Anche la nostra vita sta diventando un videogame

Non c’è app di corsa, di yoga, di bicicletta o di palestra che non trasformi l’esercizio in un gioco a premi. Che succede quando la gamification si estende dallo sport alla vita?

Nel generale buio – un’assenza quasi totale di dati e quindi di user – della mappa dell’Afghanistan sull’applicazione di tracking di ciclismo e running Strava, un minuscolo groviglio di linee isolate nel sud del Paese saltava facilmente all’occhio. E poteva indicare soltanto una cosa: non la morning run di un pastore Pashtun, un evento altamente improbabile anche se non impossibile, ma l’allenamento quotidiano di alcuni soldati di una base militare statunitense. Era il 2018, e la guerra in Afghanistan ancora in pieno svolgimento: fortunatamente i Talebani non si accorsero in tempo dell’opportunità, che venne poi “nascosta” e sistemata dai tecnici dalla app prima di un attacco alla base non più così segreta, rendendo quello il primo attentato realizzato grazie a un registratore di corsette mattutine. Strava, a quattro-cinque anni di distanza, è diventata una delle app di tracking più diffuse del pianeta, copre oltre 30 sport, e la gamification delle nostre vite si è trasformata in qualcosa di così pervasivo da essere diffusa ben oltre l’attività sportiva.

Chiunque vada a correre di tanto in tanto utilizza una applicazione mobile per tenere traccia dei suoi progressi. Ma se non molti anni fa era sufficiente registrare la nostra velocità media, il tempo di percorrenza e magari una mappa della rotta tracciata (alcuni si divertivano anche, correndo, a comporre disegni e scritte, come l’utente Instagram @dick_run_claire che ai suoi jogging-peni ha, appunto, dedicato un intero account), oggi una buona applicazione di tracking della corsa fa molto di più. Stabilisce obiettivi, innanzitutto, per darti un’esca da inseguire, un traguardo che possa innescare la volontà per battere la pigrizia. Ma, anche, indossa i panni di un allenatore o di uno psicologo. È per esempio il caso di Nike Running Club, che ti parla attraverso la figura di Coach Bennett. Bennett, il Global Head Coach di Nike Run Club, ti incoraggia, ti sprona, ti sussurra, ti rassicura. Puoi anche pensare, talvolta, che ti ascolti, che ti legga nel pensiero. «You started. The hardest part is over», dice, rassicurandoti. E non ti insegna soltanto a correre per raggiungere un obiettivo in più, l’applicazione: ti dice anche di smettere in tempo, di non correre troppo. Cioè, di fermarti prima di stancarti, prima di rovinarti il fiato, l’umore, e di percepire quella corsa (che dovrai voler rifare) come una cosa troppo faticosa. «We are learning with every step we take», sussurra Coach Bennett.

Le app di fitness gamificate sono esplose, naturalmente, durante e dopo il lockdown: quattro miliardi di persone chiuse in casa sono un bacino di potenziali utenti d’altra parte impossibile da replicare. Non tutti avevano intenzione di (o la forza per) tenersi in forma, ma i download, in quei mesi assurdi, sono schizzati, e molti si sono poi fidelizzati. Strava in particolare ha aumentato gli utili, nel 2021, del 70%, cavalcando anche un boom globale dell’utilizzo della bicicletta in contesti amatoriali ma comunque performanti. Il modello Strava è del tipo “freemium”: la app può, cioè, essere utilizzata senza pagare un solo euro, ma per accedere a certi contenuti e certe funzioni occorre pagare un abbonamento mensile (molto basso, va detto). Il tracking e l’archivio dei cosiddetti “segmenti”, il loro confronto con quelli degli amici, conoscenti o follower, è uno di questi casi. Cosa sono i segmenti, però? In breve: la funzione che ha rivoluzionato Strava, facendola diventare una applicazione con oltre cento milioni di utenti. I segmenti sono pezzetti di strade o sentieri molto in voga, come una certa salita, o un tratto particolarmente avventuroso di off-road, o un rettilineo spettacolare. Ci sono un inizio e una fine individuati automaticamente dall’app quando ci passi sopra, e ti permettono di gareggiare con chiunque anche senza essere “in contemporanea”. Una sfida continua, in pratica.

Chiedo un’opinione su Strava e sui segmenti a Carlo M, che vedo spesso su Instagram mentre documenta i suoi allenamenti o i suoi weekend in bicicletta nei dintorni di Bergamo, mi dice: «Le vere gare sono altre, però i segmenti sono una delle cose che rende ogni allenamento o uscita più divertente». Oggi ci sono più di 20 milioni di segmenti nel mondo, e ogni utente può crearne uno, in modo da gareggiare/giocare con gli amici di una particolare zona. «Servono sia per potersi sfidare con amici (e nemici) che per mettersi alla prova sui propri risultati passati». Gli chiedo allora se non sia rischioso gareggiare in contesti non protetti, perché ho questa naturale tendenza al pessimismo, probabilmente. Dice di no, più o meno: «In bici i segmenti sono in salita, quelli degni di spingere. E in salita si va piano. Ci sono anche segmenti piani che sono pericolosi, e basta non sfidarsi su quelli. Alla fine le gare non autorizzate ci sono sempre state, anche la cosiddetta “volata al cartello” è una sorta di gara in allenamento, e di sicuronon servono le app per farla».

La funzione delle community, nell’ambito della gamification, è fondamentale. Dopo il Covid è diventata una della parole magiche del marketing (sempre a braccetto con l’immancabile sostenibilità) e le app di fitness/gaming non fanno eccezione: la voglia di competere (di corsa, in bici, o in altri modi) è spesso basata sui risultati degli amici e della famiglia, oltre che sui propri. Ettore C. fa lo scrittore, è uno sportivo da sempre autodidatta, e mi dice: «Secondo me lo sport è uno dei pochi settori in cui la gamification è un bene. Forse è perché sono un eterno demotivato, ma se non avessi un tracker non cercherei di migliorare i miei tempi, mentre ora lo faccio, diciamo, senza davvero rifletterci. Non che ci tenga, ma mi viene spontaneo. Che è un po’ il senso della gamification – no? – incoraggiarti a certi comportamenti senza che tu debba pensarci». Gli chiedo: ma non ci sono dei rischi in tutto questo tracking delle abitudini? Strava, per esempio, condivide tutti i dati con le diverse divisioni governative per i trasporti, e lo fa – va bene – per la sicurezza dei ciclisti, ma sono comunque dati privati in mano a governi. «È un rischio vero ma incontrollabile», dice lui. «Penso che a meno di impegnarci in quella che è una battaglia capillare e lunga come quella per i diritti dei lavoratori, dobbiamo dare per scontato che tutti i nostri dati siano nelle mani di tutti. Quindi in astratto sì, la app della corsa ci spia: ma tutto ci spia».

Un successo globale — Le app per il fitness faida-te sono diventate un trend in costante ascesa, in particolare negli ultimi anni. Strava, per esempio, ha superato la quota di cento milioni di users. Tra le varie app più scaricate in quest’ottica, ci sono anche Ladder per il training, Glo per lo yoga, MyFitnessPal, con cui tenere sotto controllo anche l’alimentazione (foto di @mitikafe)

Quando ho iniziato a fare yoga, diversi anni fa, il mio maestro mi suggerì di leggere dei testi indiani per “capire” meglio l’attività fisica che stavo facendo. Oggi, quando apro l’applicazione di “fitness-yoga” che mi sono deciso a scaricare dopo uno stalking/targetizzazione durato mesi nelle pubblicità di Instagram, trovo invece una serie di sfide per avere un “beach body”. E non sono solo lo sport o lo yoga a essersi gamificati: se voglio concentrarmi su un solo “task” mentre lavoro al computer, anziché saltare da una tab all’altra, posso contare su Forest, questa app di cui avevo tanto sentito parlare e che misura la concentrazione con un alberello che a poco a poco cresce fino a formare una piccola foresta. Ironico, penso non senza una certa tristezza: gli stessi strumenti che hanno distrutto la nostra attenzione ora cercano di ricrearla come se fosse però un gioco a ostacoli. Abbiamo quindi bisogno di rendere tutto un gioco, per poter fare tutto bene? Siamo diventati troppo scemi per iniziare e finire un compito senza farlo assomigliare a Crash Bandicoot (reference da Millennial, ahimè)? Mi verrebbe da dire di sì, e che anche i rimedi a questa scemenza sembrano fatti per essere letti e usati da uno scemo: hai passato troppo tempo su Instagram, mi dice ogni settimana il mio telefono, spronandomi a passarne meno, ma facendolo comunque attraverso quello stesso schermo, quello stesso device. Ma significa un’altra cosa: che tutto è anche performance, e alla fine di ogni performance ci sono una vittoria o una sconfitta.

Andrea Daniele Signorelli scrive di tecnologia e innovazione digitale su Domani, La Stampa e altri quotidiani, e nel 2021 ha pubblicato Technosapiens. Come l’essere umano si trasforma in macchina. I rischi, dice, non sono tanto per i dati, ma più che altro per come viene trasformato il nostro comportamento: «In generale è chiaro che queste app per l’attività fisica incentivano e spronano a fare esercizio con più  costanza e professionalità e a renderlo più divertente e coinvolgente. E per quanto riguarda la sola attività fisica non ci vedo niente di male. Quello che personalmente mi preoccupa è se guardi queste app in un contesto un po’ più generale: sono app che si aggiungono alle app per la gestione del nostro tempo, che ovviamente hanno sempre come scopo quello di massimizzare l’efficienza di come utilizziamo il tempo». La produttività come obiettivo finale, più che il benessere: «Poi ci sono quelli che vogliono gamificare anche il sonno che ti dicono a che ora andare a dormire: anche in questo caso è evidente che sono strumenti volti al benessere e anche a una massimizzazione della nostra efficienza, perché è sempre attraverso questi claim che vengono promosse. Quindi il problema non sono le app di fitness: ma che anche queste si inseriscono in un quadro sociale in cui la gamification viene usata solo per uno scopo: renderci più performanti, più efficienti, più produttivi». Quindi? «Non voglio arrivare a dire che i colossi della Silicon Valley stanno eterodirigendo i nostri comportamenti per massimizzare la nostra capacità produttiva, però è chiaro che non sempre siamo noi i primi beneficiari di una massima efficienza e razionalizzazione dei nostri comportamenti. Il rischio è che veniamo trattati da macchinette da spremere sempre di più, rendendo però tutto più divertente».

È inevitabile che la gamification dello sport e del nostro tempo libero cresca ancora, negli anni a venire. È anche quasi impossibile prevedere come: vent’anni fa, d’altra parte, non avremmo mai immaginato di poter tracciare i nostri ritmi del sonno (e il nostro russare, e il nostro rigirarci di pancia e di schiena) per poi condividerli su un social network, e invece eccoci qui ad andare a letto quando ce lo dice Sleep Cycle (io no, giuro). Servirà però resistere, e adottare solo quello che migliorerà davvero il tenore delle nostre vite, e non le performance del nostro vivere. Non rendere tutto un gioco, quindi, perché la battaglia per la nostra attenzione e per il controllo del nostro tempo non lo è affatto: dormire quanto ci pare, camminare senza sapere dove andiamo, oziare quando e come ci va.

Da Undici n° 48