Stiamo vivendo la fine del Liverpool di Klopp?

Dopo sette anni, una delle squadre più belle del nostro tempo ha smesso di brillare.

Ho iniziato a pensare a questo articolo durante il secondo tempo di Liverpool-Real Madrid, mentre osservavo Vinícius, Modric e Benzema che facevano ciò che volevano della squadra di Jürgen Klopp. La sensazione di superiorità del Madrid era persino mortificante, di certo molto più ampia rispetto al 2-5 finale, risultato arrivato al termine di una partita che i Reds stavano conducendo 2-0 dopo i primi 15 minuti. La polaroid ideale era stata scattata al minuto 66′, quello della quinta rete della squadra campione d’Europa, arrivata al termine di un’azione in cui Modric si era esibito nel cosplay di Michael Johnson nella finale dei 400 metri piani alle Olimpiadi di Atlanta ’96 e Benzema si era potuto permettere il lusso di un’ulteriore finta per il gusto di mettere a sedere Alisson. «Posso capire il pensiero per cui una serata del genere rischi di avere ripercussioni anche in campionato, ma vi assicuro che questo non accadrà. Ho già detto ai ragazzi che una sconfitta è davvero una sconfitta solo se non impari niente. E se ora permettessimo che una cosa del genere ci influenzi, saremmo davvero degli sciocchi. Adesso abbiamo alcuni giorni in cui renderci conto di tutto questo e soprattutto che quello che abbiamo fatto all’inizio è ciò che siamo e che siamo sempre stati», aveva detto Klopp in conferenza stampa.      

E in effetti, i sette punti conquistati nelle successive tre partite di Premier League, con lo zenit del 7-0 al Manchester United di Erik ten Hag, sembravano andare proprio in questa direzione: forse l’idea di un ciclo che stava per chiudersu era prematura, forse per il kloppismo duro e puro c’era ancora speranza. Forse la sensazione per cui il suo Liverpool fosse al capolinea era alimentata da una stagione viziata dalle scorie delle 63 partite – letteralmente tutte quelle che si potevano giocare – dell’annata 2021/22. In fondo lo aveva sottolineato lo stesso Klopp, dopo la gara contro lo United, che lui e il Liverpool erano sempre gli stessi, che erano ancora lì nonostante tutto: «Stasera è stato tutto perfetto, calcio spettacolare, gol incredibili. Tutti devono sentirci, tutti devono sapere che siamo ancora vivi, questo è quello che dobbiamo essere d’ora in avanti».  

Dopo quella partita, ormai un mese fa, sono arrivate tre sconfitte consecutive in altrettante partite, l’ultima in casa del Manchester City con modalità sinistramente simili a quelle della notte da incubo ad Anfield, solo che al posto di Vinícius, Modric e Benzema stavolta c’erano De Bruyne, Grealish, Mahrez e Julian Álvarez. La facilità, la tranquillità, per certi versi persino la naturalezza con cui la squadra di Pep Guardiola ha rimontato il gol iniziale di Salah hanno fatto dire a Klopp che «oggi non avremmo vinto nemmeno se Rodri fosse stato espulso, anche perché, tranne quattro giocatori, non so dove fossero gli altri». Praticamente una dichiarazione di resa incondizionata, un’ammissione di colpevolezza e di impotenza arrivata in un momento storico in cui il Liverpool ha perso più partite in tre mesi di quante ne avesse perse in tutto il 2022. 

Manifesta superiorità

Alla vigilia del match dell’Etihad, Neil Jones aveva scritto su Goal che la crisi del Liverpool era dovuta alla «necessità di dimostrarsi sempre all’altezza della rivalità con il Manchester City». E che «aggiustare i Reds sarà il compito più difficile della carriera di Jurgen Klopp». Si tratta di una chiave di lettura condivisibile, probabilmente anche l’unica possibile per spiegare un crollo così verticale e così repentino: l’inseguimento costante a un avversario del genere è come se avesse finito per trascinare Klopp in una sorta di comfort zone alla rovescia, dalla quale è diventato sempre più difficile uscire e in cui tutto ciò che è stato fatto è in funzione del Manchester City e di Guardiola. Come se il resto del mondo calcistico non esistesse o costituisse comunque un dettaglio marginale rispetto alla costante ricerca della perfezione pretesa dal confronto con una squadra che aveva reso inutili almeno tre campionati da 90 e più punti.  

Non a caso, fin dai tempi di Dortmund, Klopp è sempre stato considerato la kryptonite di Guardiola, l’unico allenatore in grado di dare al catalano una vera sfida nell’arco non solo di una partita ma di un’intera stagione. Con il tempo, però, Klopp ha finito con il farsi fagocitare da questo ruolo; e quando è apparso chiaro che, per una volta, City e Liverpool non sarebbero state rivali dirette, Guardiola è riuscito ad andare avanti – lo aveva fatto già con Mourinho, del resto – mentre Klopp, privato di ciò che lo aveva portato ad esplorare e superare i suoi limiti, è rimasto fermo, bloccato, soprattutto per ciò che riguarda la trasmissione dei concetti e delle idee e la ricerca di soluzioni alternative anche a gara in corso. Dal 16 ottobre, giorno dell’episodica vittoria contro il City ad Anfield, è come se rivivessimo a cadenza settimanale l’iconica scena simbolo di Kill Bill vol. II in cui Elle Driver uccide Budd, non prima però di avergli confessato che il suo più grande rimpianto consisteva nell’aver visto Beatrix Kiddo, la sua acerrima nemica, battuta da qualcuno che non fosse lei. 

Si tratta di un qualcosa che si può notare ormai quasi ogni volta che il Liverpool scende in campo. A inizio gennaio, a seguito delle due sconfitte consecutive in trasferta contro Brentford e Brighton, Jamie Carragher disse che «quando guardo questo Liverpool, soprattutto il centrocampo, mi sembra quasi che si stia trasformando in qualcosa d’altro, qualcosa di diverso, qualcosa di molto simile all’Arsenal di Wenger: una squadra molto tecnica ma che non ha le caratteristiche per farlo in maniera vincente». Anche questa è una diretta conseguenza della lotta contro il fantasma di Guardiola che Klopp sta affrontando con “armi” per lui non convenzionali, come se tutti quei campionati persi per una manciata di punti lo avessero logorato fino al punto da convincerlo che il suo sistema non era abbastanza e che, quindi, il Liverpool dovesse diventare molto più Manchester City del Manchester City stesso. Quindi una squadra che dovesse andare oltre sé stessa e quella tensione verticale che le aveva permesso di giocarsela in un certo modo e di vincere comunque sette trofei in cinque stagioni. Ne è venuto fuori un ibrido in cui la nuova volontà di potenza di Klopp, costruita attraverso calcio di controllo e di possesso, si scontra con le caratteristiche dei giocatori a disposizione: il Liverpool è una squadra che non riesce più a pressare con la stessa efficacia di prima, che soffre terribilmente nelle transizioni difensive successive al recupero palla da parte degli avversari e che fatica tantissimo nell’ultimo terzo di campo quando si tratta di rifinire per vie centrali. 

Questo cortocircuito, tecnico ma anche emotivo, si è manifestato con evidenza il 4 febbraio, in occasione della trasferta del Molineux contro il Wolverhampton. In quell’occasione il Liverpool, stando ai dati, ha creato, attaccato di più e mantenuto più a lungo il possesso del pallone, ma non è mai riuscito ad essere davvero pericoloso se non in un paio di mischie casuali a centro area: «Sette o otto giocatori non sono stati direttamente responsabili nel primo gol, così come altrettanti non sono stati responsabili nel secondo, eppure tutti loro ne sono stati influenzati in maniera negativa. Non ho perso la fiducia in loro ma sto cercando di capire dove dobbiamo migliorare», aveva dichiarato Klopp. Dopo il secondo gol, il manager tedesco manifestava a James Milner – seduto in panchina accanto a lui – tutto il suo disappunto e, un’ora dopo, aveva già la testa bassa, parzialmente nascosta dallo snapback brandizzato, mentre l’assisente Peter Krawietz era con lo sguardo perso nel vuoto tipico di chi avrebbe voluto essere da un’altra parte. Ruben Neves aveva appena segnato il 3-0 con una facilità disarmante e quell’immagine rappresentava perfettamente quanto fosse stata rovinosa quella caduta. Il Liverpool di Klopp stava finendo lì e il primo a rendersene conto era stato proprio lui. 

Da quando è arrivato al Liverpool, Jürgen Klopp ha accumulato 253 vittorie, 94 pareggi e 75 sconfitte in 422 gare ufficiali di tutte le competizioni (Clive Brunskill/Getty Images)

Il Liverpool ha smesso di essere il Liverpool anche fuori dal campo – e quindi Klopp ha smesso di essere Klopp – soprattutto nel modo in cui ha programmato e sta programmando la sua ricostruzione tecnica. Negli ultimi 14 mesi la necessità di rendere meno traumatico possibile il rinnovamento della rosa ha portato Klopp a cambiare il paradigma della sua strategia di reclutamento e player development, spendendo tanto e subito per giocatori che fossero già pronti e non da sviluppare, e questo a prescindere dall’età: solo il rinnovamento del tridente offensivo – con Mané ceduto al Bayern Monaco e Firmino che andrà via a fine stagione da svincolato – è costato quasi 170 milioni di sterline, cui vanno aggiunti i 40 spesi per Konaté nel 2022 e gli oltre 80 per il trio Diogo Jota-Thiago Alcántara-Tsimikas nell’estate 2020. Anche in questo caso, però, provare a fare il City non è bastato, anzi: Luis Díaz rappresenta un’incognita pesante a causa dell’infortunio al ginocchio sofferto a inizio ottobre e dal quale deve ancora recuperare; Darwin Núñez ha cominciato da poco a far vedere di cosa è capace dopo un periodo di adattamento più duro del previsto; Cody Gakpo sta cercando di ritagliarsi spazio e minuti di qualità in un sistema che non sempre gli permette di esprimere le sue qualità nell’uno contro uno e nell’attacco della profondità.  

A un certo punto, quindi, Klopp si è visto quasi costretto ad affidarsi, ancora e totalmente, a molti dei giocatori del biennio d’oro 2018-2020, ad atleti alle prese con i segni di un logoramento – umano prima che tecnico o tattico – per certi versi inevitabile: Van Dijk e Alisson non sono più così dominanti tanto da poter sopperire alle lacune strutturali di una difesa che non riesce più ad accorciare con aggressività, Salah continua a segnare con discreta continuità ma non è più il generatore automatico di occasioni in grado di assicurare un vantaggio decisivo in fase di conclusione e di rifinitura, Alexander-Arnold e Robertson hanno progressivamente perso in brillantezza e atletismo e il centrocampo con Henderson e Fabinho non sembra più in grado di reggere fisicamente con quello delle altre Big Six, nonostante l’inserimento in pianta stabile di Harvey Elliott.

In queste ore a fare notizia in Premier League sono stati gli esoneri di Graham Potter e Brendan Rodgers da parte di Chelsea e Leicester, che hanno portato a dodici il numero degli allenatori cacciati dall’inizio della stagione in Inghilterra. Sabato pomeriggio, sugli spalti dell’Etihad, i tifosi del Manchester City cantavano a Klopp che anche lui sarebbe stato licenziato il giorno dopo, riprendendo un coro che era stato già ascoltato al Molineux il giorno del 3-0 del Wolverhampton; al momento è difficile ipotizzare che anche il Liverpool si privi dell’allenatore che gli ha restituito una dimensione di primo livello negli anni di massima espansione e popolarità del campionato inglese, eppure chiedersi se e quanto Klopp abbia effettivamente fatto il suo tempo non è sbagliato. Così come non è sbagliato chiedersi dove e come potrebbe ritrovare spirito e motivazioni per una sfida che gli restituisca la grandezza che gli spetta – e che merita – indipendentemente dalla sua rivalità con Guardiola. La domanda, però, dovrebbe essere comunque un’altra: è davvero questo ciò che serve a Klopp? Oppure basterebbe che il Liverpool tornasse a essere solo il Liverpool proseguendo su una strada che si è scelto di abbandonare per inseguire un’utopia irrealizzabile? E la risposta, come spesso accade, non può passare dal mercato.