Paura e delirio a Stamford Bridge

Tuchel, Potter, una miriade di giocatori e tantissimi soldi buttati via: racconto tragicomico del primo anno del Chelsea con i nuovi proprietari americani.

Quando annuncerà l’assunzione di Julian Nagelsmann come nuovo manager, una cosa di cui si può scrivere tranquillamente visto che se ne parla moltissimo, visto che è ragionevolmente possibile, forse anche auspicabile, il Chelsea FC pubblicherà un comunicato stampa. In questa nota ufficiale dovrebbe esserci scritta una cifra in sterline: quella investita per rompere il contratto in essere tra Nagelsmann e il Bayern Monaco. Visto che il tecnico tedesco è vincolato al suo vecchio club fino al 2026, non sarà di certo una cifra bassa. Questa quantità di denaro dovrà essere aggiunta ai 15 milioni di euro versati a Thomas Tuchel come buonuscita in seguito all’esonero di settembre, ai 24 milioni di euro versati al Brighton per poter sciogliere il contratto dell’allenatore Graham Potter e portarlo a Stamford Bridge, ad altri 15 milioni versati allo stesso Potter in seguito all’esonero di pochi giorni fa. E al nuovo stipendio da corrispondere a Nagelsmann, ovviamente. Facendo un calcolo veloce e quindi inevitabilmente incompleto, veleggiamo serenamente intorno agli 80 milioni di euro spesi in meno di un anno. Una cifra che non tiene conto di tutto ciò che è stato investito e di tutto ciò che sarà investito per gli staff di questi tre allenatori, per i preparatori atletici, per i preparatori dei portieri, per i collaboratori tecnici, gli scout, gli analisti.

In tanti, a cominciare dal giornalista della NBC David Ornstein, hanno raccontato che Todd Boehly, in quanto successore di Abramovich come comproprietario del Chelsea, si era posto l’obiettivo di rivoluzionare il calcio inglese ed europeo. Come? Insieme al nuovo gruppo dirigente – formato da Mark Walter, Hanjoerg Wyss e dalla società di private equity Clearlake Capital, guidata da Jose E. Feliciano e soprattutto da Behdad Eghbali, uno degli uomini d’azione della cordata – avrebbe implementato il modello dei suoi Los Angeles Dodgers, franchigia MLB, nel contesto della Premier e della Champions League. Questo progetto si è manifestato compiutamente proprio attraverso l’operazione-Potter: visto che il Brighton aveva dimostrato di essere una delle migliori società al mondo nell’utilizzare i big data per lo scouting e il reclutamento, visto che nel 2020 i Dodgers erano tornati a vincere le World Series dopo 32 anni anche grazie a questo approccio scientifico allo sport, perché non provare a fare la stessa cosa anche con il Chelsea?

L’arrivo di Potter, in questo senso, è stato solo una parte del tutto: insieme al nuovo allenatore, infatti, Boehly ha “acquistato” dal Brighton anche il direttore del reclutamento Paul Winstanley, l’assistente tecnico Billy Reid, i coach Bjorn Hamberg e Bruno Saltor, l’allenatore dei portieri Ben Roberts e l’osservatore Kyle Macaulay. Inoltre l’idea iniziale era quella di avviare un ciclo pluriennale e quindi paziente, esattamente come quello di Dave “Doc” Roberts ai Dodgers: Roberts è arrivato a Los Angeles nel 2015, ha vinto le World Series dopo cinque anni ed è ancora alla guida della franchigia, così a Potter è stato offerto un ricco contratto – 12 milioni di sterline a stagione – fino al 2026. Era una sorta di promessa-garanzia rispetto al tempo e alla fiducia che la società riponeva in lui, nella sua capacità di individuare e sviluppare i migliori talenti di oggi e di domani. Ecco, questa promessa-garanzia non è bastata. Forse perché, come ha scritto in modo brutale Mark Ogden di Espn, «il calcio non è il baseball».

Ancora più spietate, se possibile, sono state le parole scelte da Tariq Panja nel suo commento sul New York Times: «Il Chelsea ha speso miliardi per prendere giocatori e allenatori, ma l’ha fatto in modo a dir poco incoerente». Il pensiero corre subito alla ricchissima campagna acquisti dell’estate 2022 e soprattutto al mercato pirotecnico fatto a gennaio, a quella sorta di draft all’americana – un sorteggione di nomi ma anche di cifre – che ha stravolto completamente la rosa dei Blues. In questo articolo lungo e dettagliato di The Athletic, per dire, viene raccontato che «al centro sportivo di Cobham c’erano così tante giocatori che alle riunioni tecniche non c’era spazio per tutti, così alcuni di loro dovevano sedersi a terra. Stessa cosa negli spogliatoi: a volte i calciatori hanno dovuto cambiarsi nei corridoi, visto che non c’erano abbastanza posti per tutti». Il punto è che Graham Potter, in tutto questo processo, ha avuto un ruolo chiaramente marginale. È facile accorgersene: al di là dei soldi spesi, quale allenatore al mondo avrebbe avallato gli acquisti di Mudryk, Madueke e João Félix per una squadra che aveva già Sterling, Havertz, Pulisic, Ziyech, Mount, per la stessa squadra che era priva e che sarebbe rimasta priva di una prima punta dello stesso livello? Quale allenatore al mondo avrebbe caldeggiato l’arrivo di Enzo Fernández pur avendo già a disposizione una batteria di centrocampisti composta da Kovacic, Kanté, Zakaria, Gallagher più gli adattabili Mount e Loftus-Cheek, con il solo Jorginho che sarebbe andato via? Queste e altre storture nell’assemblaggio della rosa si sarebbero potute bilanciare lavorando sul campo, avviando un progetto tattico ambizioso per non dire visionario, insistendo su concetti di gioco innovativi, costruendo un’identità forte e riconoscibile. Tutte cose che Potter non è riuscito a fare, anzi la costante della sua gestione è stata proprio l’assenza di riferimenti e principi fissi. Di certezze solide a cui aggrapparsi nei momenti di difficoltà.

L’ex manager del Brighton è apparso debole anche dal punto di vista comunicativo: certo, non tutti gli allenatori hanno il carisma – un modo edulcorato per definire la spocchia, l’arroganza e l’arte oratoria e manipolatoria – di Mourinho o di Conte o anche di Tuchel, non tutti gli allenatori possiedono la saggezza di Ancelotti o le certezze granitiche di Sarri, ma per sopravvivere a Stamford Bridge è necessario saper imporre la propria personalità, dentro e fuori il campo da gioco. Potter aveva dalla sua un contratto lunghissimo e l’appoggio incondizionato della società, o almeno questa era la sensazione trasmessa da Boehly e dagli altri dirigenti a ogni intervista in cui si parlava del futuro del loro manager, e quindi avrebbe dovuto impadronirsi del Chelsea, avrebbe dovuto entrare nella club house di Cobham e piantare una bandierina con la sua faccia. E invece è sempre sembrato in balia degli eventi, oltre che delle scelte della dirigenza. Alcuni giocatori l’hanno accusato di essere troppo gentile, troppo amichevole. Un tecnico che viene assunto da un top club e tiene questo atteggiamento dimesso ha soltanto un modo per non farsi cacciare: deve essere inattaccabile sul campo, deve vincere tantissime partite, se non tutte. In questo senso, le cifre sono deludenti ma anche eloquenti: dodici vittorie, otto pareggi e undici sconfitte.

Prima di allenare il Chelsea, Potter ha guidato il Brighton e lo Swansea. La sua carriera in panchina è iniziata però in modo inconsueto: dal 2011 al 2018 è stato tecnico dell’Ostersund, club svedese che ha portato dalla quarta divisione fino all’Europa League (Alex Livesey/Getty Images)

Quando è stato annunciato come nuovo manager del Chelsea, pochi giorni dopo l’esonero di Tuchel, Graham Potter non convinceva nessuno. Ovviamente è stato un errore criticarlo prima che cominciasse a lavorare, in fondo solo chi azzarda e chi sperimenta può scoprire qualcosa di nuovo. Il problema più grave è che questa sensazione di inadeguatezza, al netto di qualche exploit durato una o due partite e non di più, si è rivelata esatta. E non è mai scomparso del tutto. Chiunque parlasse di Potter, dentro e fuori il Chelsea, giustificava – anzi: barattava letteralmente – le difficoltà della squadra in relazione a ciò che sarebbe successo nel giro di qualche anno. Un ideale nobile, nel senso di ontologicamente condivisibile, che però non può attecchire nel sistema calcistico europeo. Soprattutto in Premier League.

E qui si torna inevitabilmente alla società, a Boehly ed Eghbali, alle loro scelte precipitose e megalomani e controculturali, tipicamente americane: nel multiverso sportivo in cui risiede il Chelsea, non c’era, non c’è e non potrà esserci tempo tempo per un vero Trust the Process. Già si parla, infatti, di possibili violazioni gravi del Fair Play Finanziario nel caso in cui i Blues non dovessero qualificarsi alla prossima Champions League – ed è praticamente certo che l’unico modo per riuscirci è vincere l’edizione in corso, visto che il quarto posto, in Premier, è lontano dodici punti. Al di là dei discorsi regolamentari e di sostenibilità, per quanto si tratti di aspetti fondamentali, va considerata l’essenza stessa del Chelsea: per un club che Barney Ronay, sul Guardian, ha definito giustamente come «un turbinio di panico, capitalismo e acquisti sfrenati», sarebbero servite delle figure in grado di reggere le pressioni, di mettere ordine, di dare una visione al club. Era quello che avevano in mente e che volevano fare i nuovi proprietari, ma hanno sbagliato i tempi, i modi e pure nella scelta degli uomini. Prendere Potter è stato un errore, ma alla resa dei conti il suo arrivo è stata solo una conseguenza di quanto era successo prima del suo arrivo. È stato un tentativo coraggioso, ma è fallito. E il fatto che oggi il nuovo Chelsea sia alla ricerca di un nuovo-nuovo progetto è un sintomo chiaro di un problema molto più profondo. Si può dire tranquillamente: il primo anno della nuova proprietà è stato all’insegna del caos. Ricchissimo, scintillante, ma pur sempre caos.