L’involuzione di Simone Inzaghi

Era un allenatore camaleonte, che sapeva adattarsi a ogni situazione. Oggi la sua Inter è diventata una squadra sgonfia, piatta, sempre uguale a se stessa.

La stagione dell’Inter è un’altalena di prestazioni e risultati apparentemente indecifrabili. I numeri, almeno in parte, sono quelli di una squadra che è piuttosto continua e solida e che è in grado di raggiungere picchi eccellenti, per esempio le due partite con il Barcellona nel girone di Champions e i due derby vinti con il Milan nell’anno nuovo. L’altra faccia della medaglia sta nei suoi periodi di flessione e di preoccupante inconsistenza: le sconfitte di inizio stagione contro Lazio e Milan e poi contro l’Udinese, subendo tre gol in ogni partita, e poi di nuovo all’inizio del nuovo anno, dopo la vittoria contro il Napoli, sono arrivati un deludente pareggio a Monza e due vittorie non proprio brillanti contro Parma e Verona. Anche l’onda della vittoria in Supercoppa nel derby contro il Milan è diventata presto una risacca (cit. Angelo Carotenuto, Lo Slalom), e infatti cinque giorni dopo è arrivata la sconfitta a San Siro contro l’Empoli.

La sensazione è che la squadra nerazzurra faccia fatica a trovare motivazioni nell’ordinaria amministrazione di una qualsiasi domenica di campionato, è come se non riuscisse a colmare i vuoti di certe assenze e a trovare alternative credibili al piano partita predefinito. E il vero problema è che la prima Inter di Inzaghi era una squadra con un approccio fluido e un rapporto privilegiato con il pallone, che sapeva ordinarsi in un dinamismo solo apparentemente caotico grazie alle letture dei suoi giocatori più tecnici – lo scorso anno non sono state rare le partite risolte grazie alle intuizioni da trequartista di Bastoni, o alle giocate di Dimarco  in posizione di mezzala creativa. Negli ultimi mesi, però, proprio quei meccanismi si sono inceppati. O meglio: le ambizioni tattiche della squadra si sono appiattite, il gioco paziente dello scorso anno, fatto di dominio del pallone e rotazioni degli uomini sul campo, si è trasformato in una versione estremamente semplice e diretta, quasi minimale, basata esclusivamente sulle doti associative dei suoi talenti. Nelle ultime partite, per dirla brutalmente, l’Inter ha perso ogni variazione possibile sul suo gioco, anche le azioni che portano alle occasioni da gol sono sempre e solo le più intuitive, quelle che riescono per una semplice somma di valori tra Barella, Çalhanoğlu, Mkhitaryan, Lautaro, Dzeko e altri calciatori con una qualità assoluta decisamente alta per il livello medio della Serie A.

I nerazzurri di oggi sono l’esatto opposto di quel che ci si aspetta da una squadra di Simone Inzaghi, che a sua volta appare in panchina in una versione più stanca e sfibrata di quella che abbiamo visto durante il primo anno interista o nelle stagioni migliori alla Lazio. Ecco, proprio quella Lazio era una macchina perfetta: non nel senso che fosse imbattibile o la squadra più forte di tutte, ma era un sistema calibrato al millimetro sulle caratteristiche degli uomini a disposizione, sullo status del club, sulle ambizioni di società e squadra. Alla prima vera esperienza da allenatore, Inzaghi aveva dimostrato di essere l’allenatore migliore d’Italia a fare di necessità virtù, arrivando a far esprimere al meglio un collettivo che aveva sposato i principi della verticalità e della pazienza senza palla, in un gioco molto poco europeo in cui la riaggressione – strumento tattico che oggi sembra indispensabile a certi livelli – era sostituita da una buona dose di reattività. Quella Lazio era guidata dai talenti associativi eppure diversissimi di Luis Alberto e Milinkovic Savic, dalla leadership di Lucas Leiva, dalle garanzie realizzative offerte da Ciro Immobile: mettendo loro al centro del villaggio, prima di ogni sovrastruttura tattica, Inzaghi era riuscito a ottenere il massimo dalla Lazio, forse era andato anche oltre i limiti facilmente visibili di quel gruppo.

Quando è arrivato all’Inter, Inzaghi sembrava l’unico in grado di curare il grande malato della Serie A, una squadra abbandonata dall’allenatore che l’aveva riportata in cima al campionato, privata dal mercato del suo miglior attaccante (Lukaku) e di un terzino stellare come Hakimi. Nonostante le difficoltà di partenza, la prima stagione nerazzurra di Inzaghi si è conclusa con un buon secondo posto in campionato – seppur con 84 punti, non moltissimi – e una Coppa Italia in bacheca. Forse l’anno scorso l’Inter aveva comunque la rosa più forte del campionato, come si ripete spesso, ma non era necessariamente più equilibrata e completa di quella del Milan che poi ha vinto lo scudetto con due punti in più dei nerazzurri – certe volte i campionati girano davvero su eventi imprevedibili come l’errore tecnico di un portiere di riserva in un turno infrasettimanale.

Quest’estate – e anche questo inverno – l’aiuto della dirigenza interista è stato poco più che cosmetico: sono arrivati i giocatori giusti per allungare la panchina in maniera funzionale, per fare in modo che le assenze dei titolari pesassero meno – Mkhitaryan, Asllani, Bellanova, Onana poi diventato titolare – ed è tornato un Lukaku ai limiti dell’impresentabile. In cambio però è partito Ivan Perisic, l’unico elemento della rosa con caratteristiche da esterno offensivo puro, l’unico in grado di giocare l’uno contro uno in attacco, e non è stato inserito un giocatore che non fosse la copia carbone di altri già presenti, rendendo praticamente impossibile qualsiasi variazione sullo spartito. Di contro, da Inzaghi non sono arrivati nuovi impulsi e anzi sembra che l’allenatore abbia perso grip sulla squadra. Una condizione sintetizzata dal pareggio con la Sampdoria di pochi giorni fa: dopo un buon inizio la manovra nerazzurra si è impaludata, si è fatta sempre più prevedibile, fino a diventare ripetitiva e quindi facile da contrastare.

Da quando è arrivato all’Inter, Simone Inzaghi ha vinto tre trofei – due Supercoppe Italiane e la Coppa Italia 2022 – e ha accumulato uno score di 55 vittorie, 14 pareggi e 15 sconfitte in tutte le competizioni (Maurizio Lagana/Getty Images)

Per la prima volta in carriera Inzaghi non sta ottenendo nulla più di quel che ci si dovrebbe aspettare dalla sua squadra. L’Inter è la migliore delle inseguitrici del Napoli, ma più per demeriti altrui che per meriti propri: con l’attuale media punti (2,04) la proiezione su 38 giornate porterebbe i nerazzurri a chiudere il campionato a 77 o 78 punti, una quota valida al massimo per un quarto posto nelle ultime tre stagioni. E il vero problema è che il futuro non promette grosse sorprese. Non solo per demeriti di Inzaghi, questo va detto subito: a fine gennaio è arrivata anche la conferma dell’addio di Skriniar, che ha annunciato l’accordo con il Paris Saint-Germain. La sua permanenza era stata una vittoria di mercato per la dirigenza nerazzurra la scorsa estate, ma era difficile immaginare che sarebbe durata più di una stagione. Lo slovacco andrà via a parametro zero e difficilmente l’Inter potrà rimpiazzarlo con un pari ruolo dello stesso valore, a meno di non voler finanziare l’investimento con un’altra cessione importante – ma il problema, in quel caso, si sposterebbe semplicemente in un altro reparto. In più, nel sistema attuale Mkhitaryan, Acerbi, Dzeko sono elementi sempre più centrali, mentre i pochi giovani che potrebbero avere del potenziale inesplorato – Asllani, Bellanova, Carboni – sono ancora marginali. In ottica futura fare affidamento su giocatori abbondantemente oltre i 30 non è la migliore delle garanzie.

Al netto di prospettive al momento sfocate (un cambio di proprietà?), l’Inter che terminerà questa stagione – così come quella che inizierà la prossima – non sarà una squadra con prospettive più rosee di quelle attuali. Una situazione di impasse creata da una dirigenza e un allenatore che hanno puntato tutte le fiches su una squadra affidabile ma sempre più sgonfia, piatta, anche un po’ antiquata in alcuni interpreti e meccanismi. Dopo ogni passo falso in campionato ritorna l’ipotesi che per l’Inter e Inzaghi la soluzione migliore sia una separazione: un’opzione quasi impossibile a stagione in corso, solo leggermente più probabile a fine anno. Ancora una volta, però, la carriera di Inzaghi deve passare per la cruna dell’ago, per quella sua capacità di convincere tutti che un altro allenatore al suo posto farebbe sicuramente peggio. La buona notizia è che gran parte delle sue chances se le giocherà nelle coppe, dove è ancora uno dei migliori sulla piazza.