I giovani italiani fanno bene ad andare a giocare all’estero?

L'esplosione di Gnonto al Leeds ha riacceso il dibattito: in Italia i talenti hanno poche e insufficienti opportunità?

La settimana scorsa, in una sera qualsiasi di FA Cup, Wilfried Gnonto ci ha messo meno di un minuto per prendersi la scena e le attenzioni di tutti in Leeds-Cardiff. Rodrigo ha giocato un pallone sulla trequarti rientrando da destra, si è mosso verso il centro e deve essersi scambiato uno sguardo o un cenno d’intesa con l’attaccante italiano perché il sincronismo tra i due è stato perfetto: scatto oltre l’ultimo difensore e palla alta in profondità verso lo spigolo dell’area piccola. A quel punto Gnonto ha fatto la cosa più difficile e l’ha fatta sembrare facile, ha calciato al volo, saltando, coordinandosi in una sforbiciata che ricorda il gol di McManaman nella finale di Champions League del 2000. Mezz’ora più tardi ha segnato il 3-0 con un gol che non avrà fatto poi chissà quante volte, ma sembra di poter già vedere tutte le volte che lo farà in futuro, puntando il difensore in corsa, rientrando da sinistra per stringere la conclusione sul primo palo.

Willy Gnonto è una speranza e una promessa per il calcio italiano. Il suo impatto con la Premier League non è stato esaltante da subito, ma con il passare delle settimane è diventato sempre più semplice per l’allenatore del Leeds, Jesse Marsch, dargli spazio e opportunità, e adesso è un titolare che ha segnato tre gol nei primi venti giorni dell’anno. In Italia questo recente picco di rendimento è stato raccontato soprattutto con un tono malinconico, come un rimpianto per la Serie A che se l’è fatto scappare troppo presto. Gnonto è uno dei tanti altri giovani italiani che giocano all’estero e stanno emergendo settimana dopo settimana: teenager o appena ventenni che in Italia non hanno trovato spazio, o temevano di trovarne troppo poco, e hanno scelto di provare altri campionati, altre squadre, altre esperienze. Sono le stesse dinamiche di qualsiasi altro settore del mondo del lavoro: se qui non ci sono le giuste opportunità, c’è quella fuga di cervelli – forse l’espressione del giornalismo più plastica che esista – che porta i giovani altrove: è la conseguenza più naturale possibile in un mercato globale e globalizzato, se da un lato c’è la miopia di chi non sa intravedere le qualità di chi non ha ancora fatto esperienza, dall’altro ci sarà chi ne approfitterà.

L’estate scorsa Cesare Casadei ha scelto di lasciare l’Inter per andare al Chelsea, che ha uno dei migliori settori giovanili del mondo e anzi ha problemi di sovrabbondanza di giovani talenti. Dalla sua cessione l’Inter ha incassato 15 milioni di euro: forse tra qualche anno avrà un valore di mercato triplo o quadruplo, quindi i nerazzurri potrebbero pagare la loro poca lungimiranza, ma 15 milioni non sono pochi per un giocatore che non è mai stato un elemento importante della prima squadra. Capita sempre più spesso in Serie A, come insegna l’Atalanta con Kulusevski o Hamad Traore. Ma lo fanno anche Real Madrid, Atletico Madrid, Paris Saint-Germain e lo stesso Chelsea: non c’è un modo migliore di un altro per valorizzare gli investimenti nel settore giovanile, incassare diversi milioni senza perdere un pezzo della formazione titolare dovrebbe essere una nota di merito, non il contrario. È anche il nuovo calciomercato mondiale a muoversi in questa direzione, con i grandi club come acquistano talenti grezzi ancora giovanissimi – come Odegaard, Vinicius Junior o Alphonso Davies – e immaginano per loro traiettorie di crescita di lungo periodo. Può essere una colpa per la Serie A, i club e i loro presidenti, ma bisognerebbe anche riconoscere che quando chiamano le migliori squadre del mondo rifiutare è un po’ più difficile.

Cher Ndour è un centrocampista offensivo delle giovanili del Benfica, nato nel 2004, forse il prossimo grande nome che esploderà a Lisbona prima di trasferirsi altrove. È nato a Brescia e fino a poco fa era nel vivaio dell’Atalanta, ha lasciato l’Italia a 16 anni per uno degli hub di sviluppo del talento più prolifici al mondo. «È un centrocampista già fortissimo nonostante l’età, anche grazie a un fisico pronto per giocare ad altissimi livelli», dice Guido Boldoni di Delphlyx, azienda che dialoga con scout e direttori sportivi grazie a un database statistico sempre aggiornato sui migliori wonderkid del mondo. Quando gli chiedo chi sono i giovani italiani all’estero più promettenti l’elenco sembra non finire mai: «Il problema è che oggi per molti ragazzi l’Italia, inteso come sistema calcio italiano, non è più così attraente per fare l’ultimo step di crescita, quindi preferiscono andare all’estero dove pensano di essere valorizzati maggiormente. E probabilmente hanno ragione loro», dice Boldoni. In estate il CIES Football Osservatory ha raccolto dati molto interessanti sull’utilizzo degli Under 21 ed è emerso che la Serie A era al 52esimo posto su 60 campionati per minuti giocati dagli Under 21 la scorsa stagione. La percezione allora è anche suffragata da un’evidenza numerica.

La lista di ragazzi che lasciano squadre italiane si è allungata parecchio in estate, anche con giovanissimi non ancora pronti per il calcio dei grandi – non subito almeno. Il Bayern Monaco ha comprato dalla Juventus Manuel Pisano, attaccante classe 2006; Alessandro Ciardi, trequartista dell’Inter e della Nazionale Under-17, si è trasferito al Salisburgo dicendo di voler fare esperienza all’estero e giocare in una prima squadra; Cosimo Fiorini della Fiorentina, anche lui classe 2006, ha lasciato l’Italia per lo Zurigo, proprio come aveva fatto Gnonto prima di lui. Il Corriere della Sera aveva trovato anche un aspetto legale non secondario dietro questi trasferimenti: in Italia non è possibile far firmare ai quindicenni un contratto di pre-formazione, a differenza di molti altri Paesi, «quindi al compimento dei 16 anni molti sono già nel mirino di società che offrono al giocatore prospettive professionali migliori per uno sbocco nel calcio dei grandi».

A dicembre il ct della Nazionale italiana, Roberto Mancini, è tornato a stuzzicare club e media convocando Fabio Chiarodia, difensore del Werder Brema nato nel 2005 a Oldenburg, per il prossimo stage. Quel nome che sembrava infilato di traverso, all’ultimo momento, nella lista dei convocati è in realtà un segnale positivo per una Nazionale che non può pensare di attingere solo da un campionato di 20 squadre, indipendentemente dal numero di stranieri che gioca ogni domenica. «Calcisticamente il 2023 dovrà essere l’anno della semina per l’Europeo tedesco. Dobbiamo lavorare per il presente, marzo e giugno, e fare un grande Europeo, e prima provare a vincere la Nations League nel prossimo giugno. Ma i giovani come Bellingham li abbiamo anche noi, la differenza è che in Inghilterra l’hanno fatto giocare. L’Italia ha questo tipo di calciatori, ce ne sono almeno 4-5 di quel livello», ha detto Mancini. La convocazione di Chiarodia è incoraggiante per un movimento che in fondo non ha problemi di produzione e sviluppo del talento, ma ha evidentemente un collo di bottiglia troppo stretto man mano che ci si avvicina alla Serie A. Per la Nazionale, anzi, per le Nazionali – anche quelle giovanili – l’esodo verso i campionati stranieri significa avere più giocatori con l’opportunità di mettersi in mostra, di giocare, trovare fiducia e completare nel modo migliore il percorso di crescita (non è un caso che negli ultimi anni il rendimento delle selezioni giovanili si sia alzato rispetto al passato, i numeri sono riportati in questo lungo thread scritto da Francesco Pagani, scout Figc, su Twitter).

Gianluca Scamacca ha segnato solo 3 gol in quel tritacarne di talento chiamato Premier League e si è ritrovato a fare l’attaccante nel peggior West Ham delle ultime stagioni. Anche Lorenzo Lucca (Ajax) e Mattia Viti (Nizza) speravano di avere un primo impatto migliore nelle loro nuove squadre. Trasferirsi all’estero non equivale a un’assicurazione sulla carriera, non è sinonimo di successo, per il giocatore, per la Nazionale, men che meno per il movimento calcistico di un Paese. Però allarga il panorama, sfonda delle barriere che non avrebbero senso di esistere e offre nuove opportunità, ai giocatori, alla Nazionale, in qualche modo anche ai club italiani che vendono – come l’Inter con Casadei. Quando il prossimo Willy Gnonto stupirà tutti con gol e altre giocate fantastiche torneremo a chiederci perché nessun club italiano ha pensato di farlo giocare in prima squadra, perché quel dirigente se l’è fatto sfuggire mentre in un’altra parte del mondo c’è qualcuno che ha avuto il coraggio di investire.