La signora del biathlon

Dorothea Wierer ha fatto conoscere il suo sport al nostro Paese, a suon di medaglie e risultati importanti. Svelando un universo di fatiche, pressioni, adrenalina che il biathlon porta con sé, e che Dorothea gestisce in un modo assolutamente unico.

Non ha un mental coach, nonostante il biathlon sia sport che richiede nervi d’acciaio. Non segue un’alimentazione particolare. Per dirla a parole sue, «non ho mai fatto robe strane». Dorothea Wierer fuoriclasse del biathlon, unico italiano tra uomini e donne ad aver vinto (due stagioni consecutive) la Coppa del Mondo generale, non gioca a fare l’anticonformista. Non sottovaluta alcun dettaglio. Ma è come se ci fossero aspetti che lei considera naturali per poter competere ad alto livello. È come se fosse caduta da piccola nella pozione della competitività. Di sé dice: «Non mi sono lasciata robotizzare dal professionismo, ho sempre provato a rimanere me stessa, ho sempre seguito le mie idee».

In questo ricorda Adriano Panatta che si è sempre intestato un merito: aver reso il tennis uno sport popolare, averlo sottratto al monopolio delle classi agiate. Ecco, Wierer è l’equivalente del biathlon. Uno sport indubbiamente meno conosciuto, in cui gli italiani hanno sempre avuto cognomi strani, atleti scoperti dal grande pubblico solo in caso di medaglie olimpiche. «Il biathlon è uno sport di nicchia», dice «in Italia abbiamo pochissimi atleti rispetto ad altre nazioni. Certo un po’ di anni fa nessuno parlava di biathlon, nessuno lo conosceva, ora hanno scoperto questo sport, questo è vero. Ovviamente non solo grazie ai miei risultati ma anche a quelli dei miei compagni. È certamente un aspetto molto gratificante, anche se non c’è paragone rispetto ad altri paesi dove è considerato sport nazionale».

È stata principalmente Dorothea a far saltare questo tetto. Con i suoi risultati, innanzitutto: le due coppe del mondo. Dieci medaglie ai Mondiali, quattro solo ad Anterselva davanti al pubblico di casa e con i riflettori dei media puntati. Ma non è solo questione di risultati. Lei buca il video. Per il suo aspetto fisico ma anche e soprattutto per il suo modo di fare, la schiettezza, la sua nettezza che ha il pregio di non sfociare mai nella ruvidezza anche se i concetti te li trasmette in maniera diretta, senza perifrasi. Lo ha fatto anche nel corso di quest’incontro con Undici

Ⓤ: A 32 anni, Wierer non si è stancata della vita da atleta. E quindi della fatica che è un elemento imprescindibile del biathlon. 

È uno sport di endurance, devi riuscire andare andare oltre il tuo massimo, e devi farlo più volte che puoi. Non è per nulla semplice, talvolta i risultati ti aiutano: se sei in testa, se i tuoi allenatori ti comunicano notizie positive, riesci a dare quel qualcosa in più. Sennò è ancora più dura. La fatica fa parte della nostra esistenza, se non ti piace la fatica è meglio che cambi sport (scoppia a ridere, nda). Ci alleniamo tutti giorni, undici mesi all’anno. Dalle due alle sei ore al giorno. Ogni anno 700 ore di preparazione fisica e 200 di tiro. 

Ⓤ: Sopportare la fatica deve essere compensato da un piacere, dall’adrenalina.

L’adrenalina accompagna la tua vita di atleta. È sempre con te. Al momento della partenza sei sempre piena di adrenalina, hai tante pressioni, ci sono tante incognite, non sai bene come stai e come andrà, quale risultato riuscirai a ottenere. È un momento di grande tensione. Quando disputi una bellissima gara, fai zero al poligono, ti comunicano che sei davanti, l’adrenalina produce un surplus di energia.

Ⓤ: Il biathlon è sport di fatica ma, come dici tu, richiede sempre concentrazione massima. 

Devi essere pronto a fronteggiare imprevisti e difficoltà, non puoi mai rilassarti. Basta un poligono sbagliato e cambia tutto. È uno sport particolare, capita che ti senti benissimo ma poi non riesci a esprimerti come vorresti, commetti due errori al tiro e ti si scombussola il piano gara. Magari sai che non hai più chance ma non è che puoi mollare. Devi dare comunque il massimo fino all’arrivo. L’aspetto psicologico è fondamentale, devi essere pronto a tutto. 

Ⓤ: E qui ci aspetteremmo preparazioni studiate meticolosamente, invece Dorothea ci smentisce.

Dal punto di vista mentale non faccio cose particolari o strane. Non ho un mental coach, non ne ho mai sentito l’esigenza. Credo che il sangue freddo tu lo acquisisca con l’esperienza. Al poligono devi essere freddo, devi mantenere la calma. Quando tiri, ci sono giorni in cui va tutto da solo, sei un automatismo perfetto, e poi ne capitano altri in cui pensi tantissimo, hai paura di sbagliare. Puoi provare a concentrarti sui dettagli per non pensare troppo. Ma questi sono aspetti che non si possono programmare. È molto difficile. Poi dipende anche dal tuo carattere. Devi essere un po’ atleta da gara. Ci sono atleti da allenamento e atleti da gara. Io sono una da gara. Più aumenta la difficoltà, più do il meglio di me. In allenamento ci sono giorni in cui non riesco ad esprimermi. Succede, bisogna andare avanti anche quando sembra che nulla ti riesca. Ti servirà. 

Ⓤ: Può esistere lo sport ad alto livello senza la disciplina?

No, non si può fare sport ad alto livello senza disciplina. Ormai tutti gli sport richiedono applicazione estrema sin da piccoli, sennò non hai chance di emergere. Tutto è diventato più professionale: dall’alimentazione alla preparazione delle gare, alla cura dei materiali. Ore di allenamento a curare la precisione al tiro, devi avere disciplina a gestire tutto quello che c’è intorno alla gara. 

Ⓤ: Anche se per l’alimentazione sei apparentemente naive.

Mangio un po’ di tutto. Non seguo diete strane anche perché bruciamo talmente tante calorie. Sono amante della cioccolata che non è proprio il massimo. Cerco di evitare i dolci, quelle robe lì. Abbiamo bisogno di tanti carboidrati. Le energie sono fondamentali. Se in gara ti mancano le energie, non hai chance.

Ⓤ: Citando Underwater, il docufilm su Federica Pellegrini, ti chiediamo se non si parli poco della reale vita degli atleti. 

È vero, si parla poco della vita dietro le quinte. Forse è anche colpa nostra. Ormai la comunicazione avviene soprattutto su social e si comunicano solo le cose belle, le belle giornate, gli allenamenti sotto il sole. Mai quelli in cui non vai avanti, mai i giorni in cui non riesci a dormire perché sei troppo stanca, tra allenamenti, voli, bagagli, torni a casa tre giorni e poi devi ripartire. È la parte che nessuno vuole vedere, ci piace mostrare solo gli aspetti positivi. Certo gli atleti di sport ad alto livello sono fortunati ma allo stesso tempo ci sono condizioni molto impegnative, anche rispetto alla famiglia. Io, ad esempio, sono poco a casa.

Ⓤ: Sei brand ambassador di Omega, l’azienda che misura il tempo e quindi i record di ogni gara delle Olimpiadi Invernali. Qual è il tuo rapporto col tempo?

Tutto è scandito dal tempo. Non solo in gara, ma anche in allenamento. Si convive col tempo. Corriamo contro i nostri concorrenti, anche e soprattutto contro il tempo, anche al tiro. Si lavora per essere i più veloci possibile, ci si allena per limare i centesimi. Bisogna provare a risparmiare tutto quello che è possibile risparmiare, anche nello sci di fondo. 

Ⓤ: Infine, una domanda forse un po’ scontata: quanto rode fare tanta fatica e poi osservare la fama dei calciatori?

(Sorride, nda) Alla fine sono cresciuta così, adesso c’è un po’ più di attenzione. In Norvegia, Germania, Russia, il biathlon è sport nazionale. Un po’ di fastidio dà, ci facciamo un culo così. Te stai là fuori a spingere, non certo a fare la bella vita. 

 

Da Undici #48