Rashford è diventato uno degli attaccanti più completi d’Europa

Ci ha messo un po' di anni, ma ha finalmente trovato la formula di una miscela esplosiva: corsa, equilibrio, gol e assist.

Il 14 agosto, il giorno dopo il clamoroso 4-0 rimediato contro il Brentford di Thomas Frank – seconda sconfitta in altrettante gare di Premier League – Erik ten Hag annullò il giorno di riposo già programmato e costrinse tutti i giocatori del Manchester United, compresi quelli che non avevano giocato, a correre sotto un sole cocente i quasi 14 chilometri di differenza che c’erano stati sul campo tra le due squadre, al culmine di una prestazione sconcertante: «Loro si sono dimostrati molto più affamati di noi e, come se non bastasse, abbiamo concesso i primi due gol con due nostri errori individuali. Puoi avere il miglior piano-partita del mondo, ma è tutto inutile se poi lo getti nella spazzatura praticamente subito», aveva detto il tecnico olandese nelle interviste post gara. Quell’episodio, raccontato diffusamente su The Athletic, è stato considerato come il punto di svolta della stagione dei Red Devils, soprattutto perché fu in quel momento che Ten Hag comprese che avrebbe dovuto liberarsi di Cristiano Ronaldo, un peso non più sostenibile da una squadra in ricostruzione e, quindi, ancora alla ricerca di una sua precisa identità tattica e tecnica.

Chi ne stava pagando le maggiori conseguenze era soprattutto Marcus Rashford, schierato titolare sia contro il Brighton che contro il Brentford eppure incapace di incidere tecnicamente e fisicamente sulle partite, limitato nei movimenti con e senza palla dall’anarchia tattica del portoghese che di giocare da numero 9 non sembrava proprio volerne sapere. La settimana dopo a Old Trafford contro il Liverpool, Ten Hag schierò Rashford prima punta in un 4-2-3-1 dalle spiccate tensioni verticali e che non prevedeva la presenza di CR7, entrato solo a quattro minuti dalla fine in sostituzione proprio del numero 10, autore del gol del 2-0 dopo aver attaccato una di quelle tracce in profondità che nei precedenti 180 minuti non era mai riuscito a percorrere: «Sono convinto che Rashford e Sancho possano costituire una minaccia costante contro qualsiasi avversario: hanno entrambi una grande concentrazione e la loro energia è molto difficile da contenere. Perciò come squadra dobbiamo metterli nelle condizioni di esprimersi al meglio e anche loro devono mostrare la giusta attitudine in non possesso», spiegò Ten Hag.

Da quella partita Rashford è diventato il vero insostituibile del Manchester United, il giocatore cui l’allenatore fa molta fatica a rinunciare – 2.363 minuti giocati su 2.880 disponibili in stagione – il centro tecnico ed emotivo di una fase offensiva in cui i suoi numeri individuali fuori scala sono anche lo specchio di una crescita esponenziale del collettivo: 8 gol e 3 assist nelle 19 partite prima della sosta per il Mondiale, addirittura 11 e 4 in 13 presenze di ritorno dal Qatar, a metà della sua migliore stagione di sempre a livello realizzativo, quella in cui ha già dato seguito al suo proposito di «segnare più di quanto abbia mai fatto in carriera, perciò direi 22 o 23 gol. Ho bisogno di continuare a segnare, di decidere le partite. Ogni attaccante ha un obiettivo di reti che vuole provare a raggiungere e il mio è quello».

Queste parole risalgono alla partita contro il Nottingham Forest del 28 dicembre, che Rashford decise con un gol e un assist – nei primi 20’ – nel 3-0 finale: il fantasma di Ronaldo era stato già scacciato via sul taglio esterno-interno ad aggredire il primo palo per chiudere lo schema da calcio d’angolo per l’1-0 e lo stesso Ten Hag definitivamente convinto non solo della bontà della scelta operata a fine estate ma anche del fatto che «Rashford ha il potenziale per raggiungere le 20 reti in Premier League. Sta viaggiando su ottimi livelli, le sue prestazioni migliorano partita dopo partita. Per le difese avversarie è una minaccia costante, ha segnato già molto ma è molto utile anche in fase difensiva».

Al minuto 19 e al minuto 22: un gol e poi un assist per Martial, dopo una sterzata perfetta per mettere fuori gioco la difesa

La vera grandezza – presente ma anche futura – di Rashford, ciò che lo distingue dagli altri wonder boys del calcio inglese, non sta però solo in questi numeri, che pure sono importanti perché servono a restituire la misura della sua definitiva esplosione, a fornire un riscontro tangibile e reale qualsiasi discorso sul suo essere diventato finalmente uno dei migliori attaccanti d’Europa e del mondo. Quest’ultima, in fondo, è una dimensione cui Rashford ha sempre sentito di appartenere: lo ha raccontato lui stesso nel 2017 su The Players’ Tribune, ricordando come ricevere in regalo la numero 9 dell’Inghilterra di Wayne Rooney sia stato il momento chiave in cui ha capito chi era e chi voleva diventare, lo ha ricordato Paul McGuinness, uno dei suoi primi allenatori nell’Academy dello United, che a Four Four Two disse che «Rashord teneva così tanto a migliorarsi che guardava gli altri attaccanti e poi mi scriveva: “Hai visto come si coordina Luis Suárez?”, oppure “hai visto i movimenti che fa Sergio Agüero?”, perché voleva aggiungere quelle cose al suo gioco».

La questione riguarda come Rashford sia arrivato a questo punto o anche perché ci sia arrivato solo adesso, a 25 anni, teoricamente in ritardo sulla tabella di marcia di un’epoca caratterizzata da talenti generazionali sempre più precoci, quando ha trovato – e convinto – un allenatore a metterlo al centro del suo progetto tattico: «Non sono un mago, è semplicemente una questione di fiducia in sé stessi e lui ha lavorato e ha investito tanto su questo. Ovviamente con il mio staff cerchiamo di dare ai giocatori delle sovrastrutture adeguate, una routine che possa aiutarli a trovare il modo migliore per esprimersi, ma alla fine dipende sempre da loro: quando un giocatore trova fiducia può esprimersi al meglio e per Marcus è accaduto e sta accadendo proprio questo, allenamento dopo allenamento, partita dopo partita», ha detto recentemente Ten Hag, il cui lavoro a un certo punto ha riguardato anche la sfera psicologica e motivazionale. Nella gara contro il Wolverhampton del 31 dicembre, ad esempio, il tecnico ha lasciato il suo numero 10 in panchina nei primi 45’ a causa di non ben precisati motivi disciplinari; entrato in campo subito dopo l’intervallo Rashford ha impiegato poco meno di 30 minuti per segnare il gol della vittoria e dare «la risposta giusta, quella che serviva a noi e a lui».

Movimento a rientrare, taglio, caparbietà, lucidità anche in un fazzoletto di attimi e centimetri

Marcus Rashford è, anzi è sempre stato, il tipico attaccante inglese di nuova generazione, rapido, iper-tecnico, costruito su una dimensione fisica fuori scala dal punto di vista dell’esplosività e dell’atletismo puro, senza però dipendere esclusivamente da essa. Parliamo di un calciatore saettante, elettrico, che può occupare con eguale efficacia il ruolo di prima o seconda punta – meglio se da esterno offensivo a piede invertito che taglia verso l’interno sul piede forte – in un calcio in cui la velocità d’esecuzione e i tempi di reazione in spazi sempre più piccoli sono ciò che ci permette di marcare la differenza tra i giocatori, a includere alcuni di loro in una categoria élite sempre più ristretta.

Ogni movimento con e senza palla di Rashford è finalizzato al gol, a trovare il modo di concludere verso la porta nel modo più efficace e rapido possibile sfruttando un calcio secco, potente, preciso. Il tiro per Rashford è sempre la soluzione primaria, l’espressione privilegiata di uno stile di gioco immediato e diretto, persino brutale nel modo in cui è riuscito a traslare ad altissimo livello il “appena vedi la porta, tira”, che costituisce un brocardo del calcio di strada. La sua coordinazione anche in spazi stretti, il modo in cui sposta e si aggiusta la palla prima di calciare, il numero di tocchi preparatori ridotto all’essenziale, fanno di Rashford uno striker letale indipendentemente dalla distanza. Anzi a volte si ha la sensazione che più Rashford si trovi lontano dalla porta più il suo tiro sia destinato ad andare a segno, soprattutto se “azionato” dalla sua classica progressione palla al piede che funge quasi da detonatore della conclusione: contro il Burnley entra dentro il campo come una lama nel burro, cambiando quattro volte direzione nello spazio di 70 metri e cinque secondi ma con lo sguardo sempre rivolto verso la porta, prima di esplodere un destro violento e talmente preciso da andare a insaccarsi nell’intersezione tra il palo opposto e la cucitura della rete; contro l’Arsenal all’Emirates ha bisogno di appena quattro tocchi prima di lasciar partire una fucilata di collo-esterno che Ramsdale vede arrivare quando il pallone l’ha praticamente già superato.

Tunnel + gol da fuori area, contro l’Arsenal primo in classifica. Poi, dito alla tempia

La corsa, o meglio il modo di correre di Rashford, è l’altro elemento che lo caratterizza. Che si tratti di una partenza da fermo isolato in uno contro uno contro l’esterno basso avversario o di una situazione dinamica sulla transizione, quello che impressiona è la sua capacità di esprimere elasticità ed esplosività all’interno dello stesso, il riuscire a mantenere controllo del corpo anche alla massima velocità: guardare Rashford attaccare la profondità o tagliare da sinistra verso il centro palla al piede significa guardare un giocatore che non vai mai fuori giri anche se va al doppio di chi lo circonda, che è in grado di andare più veloce con la palla che senza, che quasi sembra passare attraverso gli avversari con la levità tipica di chi non solo non può essere preso ma non può nemmeno essere visto, come nel caso del gol in Coppa di Lega contro il Nottingham Forest. In questo momento, come lui, c’è solo Mbappé in grado di deformare così a piacimento, e in maniera così evidente, la dimensione spazio-temporale di una singola giocata tanto da dare l’impressione di una velocità di piede e di pensiero che sia troppo per chiunque.

Rispetto ai suoi predecessori Erik ten Hag ha avuto il merito di mettere tutto assieme, di non confinare il talento di Rashford dentro i limiti del supersub o del giocatore esclusivamente verticale, ma anzi accrescendogli compiti e responsabilità creative, costringendolo ad affinare le sue doti da finalizzatore in area di rigore, mettendolo al centro di una fase offensiva modellata sulle sue caratteristiche di base e sull’idea che debba essere lui a far succedere qualcosa, quando vuole e come vuole. Praticamente ciò che fece Ferguson quando capì che Cristiano Ronaldo avrebbe potuto essere qualcosa di più di un fumoso esterno tutto dribbling.