E ora chi ferma il Manchester City?

La vittoria contro il Bayern è un'affermazione di superiorità totale e racconta una nuova versione della squadra di Guardiola: non necessariamente bella, ma più efficace.

Inter, Barcellona, Viktoria, Viktoria, Barcellona, Inter, Psg, Psg. Otto partite di Champions, otto vittorie del Bayern: cosa poteva andare mai storto, con una squadra così? Beh, incontrare il Manchester City, ovviamente. Non è stata una semplice vittoria, quella della squadra di Guardiola. Di più: l’affermazione di una superiorità netta, imbarazzante. Guardando a quello che è rimasto in giro in Europa, non c’è dubbio: i Citizens sono i favoriti assoluti alla vittoria della competizione. Non vuol dire che vincerà il City: vuol dire che oggi, analizzando valore e profondità delle rose, abitudine a vincere, a misurarsi in certi match, nessuna squadra appare più attrezzata di loro. Attenzione: è un fatto nuovo. Il City, a un certo punto, rischiava di finire nella spirale del Psg: troppo ricchi eppure troppo parvenu per ambire alla coppa più prestigiosa. Lo abbiamo visto tante volte il City in Champions, controllare e poi tremare, dominare e poi crollare. La versione di quest’anno appare diversa: è una squadra meno necessariamente bella, meno esteticamente appagante, meno perfetta. Ma più efficace: ha il senso della partita, sa gestirla, sa incanalarla a piacimento. Non che il Bayern abbia fatto da comparsa all’Etihad, ma la sensazione era netta: il City ne aveva di più. E dopo il 2-0 di Bernardo Silva, buonanotte.

Guardiola è entrato in quella fase clutch della stagione: d’ora in avanti, non ce n’è per nessuno. Il City ha una striscia aperta di nove vittorie tra tutte le competizioni. Nove partite in cui ha segnato 34 gol (34, sì: 3,7 a match) e concesso appena tre reti. In questo periodo, dal match di fine febbraio contro il Bournemouth, ha alzato di parecchio la media dei gol segnati (1,2 a partita in più) e drasticamente abbassato quella delle reti concesse (da 0,8 a 0,08). In campionato la sua marcia rischia di far finire ai matti l’Arsenal, ora non più certo della vittoria finale (il 26 aprile c’è lo scontro diretto all’Etihad: potrebbe essere la partita dell’aggancio – seppur solo virtuale: il City ha una partita in meno). Non c’è nulla più che possa spaventare Guardiola e i suoi, non ci è riuscito nemmeno il Bayern, che in quanto a habitat europeo certamente non ha mai avuto problemi di ambientamento (certo, c’è stato il discutibile cambio di panchina, ma con Nagelsmann difficilmente sarebbe finita diversamente).

Da dove è uscita questa nuova versione del City? Negli anni Guardiola, soprattutto in Champions, è stato tacciato dalla stampa inglese di overthinking: se tutto funziona, perché diavolo ti viene in mente di complicarti la vita? «È per questo che vinco le partite», ha risposto stizzito il tecnico spagnolo sul tema, che gli tocca sempre un nervo scoperto. Una storia che va avanti da anni, rivangata puntualmente ad ogni flop europeo del City, in particolare nella finale persa nel 2021 contro il Chelsea – quando Guardiola decise di andare all-in ed escludere dall’undici titolare sia Rodri sia Fernandinho, scelta che con il senno di poi non si rivelò azzeccata. Ecco: sembra ora che Guardiola si sia stufato di pensare troppo, e di fidarsi più dei suoi giocatori, che di se stesso. Ricordate quando Ibra diceva che il suo ego rischiava di mettere in ombra i singoli? È un’esagerazione, ma di certo, a livello inconscio, Guardiola ha sempre pensato che la firma in un successo dovesse essere la sua.

Stavolta è diverso, e forse è stato Erling Haaland a fargli cambiare idea. Tralasciando i numeri senza senso del norvegese – no, ma scherziamo: ricordiamoli, come il maggior numero di gol di un giocatore di Premier tra tutte le competizioni nella storia, 45, e i 33 gol dopo 25 partite di Champions, 13 in più di Del Piero, secondo in questa classifica – Haaland è per Guardiola il meccanismo di emergenza che si attiva in caso di pericolo. È stato detto: senza Haaland il City gioca meglio, torna alla sua versione celestiale, armonica, suadente. Chi se ne frega, avrà pensato Guardiola. Haaland è la “sporcatura” necessaria al suo capolavoro: con lui in campo, aumentano esponenzialmente le chance di successo. Poteva il giocatore più determinante del globo terracqueo non esserlo nella sfida contro il Bayern? Ma va’: assist e gol per chiudere la pratica.

Haaland è il classico giocatore del “ci penso io”, e ci pensa lui per davvero. Guardiola lo ha capito e si è fidato. E ci ha preso gusto. Ha capito che può fidarsi di tutti, dal primo all’ultimo, del gigante Rodri in mezzo al campo, dell’invalicabile Dias al centro della difesa, di Bernardo Silva e della sua maniera di orchestrare calcio. Il processo di responsabilizzazione dei giocatori è più evidente in questa stagione. Funziona: una volta spaventati dal carattere lunatico della Champions, oggi i Citizens sono una squadra senza più insicurezze. La sfida contro il Bayern era  una prova generale, ed è andata alla grande. No timori, no incertezze. Il City era sicuro di vincere, in qualche modo. Guardiola pure: non ha avuto bisogno del predominio del campo. Anzi: il dato del 44,6 per cento di possesso palla è il più basso mai registrato all’Etihad da quando lo spagnolo è in carica.

Se basterà per vincere la Champions, la prima del City, la prima di Guardiola a distanza di dodici anni, lo vedremo. Ma di certo non abbiamo mai visto un City così padrone, a livello mentale e di gestione del match ancor prima che di gol e di occasioni, nella sua storia europea, contro una squadra di pari rango. Anche il doppio scontro con il Real Madrid dello scorso anno – bellissimo: da farsi venire le lacrime – è stato alla fine una roulette russa, con il City padrone del campo ma non dei momenti. Un City che ok, sarà stato pure sfortunato al Bernabéu, ma ha il demerito di non essere riuscito ad ammazzare il Real all’andata, in Inghilterra. Chissà se la versione 2022/23 avrà ancora quel pizzico di vulnerabilità. A giudicare dal match contro il Bayern, no.