Come Fifa e i videogiochi hanno influenzato il calcio reale

La missione del videogioco, per anni, è stata quella di assomigliare il più possibile alla realtà. Adesso il paradigma è cambiato: è la realtà che sta sempre più imitando il titolo di EA Sports, rendendolo il “super influencer” del calcio.

In questo mondo e in questa epoca, la vera popolarità è gratis. Oggi, qualsiasi brand può far consigliare, promuovere, amare qualsiasi cosa a qualsiasi celebrity: l’importante è mettersi d’accordo sulle cifre. Per esempio: in media, per un post sui social media in cui si consiglia questo o quel consumo, si suggerisce questo o quell’acquisto, una celebrity degna di questo nome non chiede meno di diecimila dollari. È l’influencer economy, bellezza: è un gioco e come tutti i giochi ha le sue regole. Come tutti i giochi ha anche le sue eccezioni, però: quei rari e preziosi momenti di autenticità in cui le celebrity si prendono una pausa dal ciclo continuo della fatturazione e “regalano” – nel senso stretto della parola – a prodotti o servizi degli spazi nei loro feed social che normalmente sono a pagamento. La vera popolarità è gratis, si diceva: in questo mondo e in questa epoca, nessuno è più popolare di chi non ha bisogno di pagare per esserlo. Chissà cosa prova il direttore marketing di un brand quando scopre che il prodotto di punta dell’azienda per la quale lavora è finito sul profilo Instagram di LeBron James o sul Twitter di Justin Bieber senza che lui facesse assolutamente nulla: “organicamente”, come si dice nella neolingua dei social media. Non succede, direte voi. E invece è successo. Un direttore marketing che potrebbe raccontare la sensazione è quello di EA Sports, che una mattina si è svegliato e si è ritrovato nel feed Instagram una foto dei figli di LeBron James impegnati in una partita di Fifa, accompagnata dalla caption paterna: «Game is fresh to death!». Viene da immaginare la soddisfazione del direttore marketing di EA Sports di fronte a un endorsement così efficace e soprattutto così gratuito. Viene da immaginare anche il suo entusiasmo quando, chiuso Instagram e aperto Twitter, lo stesso direttore marketing di EA Sports è incappato in un tweet in cui Justin Bieber annunciava a Drake che «Sto diventando fortissimo a Fifa. Preparati».

Nel 1993, l’anno in cui nei negozi di videogiochi arrivò la prima iterazione di Fifa, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quel gioco sarebbe diventato oggetto dell’attenzione di atleti Nba e popstar internazionali. Trip Hawkins, il programmatore che nel 1982 aveva fondato EA Sports, ha raccontato che in quegli anni c’era ancora grandissimo scetticismo sulle reali possibilità del “soccer” di aggiungersi alla lista degli sport americani. «Non fregava niente a nessuno», ricorda Hawkins di quegli anni. Ed è per questo che il progetto, all’inizio, fu affidato a due designer freelance che se ne andarono in Inghilterra, a Liverpool, per trovare l’ispirazione che mai avrebbero trovato negli Usa. Fu lì che i due – Jules Burt e Jon Law – ebbero l’idea del cosiddetto isometric-camera angle, l’angolazione che mostra la partita come se si stesse seduti in un ipotetico secondo anello di uno stadio e non dall’alto verso il basso, come erano soliti fare quasi tutti i videogiochi di calcio di quegli anni. L’angolazione della camera fu la prima cosa che rese Fifa diverso, rivoluzionario: permetteva di vedere le figure dei giocatori per intero, cambiando di fatto l’esperienza del gioco e rendendola molto più simile a quella della partita.

Nel 1993, per la maggior parte degli americani il calcio era ancora soprattutto uno sport femminile: un maschio che decideva di giocare a calcio era probabilmente uno che non era riuscito a giocare a football, a basket, a baseball, a hockey. Lo scetticismo dell’epoca influenzò anche la nascita del gioco che oggi conosciamo solo come Fifa e che allora era ancora Fifa Internationl Soccer: il gioco fu realizzato in appena cinque mesi, fu messo in commercio senza preoccuparsi troppo di bug, difetti e problemi, il budget per realizzare, distribuire e promuovere era di appena centocinquantamila dollari. Oggi, per realizzare un videogioco Fifa è impensabile spendere meno di 350 milioni. Questa curva non racconta soltanto la crescita dei costi di realizzazione-distribuzione-promozione di un videogioco, ma anche lo status pop culturale che Fifa è riuscito a guadagnarsi dal 1993 a oggi, anno in cui ogni domenica – il giorno della Messa e di Fifa, stando alle statistiche che lo indicano come giorno in cui ci si dedica di più al videogioco – in tutto il mondo si tengono circa duecento milioni di partite. In quasi tutte le biografie e autobiografie di calciatori, c’è un aneddoto riguardante Fifa. Andrea Pirlo ha definito il gioco «la più grande invenzione umana dopo la ruota». Lionel Messi soffre di una vera e propria dipendenza dal gioco: è capace di giocarci per ore e ore di fila, senza mai staccare le mani dal controller e gli occhi dallo schermo, dimenticandosi anche di bere, mangiare, andare in bagno.

Anche Zlatan Ibrahimovic è un grandissimo fan di Fifa, o forse lo è stato fino a quando non ha scoperto che la presenza del suo avatar nel gioco a lui non portava alcun tipo di remunerazione economica. Nel 2020 Ibrahimovic protestò pubblicamente su Twitter, scrivendo che lui non aveva mai dato il suo consenso alla riproduzione e all’uso della sua immagine nel videogioco. Alla protesta si unì poi anche Gareth Bale, che lanciò l’hashtag #TimeToInvestigate con l’intento di chiarire finalmente come, quando, perché e, soprattutto, per decisione e guadagno di chi, i volti e i corpi dei calciatori finiscono dentro Fifa. Come tutte le cose che iniziano sui social, l’indagine lanciata da Bale non ha poi portato a nulla, ma il suo agente in quelle settimane ammise che probabilmente l’obbligo di prestazione videoludica era previsto dal contratto firmato dal suo assistito.

Per molti, la polemica iniziata da Ibrahimovic e proseguita da Bale fu la scoperta del potere ormai acquisito da EA Sports e da Fifa: quello di trattare da pari con i top club del calcio europeo e addirittura con le intere federazioni calcistiche nazionali. Quattro dei cinque più importanti campionati d’Europa, infatti, trattano e cedono i diritti per lo sfruttamento della loro immagine – sarebbe meglio dire immagini: parliamo di stadi, loghi, maglie, volti, ecc. – collettivamente. Solo in un caso la trattativa viene portata avanti dai club ognuno per conto proprio: quello della Serie A. Quindi, forse, Ibrahimovic avrebbe dovuto chiedere spiegazioni al Milan più che a Fifa. In ogni caso, il fatto che la presenza in Fifa, e le modalità della stessa, siano un punto di discussione nel moderno dibattito calcistico dimostra l’importanza acquisita dal gioco: non più un semplice passatempo per appassionati ma anche (soprattutto?) veicolo dell’immagine dei club e frammento dell’identità – quantomeno in senso commerciale – dei calciatori. Questi ultimi, i calciatori, negli ultimi anni hanno dimostrato di prendere sempre più sul serio l’accuratezza delle loro trasposizioni videoludiche. Nel 2011, l’allora attaccante del Chelsea Eden Hazard si era lamentato che nell’ultima versione di Fifa il suo gemello digitale era chiaramente «tra i tre e i cinque centimetri troppo basso». Rio Ferdindand avere scherzosamente minacciato di andare a Vancouver, negli sede di EA Sports, e di «spaccare tutto» dopo aver scoperto che al suo avatar in Fifa era stato assegnato un punteggio di 65 nel fondamentale del passaggio, su un massimo raggiungibile di 99. Il centrocampista dell’Ipswich Town Jonny Williams ha detto di esserci rimasto malissimo leggendo una delle caratteristiche attribuitegli dal gioco: prono all’infortunio. «Sinceramente, questa roba fa male», ha confessato al Daily Star.

Oramai, le reazioni dei giocatori alla scoperta delle loro trasposizioni digitali sono diventate un vero e proprio genere narrativo di quella parte dell’internet culture dedicata al pallone. Da tre anni, in corrispondenza dell’uscita della nuova edizione del gioco, il Liverpool pubblica sul suo sito e sui suoi canali social un video in cui mostra le reazioni di tutti i suoi giocatori di fronte alla loro player card, lo strumento attraverso il quale in Fifa sono rese le caratteristiche, specialità, forze e debolezze di un giocatore. Si tratta di un elenco di caratteristiche tecniche, fisiche e tattiche alle quali viene associato un numero che può arrivare fino a un massimo di 99. Il video in questione è basato su un format piuttosto semplice: due giocatori – quest’anno è toccato a Diogo Jota e Kostas Tsimikas – danno l’annuncio ai compagni, ne raccolgono la reazione e, a piacere, se le circostanze lo pretendono, li prendono per il culo. Spesso, infatti, i giocatori non sono affatto contenti dei punteggi decisi da EA. Trent Alexander Arnold, per esempio, ha detto di essersi arrabbiato moltissimo quando ha scoperto che il suo tiro, per i calcolatori EA, valesse soltanto 66 su 99 nonostante i quindici gol segnati in sette anni di carriera da terzino. Ma la cosa ovviamente non si limita solo ai giocatori del Liverpool: YouTube ormai è piano di video intitolati “Players react to their Fifa ratings”, testimonianze di quanto il gioco influisca sull’umore e sull’autostima dei calciatori, su quanto esaltante possa essere un 99 e deprimente un 63. Si tratta ormai di un vero e proprio format che, come sempre accade, ha generato poi dei controformat: video in cui si denuncia la malafede degli statistici di EA, altri in cui li si accusa di non guardare le partite, altri in cui si invitano giocatori di calcio sia giocato che videogiocato a smetterla di commentare le player card perché è tutta una furbizia di EA.

Le statistiche, dicono questi polemisti, sono fatte in modo da stuzzicare i giocatori, la cui permalosità e indignazione fa poi da pubblicità gratuita. A quest’ultima scuola di pensiero nel 2020 si è iscritto anche Romelu Lukaku: dopo una stagione all’Inter da 33 gol in 50 presenze, le sue statistiche di Fifa erano rimaste identiche a quelle dell’anno precedente: «Siamo onesti, Fifa con questi punteggi lo fa apposta, così poi noi giocatori ci lamentiamo del gioco e gli facciamo pubblicità… Io non ci sto a partecipare a questa stronzata. Quello che valgo lo so io». Per quanto possa sembrare tutto futile, c’è da dire che per un gioco del quale, per ammissione del suo stesso creatore, rischiava di «non fregare niente a nessuno», Fifa ha raggiunto una notevole capacità di influenza nel mondo del calcio. E non solo nelle cose futili.

Nel 2010, Arsène Wenger si ritrovò nella spiacevole situazione di dover commentare i quattro gol con i quali Lionel Messi aveva portato il Barcellona in semifinale di Champions League, eliminando proprio l’Arsenal. L’allenatore francese disse in quell’occasione che Messi era un «giocatore da Playstation»: faceva cose che fino a quel momento eravamo tutti abituati a pensare possibili solo nella finzione videoludica. Un’altra funzione di Fifa, in questi anni, è diventata anche questa: i calciatori lo usano spesso come una sorta di mondo parallelo, di realtà alternativa, in cui immaginare e testare in digitale quello che poi proveranno a realizzare nella realtà. Uno dei primi ad ammettere questo peculiare uso del videogioco è stato Ibrahimovic: nella sua autobiografia lo svedese ha scritto che le dieci ore al giorno che spesso passava a giocare a Fifa gli servivano per inventare le giocate che poi abbiamo ammirato in campo. Mats Hummels ha detto che un filo che tiene legati moltissimi giocatori della sua generazione è che spesso «usavano in campo quello che avevano imparato in Fifa». Quando in campo doveva affrontare un avversario mai affrontato prima, Alex Iwobi ha detto che la prima cosa che cercava di fare per capire come contenerlo era ricordarsi quanto fosse forte, e in cosa fosse forte, quel giocatore in Fifa.

Quello che Football Manager fa per chi sogna di allenare, Fifa fa – o sta cominciando a fare – per chi ha ambizioni da calciatore, dunque. D’altronde, nel corso degli anni il gioco si è arricchito di tali complessità e tante raffinatezze che è ormai davvero una discreta approssimazione dell’esperienza del campo vissuta dal punto di vista del calciatore. Ma la trasformazione portata da Fifa riguarda ormai anche il punto di vista sul calciatore. Nella sua tesi di dottorato, l’esperto di esports Trev Keane ha condotto un sondaggio tra giocatori di Fifa statunitensi. I risultati sono stati alquanto sorprendenti: il 51,8 per cento degli intervistati ha detto che la sua opinione su un giocatore è influenzata dalle prestazioni di quest’ultimo nel gioco; il 31,9 per cento ha ammesso frustrazione alla scoperta che il giocatore “vero” non fosse forte come quello “finto”; il 24 per cento ha detto di seguire sui social solo i giocatori sui quali fanno maggior affidamento nel gioco; il 21 per cento ha visto almeno una partita con protagonista uno dei suoi giocatori preferiti in Fifa e il 19 per cento è diventato tifoso di una squadra solo perché è la squadra del suo beniamino videoludico.

Se questa tendenza dovesse essere confermata nei prossimi anni, Fifa diventerebbe esso stesso una sorta di super influencer del calcio, capace di orientare e spostare preferenze e consumi. Forse è (anche) la consapevolezza di questa forza che nello scorso maggio ha portato EA Sports alla decisione di interrompere l’ormai storica collaborazione con la Fifa: dalla prossima edizione, infatti, il videogioco di calcio più popolare al mondo farà rebranding, non si chiamerà più Fifa ma EA Sports Fc. Secondo alcuni, la software house, in questa circostanza, ha peccato di hybris e alla fine perderà molto senza quell’aura di “ufficialità” che veniva dal portare lo stesso nome dell’organo di governo mondiale del calcio. Secondo altri, questa decisione è la prova che la missione dei creatori di Fifa ormai è compiuta e che il videogioco può ormai fare a meno del gioco stesso. O che forse, ormai, Fifa non è più “soltanto” un gioco.

Da Undici n° 48