è fluido e multiplo, come appunto può essere l’identità socio/culturale. Quasi sempre, infatti, le due identità coesistono e sono entrambi molto forti. Ciò che si prova lo ha raccontato molto bene Paul-Josè Mpoku quando, nel 2015, ha scelto la Repubblica Democratica del Congo dopo aver fatto tutta la trafila delle selezioni giovanili belghe: «Niente mi porterà via uno dei miei due paesi. È stato difficile scegliere, perché li amo molto entrambi». A volte, però, si tratta anche di scelte di comodo, fatte in base alla convenienza del momento e alle ambizioni sportive del giocatore, tutti parametri che fanno storcere il naso ai tifosi: «I giocatori devono analizzare la situazione in base all’età e alle possibilità di avere una chance rispetto alla concorrenza», ha spiegato un noto agente di calciatori nordafricani al portale marocchino bladi.net.
Il rischio di compiere scelte affrettate e avventate, di cui pentirsi solo dopo pochi anni, è sempre dietro l’angolo. È il caso, per esempio, di Munir El Haddadi: il giocatore del Getafe, convocato da Vicente del Bosque nel 2014, ha giocato solo 13 minuti con la Nazionale spagnola, ma tanto è bastato per impedirgli di giocare un Mondiale con il Marocco nel 2018. Solo il cambio di regolamentazione della FIFA, che dal 2020 consente di cambiare nazionale ai giocatori che hanno collezionato al massimo tre presenze nelle qualificazioni prima dei 21 anni, ha permesso all’ex canterano del Barça di indossare la maglia dei Leoni dell’Atlante. Questo accade sostanzialmente perché, a causa del gran premio che ogni volta si scatena tra le Federazioni per accaparrarsi un giocatore binazionale, il dilemma dello switch sorge quasi sempre molto presto. Spesso i giocatori non sono neanche maggiorenni quando vengono contattati per la prima volta da una Federazione. Quelle della zona UNAF, l’Unione delle federazioni nordafricane, sono tra le più attive e tempestive in questo senso. Molte di queste, negli ultimi anni, hanno allestito capillari reti di osservatori in tutta Europa con lo scopo di anticipare la concorrenza e attrarre i migliori talenti delle diaspore, istituendo veri e propri programmi orientati allo scouting internazionale. Quello dell’Algeria, una delle federazioni pioniere di questo specifico approccio, si chiama “progetto radar” ed è stato fortemente voluto dall’ex presidente Kheirredine Zetchi. «Io stesso sono figlio dello scouting», ha raccontato Mansour Boutabout, centravanti algerino con all’attivo sei reti in Nazionaletra il 2003 e il 2008, in una recente intervista a So Foot. «Erano i primi anni 2000 e giocavo a Sète. La FAF aveva appena avviato un programma simile per completare la squadra, perché l’Algeria non aveva abbastanza giocatori dopo la guerra civile. Ma era una cosa rudimentale, poi subito abbandonata. Oggi sono ripartiti dalle stesse basi, ma con un sistema di scouting molto più avanzato».
Il Marocco ha percorso una strada simile. Non a caso, dei 26 convocati per l’ultimo Mondiale, 14 erano binazionali formati all’estero: quattro nei Paesi Bassi, tre in Belgio, tre in Francia, due in Spagna, uno in Canada e uno in Italia. Anche i Paesi del Benelux, culla di numerose diaspore africane, sono nei radar dei dirigenti delle federazioni CAF, ma è inevitabilmente quello francese il serbatoio più appetito e quindi più sondato. Forse anche per questo motivo, nel lontano 2011, a pochi mesi dal tragicomico epilogo del mondiale sudafricano che aveva fatto arrossire di vergogna un Paese intero, Laurent Blanc era finito nella bufera dopo aver dichiarato di voler introdurre delle quote nel sistema di formazione per porre un freno all’emorragia verso altre nazionali di talenti. Il commissario tecnico si era affannato a spiegare come, alla base della scelta della Federazione di limitare al 30% la presenza non francese nei vivai, non ci fossero motivazioni di stampo razziale, ma solo di binazionalità, salvo poi venire prontamente smentito da una serie di imbarazzanti intercettazioni diffuse dal sito Mediapart in cui lo si sentiva invocare il ricorso alle «quote etniche» durante una riunione federale con il direttore tecnico dei Bleus, François Blaquart – la cui testa è stata la prima a rotolare in seguito al deflagrare dello scandalo. Queste le parole incriminate: «Si ha l’impressione che si formi sempre lo stesso prototipo di giocatori: grossi, forti, potenti. E chi sono attualmente quelli grossi, forti, potenti? I neri. È un fatto. Credo che dobbiamo ripensarci, specie per dei ragazzini, avere degli altri criteri, plasmarli con la nostra cultura. Prendete gli spagnoli: loro non hanno di questi problemi. Gli spagnoli mi hanno detto una volta: noi di neri non ne abbiamo».
Eppure, la rinascita del calcio francese dopo le macerie di Knysna, sarebbe arrivata proprio grazie a quei binazionali così tanto osteggiati dall’ex difensore dell’Inter. Molti dei quali sfornati vari pôles espoirs disseminati per l’Esagono, da dove per esempio proviene anche Kylian Mbappé, di cui il presidente Emmanuel Macron è il primo sponsor: «Grazie ai centri federali i club investono sui giovani indipendentemente dalle loro origini», ha dichiarato Monsieur Le President. A ulteriore testimonianza di come, almeno a livello calcistico, la bilancia dell’interscambio tra Francia e Africa è in sostanziale equilibrio. O quasi.