José Mourinho ha fatto la Roma a sua immagine e somiglianza

La squadra giallorossa ha i pregi e i difetti del suo allenatore: una difesa impenetrabile, un attacco elementare e sguazza in una tensione perenne.

L’AS Roma e la galassia di realtà del tifo giallorosso fondano il proprio mito condiviso sulla capacità di identificarsi in qualcosa o qualcuno. Di farsi rappresentare e di sentirsi rappresentati. Quasi sempre questa responsabilità ha fatto capo a un giocatore simbolo romano romanista, a una specie di totem cui aggrapparsi in maniera totale per la stessa AS Roma. Se guardiamo agli ultimi quarant’anni, non a caso, c’è sempre stato un capitano con questo identikit: Di Bartolomei, Giannini, Totti, De Rossi. Oggi questa tradizione resiste grazie a Lorenzo Pellegrini, ma è evidente che c’è un delta di leadership rispetto ai suoi predecessori: Pellegrini è un ottimo centrocampista e capitano, solo che è figlio del suo tempo, di questo tempo; cioè, magari ama la Roma come e anche più di Totti e De Rossi, solo che questo attaccamento non sgorga in maniera classica e quindi viscerale, morbosa, non si percepisce forte come avveniva in passato con altri capitani. Ed è una sensazione condivisa a Roma, all’interno della Roma, fuori dal Grande Raccordo Anulare.

Forse è per via di tutto questo che, quando è arrivato il momento di individuare il sostituto di Paulo Fonseca, la dirigenza ha scelto José Mourinho. Mou infatti è l’allenatore che da sempre, e più di ogni altro, accentra su di sé le attenzioni dei media. È l’allenatore che da sempre, e più di ogni altro, lavora come se ciò che succede in campo fosse legato principalmente alla profondità del rapporto che ha con i suoi calciatori, con la sua tifoseria. Insomma, era una figura potenzialmente perfetta per una Roma rimasta orfana di un proprio simbolo, di un Totti e/o di un De Rossi e/o di un loro erede, era l’uomo giusto per un ambiente che non sa rinunciare a questo tipo di simbiosi con un riferimento forte. Allo stesso tempo, ed è bello credere che sia andata così, anche Mourinho potrebbe aver riflettuto su tutto questo quando ha valutato l’offerta della Roma: il vuoto di potere interno al club e alla squadra giallorossa può essere colmato solo attraverso una leadership forte, autorevole, deve aver pensato Mou, una leadership come la mia; inoltre io devo rilanciarmi dopo il fallimento al Tottenham, la Serie A e l’Italia sono dei contesti in cui il mio appeal è intatto e quindi è ancora leggendario, da quelle parti il mio stile comunicativo è ancora apprezzato, le mie metodologie tattiche non sono ritenute superate, e allora perché non tentare?

A distanza di un anno e mezzo dal suo arrivo a Roma, è arrivato il momento di fare un primo bilancio. Un bilancio non tanto numerico e legato ai risultati puri, visto che la stagione in corso è ancora lunga e la Roma ha ancora diversi obiettivi da inseguire. Va fatto piuttosto un bilancio di campo e al tempo stesso emotivo. Perché in fondo è questa la magia di Mourinho, da sempre: è impossibile scindere davvero i due piani, è proprio vero che i risultati delle sue squadre dipendono dalla profondità del rapporto che ha con i suoi calciatori, con la sua tifoseria. Non a caso, viene da dire, il passaggio di Mou viene ricordato con dolcezza dappertutto tranne che al Manchester United e al Tottenham, ovvero in quei club/ambienti che non si sono fatti sedurre dalla sua mistica, che non si sono sintonizzati davvero con le sue idee. A Roma è andata diversamente, cioè meglio, fin dal principio: la società e poi il pubblico si sono messi – anzi: si sono abbandonati – nelle sue mani, Mourinho ha saputo riconoscere questo potere, ha saputo sfruttarlo – la sua Roma a volte è stata una squadra poco brillante e tutt’altro che efficace, eppure nessuno ha mei osato metterlo in discussione – ma l’ha anche fatto fruttare, perché la vittoria in Conference League resta un fatto, un evento molto significativo nella storia giallorossa. Non solo quella recente.

Oggi, se possibile, la comunione e la prossimità tra José Mourinho e la Roma sono diventate ancora più nette. Anzi, si può parlare tranquillamente di osmosi completata, di sovrapposizione definitiva. La squadra giallorossa è un’emanazione diretta del pensiero del suo allenatore, quell’allenatore che più di dieci anni fa veniva definito da Sandro Modeo – nel suo libro L’alieno Mourinho – come il primo sostenitore di un «pluristilismo ai limiti della contraddizione» e che col tempo è diventato un ideologo della difesa e del gioco sporco nel senso nobile del termine, un ricercatore sempre attivo nello studio evolutivo della fase di non possesso. Non è solo una questione di linea a tre che diventa a cinque, di baricentro basso, di aggressività intermittente, è una questione di sensazioni che si mescolano a statistiche inoppugnabili: la Roma è la squadra di Serie A che concede meno agli avversari (16,3 xG subiti in 24 partite, meno anche del Napoli) e che fronteggia i tiri dalla distanza media più elevata, oltre 20 metri; inoltre è l’ultima squadra del campionato per fuorigioco fischiati a favore e la terzultima squadra per numero di azioni difensive fuori dall’area di rigore. Insomma, la difesa bassa e a volte passiva della squadra di Mourinho è una realtà verificata nei fatti. Ed è una realtà che funziona bene.

Poi ci sono i calci da fermo, l’arma offensiva più pericolosa della Roma: la squadra giallorossa ha segnato nove gol direttamente da situazioni di palla inattiva – non sullo sviluppo di una palla inattiva, che è un’altra cosa – solamente in Serie A, ed è una quota record per il nostro campionato. Questo dato è strettamente collegato alla fisicità della rosa allestita da Thiago Pinto e presumibilmente suggerita da Mou, non a caso la Roma è la squadra che ha l’altezza media più alta di tutta la Serie A (187 cm per gli undici titolari).

Tutti i nodi vengono al pettine, per di più senza bisogno di tirare troppo: il modo di difendere. alcune delle prerogative offensive della Roma e persino i parametri del reclutamento ricalcano esattamente l’immaginario di una squadra alla Mourinho, sono in perfetta continuità con le preferenze e i pregi storici del suo allenatore. È un discorso che, fatalmente, vale anche per i difetti. Anche in questo caso i numeri sono eloquenti: la Roma è solo quarta in Serie A per numero di gol attesi prodotti senza considerare i rigori, ed è addirittura 15esima per numero di passaggi progressivi, dietro a tutte le grandi e anche a squadre come Sassuolo, Lecce e Cremonese. Tutto questo vuol dire che i giallorossi giocano una fase d’attacco non proprio sofisticata, diretta per non dire elementare, veloce nel risalire il campo e fondata sugli strappi dei migliori calciatori. In questo senso, la rappresentazione della Roma ideale secondo Mourinho si è vista nel return match contro il Salisburgo, soprattutto in occasione del gol di Dybala. Ma non tutte le avversarie della Roma, specialmente se guardiamo alla Serie A, giocano come il Salisburgo. E allora è inevitabile che la squadra giallorossa manifesti dei problemi di scarsa varietà offensiva. Che poi sono i problemi classici delle squadre di Mourinho, da molti anni a questa parte.

Molti problemi creativi della Roma li risolve questo giocatore qui

L’ultimo aspetto su cui ormai non si avvertono più distacchi, per cui la Roma è un’estensione di ciò che Mourinho ha nella testa, è quella tensione perenne nei rapporti, che siano quelli interni o quelli con l’esterno. La necessità di gestire i casi Karsdorp e Zaniolo – finiti in modo diverso, in fondo gli uomini sono affascinanti perché sono vari – ha permesso a Mourinho di scendere nel suo playground preferito, quello della polemica a mezzo stampa in cui può far luccicare la sua leadership e la sua intelligenza superiore. Ha scelto di essere prima severissimo e poi un po’ più paterno, ma alla fine la Roma ha perso o depauperato una parte del suo patrimonio tecnico ed economico. È un aspetto che deve far riflettere, al di là di come andranno la stagione dei giallorossi e la carriera dei due dissidenti. Allo stesso modo, Mourinho non perde mai l’occasione di sottolineare ciò che non gli va a genio dei tifosi – dopo dei fischi apparentemente indirizzati a Bove ha accusato il pubblico giallorosso di «non capire o di non voler capire», e alla fine pare che questi fischi non fossero diretti al suo giocatore – e di tacere su quello che sarà il suo futuro e sul modus operandi della società, che è un modo furbo ed elegante per non esporsi, per non elogiare pubblicamente i suoi datori di lavoro. Come a volersi prepararsi una via di fuga per un eventuale addio, come a volersi preparare una giustificazione, ovviamente legata al calciomercato, qualora il grande obiettivo stagionale – la qualificazione in Champions League, che sia via campionato o vincendo l’Europa League – non dovesse essere centrato. Perché Mourinho, secondo Mourinho, di colpe non ne ha. Non ne avrebbe. Non ne può avere.

È evidente come José Mourinho stia usando gli stessi strumenti tecnico-tattici e anche retorici – tutti contro di noi, tutti contro di me – che ha adoperato con maestria per tutta la sua carriera. Inizialmente sembrava che le cose potessero cambiare e stessero cambiando, che Mou avesse approcciato con Roma e con la Roma in modo più sereno, ma poi il passato è tornato a manifestarsi. E a essere ingombrante. Forse era quello che voleva José, forse voleva entrare senza farsi notare e poi prendersi tutta la scena, chissà. Al momento, comunque, la Roma è in suo potere, visto che non ci sono dirigenti e/o calciatori che possano oscurarlo, anche solo per un attimo. Quindi tutto ciò che andrà bene potrà – anzi: dovrà – essere considerato come un suo successo personale. Allo stesso modo, naturalmente, un eventuale fallimento sarà da addebitare principalmente a lui, visto come ha manipolato e come sta manipolando la squadra, l’ambiente, visto che la squadra e l’ambiente si sono fatti manipolare da ciò che resta del mourinhismo senza opporre resistenza. In fondo è quello che volevano tutti, la Roma, i romanisti e lo stesso Mourinho. Sarà interessante capire come andrà a finire e come sarà ricordata quest’esperienza condivisa, se Mourinho riuscirà a entrare nel pantheon dei romanisti pur essendo forestiero, portatore di una mentalità diversa. Un’impresa che non riesce a nessuno da tanti anni, e che forse potrebbe essere proprio ciò che serve alla Roma per voltare pagina una volta per tutte, finalmente.