Elogio dei vecchi stadi italiani

Non tutti sono da abbattere o da ricostruire, soprattutto in provincia: viaggio in un'Italia in cui gli impianti, anche se "vecchi" e démodé, fanno parte del patrimonio artistico.

All’inizio del 2023, su Twitter, un tweet che parla di stadi e architettura è diventato virale, guadagnandosi più di 6 milioni di visualizzazioni. L’ha prodotto un certo @culturaltutor, e mostra, in otto foto, la visione aerea degli stadi di Londra, Budapest, Stoccarda, Giacarta, Doha, Madrid, Barcellona, Brasilia. Sono tutte arene a pianta ellittica, tutte coperte da tettoie di colore chiaro, con un buco al centro per far passare aria e luce. Il tweet si domanda: «Perché tutti gli stadi di calcio stanno iniziando a essere uguali?». In realtà non è poi così vero, e nemmeno di quegli otto stadi: le coper- ture differiscono tutte, tra loro, in dettagli che un occhio più attento all’architettura non troverebbe secondari. Lo stesso vale per gli anelli e i seggiolini interni, disposti a diversi gradi di pendenza, per le decorazioni esterne, per i corridoi, i bagni, le hall, e così via. Qualcuno ha risposto al tweet, ironicamente, con una serie di fotografie di arene romane: da Verona a Roma, da Arles a Pola, da Nimes a El Jem in Tunisia, gli anfiteatri di un paio di millenni fa sono tutti molto simili tra loro, per lo stesso motivo che accomuna oggi gli stadi calcistici: dovevano succederci, dentro, le stesse cose.

Un’altra cosa che fa impressione constatare è il legame tra quegli stadi romani e questi calcistici attuali, soprattutto se si cercano su Google le ricostruzioni di come dovevano essere gli antichi, che erano tutti dotati (forse non tutti sanno che) di una copertura del tutto simile a quelle odierne: si chiamava velarium, ed era una struttura di teli di canapa regolata da un complicatissimo sistema di funi tese fino all’esterno degli stadi. Anche lo spazio interno è simile: ovale, quindi capace di contenere un rettangolo come un campo da calcio. Come dimensioni ci siamo: l’arena interna del Colosseo è leggermente più piccola, in lunghezza, delle dimensioni di un campo regolamentare, mentre le rispetta in larghezza. Ci aveva pensato Alberto Burri a mettere insieme le due cose, in una serie di locandine realizzate per Italia ‘90.

È normale quindi che gli stadi si assomigliano un po’ tutti: è sempre successo. Quello che si sta perdendo, negli ultimi anni, in molti degli impianti che stanno venendo costruiti in giro per il mondo, è piuttosto la specificità regionale: il contesto e la contestualizzazione, il carattere che riflette un determinato luogo o una certa cultura nazionale e architettonica. È quello che sta succedendo con l’architettura in generale, e gli stadi ci rientrano, naturalmente: sia negli interni che nei palazzi più contemporanei, è difficile distinguere un grattacielo costruito a Milano da uno di Shanghai, uno di Melbourne da uno di Berlino, oppure un bar, o un salotto, o un ristorante. Un fenomeno che – almeno per quanto riguarda gli interior – è stato chiamato dal giornale The Vergeairspace”, ovvero l’estetica neutra, minimal ma non troppo, con qualche pianta, mattonelle bianche e inserti di legno chiaro resa ubiqua dalla globalizzazione abitativa di Airbnb. Ci sono, certo, esempi di stadi nuovi che riescono a evitare il tranello: è il caso dell’Allianz Arena di Monaco di Baviera, ad esempio, con un guscio esterno capace di trasformare lo stadio in un camaleonte luminoso; lo sarebbe stato anche il progetto “cattedrale” di Populous destinato a rimpiazzare San Siro, prima che ci si mettessero in mezzo problemi sempre nuovi.

Senza voler opporre, tuttavia, un rifiuto luddistico alla necessaria costruzione di nuovi impianti in Italia, mattone fondamentale su cui ricostruire le ambizioni egemoniche di una Serie A un po’ spenta, è interessante passeggiare nella Penisola tra stadi antichi, di provincia e non, sgarrupati o pronti al restauro, per constatare quanto talvolta l’architettura calcistica si sia integrata nel paesaggio urbano o naturale, prendendo parte a quella bellezza indefinibile, eppure tipica, italiana. È una passeggiata che potrebbe anche, magari, suggerire agli architetti contemporanei esempi di integrazione tra i nuovi progetti e il tessuto preesistente, ed evitare cattedrali nei deserti di periferie imbarbarite, per di più, da catene di fast food e centri commerciali.

Una cattedrale nel deserto con il suo innegabile e assurdo fascino, in realtà, esiste da più di trent’anni. Anzi: è un’astronave. Il San Nicola di Bari si vede già da lontano, nella piatta pianura pugliese, perché proprio a un oggetto alieno doveva somigliare, fin nelle intenzioni di Renzo Piano. Atterrato in un cratere di erba e cemento nel 1990, aveva però un legame cromatico con il paesaggio circostante: attraverso i petali del secondo anello, si sarebbe potuto vedere il settore inferiore, con tutti i seggiolini verdi, e quello superiore, tutto giallo, mimetizzarsi nella campagna tutt’intorno. La scelta di Piano è stata cambiata poco tempo fa, quando si è optato per il biancorosso del Bari, perdendo un po’ di quella poesia un po’ paradossale, tipica di quel Mondiale e di quello stadio che è rimasto in eredità.

Più a nord, invece, c’è uno stadio antichissimo che dialoga in maniera unica con il paesaggio circostante. Anzi, è il secondo più antico d’Italia: il Penzo, fresco di una ristrutturazione arrivata nell’estate del 2022 per adattarsi alla Serie A conquistata dal Venezia Fc. Chi visita Venezia da turista dovrebbe tenersi un paio d’ore per visitare anche l’unico stadio al mondo circondato dall’acqua, sull’isoletta di Sant’Elena. E andarci non in battello, ma a piedi, magari partendo proprio da San Marco, e camminando, con l’acqua sulla destra, e la Basilica della Salute, e San Giorgio, passare dai Giardini, dai busti dedicati a Penzo, a Wagner e a Verdi, fare l’ultimo ponte, pian piano essere superati o circondati da sempre più tifosi. Bersi un Select da Vincent, a due passi dallo stadio, e poi entrare, e dalla curva guardare gli alberi delle barche a vela muoversi alle onde dolci della marea.

Sempre lungo l’acqua, ma questa volta dolce, si trova anche il Sinigaglia di Como. Bell’esempio di razionalismo degli anni Venti, era più bello prima che venisse rifatta la curva ovest, non più unita come la est ma divisa in due parti come una forbice aperta. Rimane la vista, spettacolare: ovunque, dalle tribune, si può alternare lo sguardo tra la partita, il lago o l’Alpe del Vicerè più lontano e in alto, l’altopiano che divide i due famosi rami, visibile dietro la gradinata ovest. La montagna più famosa del calcio italiano è a Palermo, ed è quel Monte Pellegrino che incombe sulla tribuna chiamata allo stesso modo (ma più famosa come “gradinata”, a Palermo). Di giorno sembra un sipario alzato sul campo, una presenza che osserva severa le avventure e disavventure della squadra.

Di epoca fascista è anche il Dall’Ara di Bologna, nato “Littoriale” nel 1927, da fuori quasi un’arena romana, con le centinaia di volte che si aprono nei mattoncini, o un edificio preso da un quadro di Sironi. I tetti, altrettanto rossi, delle case intorno gli stanno vicini, e il piazzale dell’ingresso è dominato dalla torre di Maratona che l’ha reso famoso nel mondo. Se si dà le spalle alla città e si guardano i colli dietro il Dall’Ara si distingue anche la salita che porta a San Luca, che dà il nome proprio alla curva che cresce lì sotto, dedicata agli ospiti. Il progetto per l’ammodernamento è buono e rispettoso dell’edificio originario, con cui si integra armonicamente, e speriamo rimanga così.

Non molto lontano da qui, un po’ più a sud, un’altro stadio colpisce soprattutto gli ospiti, italiani e stranieri. È il Franchi di Siena, architettonicamente grottesco, un ammasso di tubi e seggiolini con poco senso, instabile come una tribuncina di provincia, eppure con il suo innegabile fascino: perché anche questo abbracciato da una delle città più belle d’Italia, e addormentato in una conca naturale (“del Rastrello”) ai piedi della Fortezza Medicea. Da dentro il Franchi si è circondati dalle facciate gialle e ocra dei palazzi della contrada del Drago, come se fossero tribune massicce aggiunte sopra quelle incerte e metalliche, e poi dalle chiome degli alberi, e infine dal campanile della Basilica di San Domenico. Quando la Robur non gioca, poi, il Franchi rimane aperto: e ci si può passeggiare, salire sulle tribune e rimanere lì, contemplativi, in quella conca assurda ma con una sua strana bellezza.

Il più mimetico degli stadi è quello di Genova, che infatti, come accade anche in altre occasioni, prende il nome del quartiere in cui sorge: Marassi. Come un allenatore camaleontico, che adatta la formazione sull’avversario, l’architetto Vittorio Gregotti pensò al Ferraris non come progetto a priori, ma solo in rapporto al quartiere in cui avrebbe vissuto. Lo stadio di Gregotti, anche questo realizzato in occasione di Italia ’90, dialoga di continuo con quel quartiere popolare e squadrato, e dal progetto sono state eliminate infatti ogni rotondità grazie alle quattro torri poste nei quattro angoli, un segno distintivo che Gregotti portò anche negli stadi di Marrakech e Nimes. Da fuori, tante piccole feritoie, il colore del mattone, il tetto bianco: il Ferraris vuole fingere di essere un enorme condominio tra quelli che lo circondano, e che intorno a lui salgono arrampicandosi sulla colline, tutti stretti nei carruggi, a tratti nascondendolo alla vista.

Anche il Maradona di Napoli, a modo suo, è uno stadio urbano: da un lato dialoga continuamente con Fuorigrotta, dove le case gli stanno un po’ più addosso e dove non è difficile, durante la settimana, trovare un varco aperto e un guardiano compiacente per godersi un tour gratuito delle tribune. Dall’altro lato si affaccia sul piazzale per niente freddo e, anzi, un po’ post-apocalittico della Mostra d’Oltremare, sorvegliato dai mosaici colorati del palazzo della Facoltà d’Ingegneria, un progetto degli anni Sessanta di Luigi Cosenza e che pare uscito da Plaza de la Revolución a L’Avana, ma circondato dai pini marittimi al posto delle palme. Ce ne sarebbero ancora, di bellezze in cui passeggiare, sia culturali che naturali: le scale elicoidali di Pier Luigi Nervi per il Franchi di Firenze; il Tardini, anche lui incrocchiato tra le casette che lo marcano stretto, come pure il Piola di Vercelli. Infine, i muscoli di cemento e acciaio di San Siro a Milano, forse il più famoso nel mondo tra tutti gli stadi italiani, il cui destino è incerto e a rischio, e che meriterebbe, se non una vita eterna dal punto di vista sportivo, almeno un’opera di salvaguardia da quello artistico.

Da Undici n° 49