Stiamo finalmente cominciando a capire Felipe Anderson?

La sua carriera è stata un'altalena in cui ha finito per non dare il meglio di sé: Sarri lo ha finalmente liberato da ogni angoscia?

Dal suo arrivo sulla panchina della Lazio, Maurizio Sarri non ha mai rinunciato a Felipe Anderson. Il brasiliano, tornato a Roma nell’estate del 2021 ha giocato finora 75 partite su 75 in tutte le competizioni. A 29 anni Anderson ha finalmente mostrato costanza e ha forse raggiunto il suo picco di rendimento, dopo una carriera enigmatica e altalenante, in cui da potenziale fuoriclasse si era trasformato in «niente di meno che una disgrazia», come lo aveva definito qualche anno fa Sam Delaney nel podcast del The Athletic sul West Ham. Ha iniziato il 2023 alla grande, segnando in 4 partite consecutive e risultando decisivo sia quando ha giocato esterno alto sia quando, per l’infortunio di Immobile, Sarri lo ha schierato come centravanti.

Partendo da numero 9, ha avuto un ruolo decisivo in 3 dei 4 gol con cui la Lazio ha dominato il Milan di Pioli lo scorso 24 gennaio. In occasione dell’1-0, è sceso a prendersi il pallone in mezzo al campo, portando fuori Kalulu e lanciando Zaccagni sulla fascia con un preciso sinistro; sul cross rasoterra dell’esterno è stato poi lucido a far scorrere il pallone dopo il velo di Luis Alberto, permettendo a Milinkovic-Savic di segnare. All’inizio del secondo tempo è scattato sulla sinistra su un rilancio di Hysaj e ha approfittato dell’indecisione di Tatarusanu per controllare e mettere in mezzo il pallone su cui Zaccagni ha guadagnato il calcio di rigore trasformato da Luis Alberto per il 3-0. Poi al 75esimo, sull’assist filtrante del numero 10 della Lazio, ha segnato il gol del 4-0, battendo Tatarusanu dal centro dell’area.

In quest’ultimo anno e mezzo, e in particolare dall’inizio del 2023, Felipe Anderson ha aggiunto varie dimensioni al suo gioco. È molto migliorato tatticamente, riuscendo addirittura a non far rimpiangere un giocatore fondamentale per la Lazio come Immobile quando ha giocato da falso nueve (soprattutto contro le squadre meno chiuse come Atalanta e Milan) e ha imparato a sacrificarsi, andando incontro alle richieste di Sarri in fase di pressing, di riaggressione e nei movimenti senza palla. A questo, chiaramente, ha aggiunto il suo incredibile talento, lo stesso che ci aveva mostrato per la prima volta ormai quasi nove anni fa, quando il brasiliano era apparso come uno dei migliori prospetti in Italia e in Europa.

Anderson si rivela nella stagione 2014-2015 nella Lazio verticale e intensa di Stefano Pioli (terza in classifica a fine stagione), che esalta tanto le sue straripanti conduzioni sulla fascia, quanto la sua capacità di dare le giuste pause a un contesto frenetico. Partendo da esterno alto a sinistra o a destra nel 4-2-3-1 o nel 4-3-3, il brasiliano mostra il suo repertorio di accelerazioni palla al piede, uno contro uno e letture offensive, chiudendo il campionato con 10 gol, 7 assist e 3,3 dribbling completati a partita (il migliore in questa statistica dietro agli argentini Perotti e Vázquez). La sua doppietta in Inter-Lazio 2-2 del 21 dicembre 2014 è un manifesto del primo Felipe Anderson: ci sono la qualità del suo primo controllo, l’abilità di calciare in porta indifferentemente di destro e di sinistro, la tecnica in velocità. Anderson comincia il 2015 con due assist e un gol alla Sampdoria e, pochi giorni dopo, si prende la scena nel derby con un assist e un gol bellissimi, prima che la doppietta di Totti (con selfie sotto la Sud) ne oscuri un po’ la grande prova.

La sua esplosione non passa inosservata in Europa: a fine marzo il Manchester City pubblica un post in cui il club ammette di stare seguendo Anderson, chiedendo ai tifosi se l’abbiano visto in azione e attirandosi una tempesta di commenti di tifosi laziali: «Felipe nun se tocca!», scrivono. «La società ha trovato un grande giocatore, con enormi potenzialità. È migliorato molto nel sapersi muovere senza palla e ha grande abilità quando deve giocare tra le linee. Lì è quasi immarcabile. Ma può crescere ancora molto», dice in quei giorni Pioli, non mettendo limiti al futuro di Felipe Anderson.

Il 2015-2016 lo aspettano tutti quindi per la definitiva consacrazione, ma la stagione non va benissimo per lui e per la Lazio. Mette insieme 9 gol e 4 assist tra campionato ed Europa League, ma quasi tutte le sue statistiche peggiorano (oltre alla partecipazione ai gol, si riducono anche i dribbling e i passaggi chiave), non aiutate certo dal rendimento altalenante della squadra, che finirà ottava in campionato dopo aver esonerato Pioli e chiamato dalla Primavera Simone Inzaghi. Anderson comincia a sperimentare quella sensazione di incompiutezza e incompletezza che spesso lo accompagneranno nel corso della carriera.

Nell’analizzare da fuori le traiettorie di calciatori incapaci di esprimere al massimo il loro talento si fa sempre fatica a capire le cause, a misurare cosa abbia influito di più nella discrepanza tra quello che ci era stato promesso, e quello che effettivamente abbiamo visto. A volte il problema sta proprio nelle aspettative di chi giudica, altre invece subentrano una serie di contingenze come i problemi fisici e le incomprensioni tattiche. Ci sono le scelte sbagliate (o sfortunate) in momenti sbagliati, le difficoltà mentali e psicologiche, l’incapacità di migliorarsi e di rimanere al top. Siamo stati noi a sopravvalutare Felipe Anderson, pensando che potesse diventare un calciatore sempre decisivo ai massimi livelli, oppure lui non è stato all’altezza del suo potenziale? Riguardando i gol, le giocate, i colpi di classe del primo Anderson, ma pure quelli dell’Anderson di queste ultime stagioni, rimane un po’ la sensazione del what if, perché davvero in certi momenti ha dato e dà tuttora una sensazione di onnipotenza tecnica e fisica. Quel se, però, resta difficile da inquadrare. Sicuramente il passaggio definitivo di Simone Inzaghi al 3-5-2 nel 2017-2018, il brutto infortunio subìto all’inizio di quella stagione e il litigio con lo stesso allenatore al momento del rientro hanno contribuito a far finire la sua prima esperienza laziale. A 25 anni, quando teoricamente avrebbe dovuto avvicinarsi al suo picco, Anderson si è ritrovato a ripartire dal West Ham, tredicesimo nell’ultima Premier League, e se nessun top club in quel momento ha deciso di puntare su di lui, forse è stato proprio per questa sensazione di discontinuità.

Analizzando la sua carriera, si delinea un pattern abbastanza accurato ed evidente. Il rendimento di Anderson è stato spesso ottimo quando un nuovo contesto lo ha motivato: l’anno dell’esplosione con Pioli, la prima stagione con Inzaghi (nel 2016-2017 ha segnato poco, ma ha partecipato molto di più al gioco, diventando uno dei giocatori più creativi del campionato, con 9 assist, oltre 2 passaggi chiave e 3,3 dribbling a partita), il primo anno in Premier League (9 gol nella stagione d’esordio e un grande impatto), il ritorno alla Lazio con Sarri in panchina. Quando invece dal contesto intorno a lui sono arrivati meno stimoli (il complicato 2015-2016 con Pioli, la stagione con Inzaghi in cui ha giocato poco e in un ruolo non suo, la seconda stagione in Premier, dove ha capito di essere in una squadra poco ambiziosa), il brasiliano ha finito per eclissarsi. È come se Felipe Anderson, nonostante un talento all’apparenza autosufficiente, faticasse a brillare di luce propria, ma avesse invece bisogno di sentire intorno a lui entusiasmo, energia, impulsi positivi. Non è un caso se in questa seconda stagione con Sarri ha ulteriormente alzato il suo livello, invece di rallentare come fatto in passato: perfezionando i meccanismi del suo gioco, e dandogli nuove funzioni e nuove responsabilità, l’allenatore biancoceleste ha saputo mantenere alto il livello di coinvolgimento del suo attaccante, e Anderson non aspettava altro per mostrare con continuità di cosa è capace.

Nella sua carriera Felipe Anderson ci ha abituato a grandi exploit e grandi cadute (prima di rinascere alla Lazio, aveva raggiunto il suo punto più basso al Porto, dove in 6 mesi aveva giocato appena 5 partite di campionato). Questa volta, però, il suo secondo anno sta andando ancora meglio del primo, segno che ha trovato la sua comfort zone, ma che è pure maturato, a ormai quasi 30 anni. La sua dimensione forse non sarà mai quella di un giocatore decisivo in un top club, ma sicuramente quella di un calciatore in grado di fare grandissime cose in alcuni momenti. Un po’ come la Lazio, del resto, che prima con Inzaghi e poi con Sarri ha giocato partite di livello sublime, senza però mai diventare una contender per il titolo del tutto credibile. Soprattutto, però, Felipe Anderson ha dimostrato di essere uno dei calciatori più divertenti e spettacolari della Serie A, e allora probabilmente invece di chiederci cosa sarebbe stato se, dobbiamo solo pensare a godercelo.