In Quando eravamo re, strepitoso documentario sulla sfida del 1974 tra Muhammad Ali e George Foreman, c’è una scena che è un trattato di psicologia collettiva. L’incontro venne organizzato a Kinshasa, Alì andò lì molto prima del suo avversario. Sedusse la popolazione, insegnò loro a odiare Foreman: «Ali boma ye», Ali uccidilo, divenne il canto del popolo. E quando il campione in carica arrivò in Africa e scese dall’aereo, tutti rimasero sbalorditi: «Ma è nero!». La propaganda di Alì era stata talmente violenta da indurre gli abitanti a credere che Foreman fosse bianco.
Ma ormai il più era fatto, erano tutti tifosi di Ali. E tali rimasero. Ecco, per Napoli vale più o meno la stessa storia. Napoli porta con sé la dannazione di essere raccontata sempre allo stesso modo. È una sorta di luna park della narrazione. Ciascuno arricchisce Napoli dei propri sogni fanciulleschi, delle esagerazioni che non avrebbe mai il coraggio di mettere in scena. O degli aspetti che più detesta. Va tutto bene quando si parla di Napoli, basta che sia enfatizzato. Figuriamoci per un’attesa che dura da oltre trent’anni. Trentatré, per la precisione. Per quello scudetto che sembrava impensabile senza la straordinarietà del più grande calciatore di tutti i tempi.
Eppure, come ha affermato lo stesso Di Lorenzo nell’intervista concessa a Undici, più di qualcosa è cambiato. Il capitano lo ha sintetizzato nella frase: «La città è cresciuta». Concetto che proveremo a spiegare. Non prima di un doveroso omaggio a Raffaele La Capria, scrittore da poco scomparso che ha tratteggiato Napoli come pochi altri. Sia con il suo romanzo più importante, Ferito a morte, sia con la differenza che fa tra napoletanità e napoletaneria ne L’armonia perduta: «Io mi rendo ben conto che è molto difficile far capire questa differenza tra “napoletanità” e “napoletaneria” a chi non è napoletano, perché tra i napoletani e i non napoletani si è stabilita come un’intesa, la stessa che si stabilisce tra un attore e il suo pubblico, quando l’uno e l’altro si equivalgono. E come succede a quell’attore che incontra successo anche con una pessima recitazione e lo sa, e ci dà dentro lo stesso, perché così vuole il suo pubblico e così vengono gli applausi – allo stesso modo il napoletano ci dà dentro con la “napoletaneria”, e anche se sa che la sua recita è pessima e non corrisponde affatto a quello che lui veramente è ma al suo peggio, egli sa che proprio quel peggio gli è richiesto dal pubblico dei non napoletani, ed è proprio quel peggio che tira l’applauso». Ecco, certamente nella festa scudetto emergerà la napoletaneria che tanto piace. Ma l’attesa è stata un’altra cosa.
Napoli ha vissuto e sta vivendo questa stagione trionfale in maniera profondamente diversa dalle esagerazioni che da sempre le vengono attribuite. Persino la scaramanzia è stata sconfitta. Non si nasconde più nessuno. Già a febbraio sono comparse le prime bandiere con il terzo scudetto e la città si sta ormai pubblicamente preparando all’evento. Può sembrare assurdo ma sui quotidiani cittadini il dibattito, oltre che sull’organizzazione della festa, è incentrato su quanto l’eventuale tricolore possa far bene al Pil di Napoli: roba che nemmeno a Milano. Per il presidente dell’Unione Industriali «i successi del Napoli, se dovessero arrivare, sicuramente aiuterebbero, e non poco, a far sì che gli stereotipi, che da sempre colpiscono la nostra città, vengano messi in discussione».
Probabilmente uno degli aspetti fondamentali di questa mutazione è stata la silenziosa ritirata dell’ala contestatrice, la più rumorosa e folcloristica della tifoseria. Per capirci, quella che avrebbe avuto i posti d’onore in prima fila in caso di trionfo del Napoli di Sarri. La Napoli populista per eccellenza. Quella che ad agosto piangeva per le partenze di Koulibaly, Insigne e Ciro Mertens. E aveva individuato in Spalletti il responsabile numero uno del mancato scudetto. Prospettavano una stagione da incubo e sognavano la liberazione da Aurelio De Laurentiis, dipinto come un tiranno dei sentimenti che speculava sulla loro passione. «Popolino», li bollò il direttore sportivo Cristiano Giuntoli, anche se in realtà a contestare erano i salotti buoni come i disoccupati. Era il movimento A16 che voleva il presidente a Bari (il nome è quello dell’autostrada che collega Napoli al capoluogo pugliese). I fatti li hanno costretti a rimanere defilati. Festeggeranno uno scudetto vinto grazie a una strategia aziendale portata a modello.
La contestazione è stata il classico temporale estivo che poi fa posto al cielo terso. È come se avesse lasciato un vuoto che Napoli ha voluto colmare di normalità. A differenza delle scorse stagioni, quest’anno lo stadio Maradona è stato pieno sin dalla prima partita giocata contro il Monza. Sulle gradinate, oltre agli appassionati storici, tanti volti nuovi, non arrabbiati, giovani coppie. Famiglie con bambini. Il clima allo stadio è cambiato moltissimo. Non si è più respirato quell’assillo della vittoria che negli anni precedenti era diventato una vera e propria ossessione. È come se il rapporto tra la città e la sua squadra di calcio si fosse liberato di quella morbosità che spesso ne è stato il tratto distintivo. Sembra assurdo visto che si parla di Napoli, ma si è andati allo stadio anche per assistere a uno spettacolo. Chi era su quelle gradinate ha capito da subito che sarebbe stata una stagione diversa, probabilmente magica. Non a caso il primo gol casalingo è stato uno splendido tiro a giro di Kvaratskhelia contro il Monza. Cui è seguita l’indimenticabile demolizione del Liverpool in Champions League. Una strana sensazione di gioia e di incredulità, di gratitudine e di commozione. La tifoseria si è sentita responsabilizzata dal compito di non turbare il clima che si stava creando.
È come se Napoli avesse capito e interiorizzato che avrebbe dovuto adeguare il proprio comportamento ai cambiamenti della squadra. Di fronte a un Napoli diverso era il caso di sfoderare un atteggiamento diverso. Quella frase di Di Lorenzo – «la città è cresciuta» – fotografa un nuovo modo di relazionarsi. Meno asfissiante. Un amore non meno intenso, semplicemente più sano. Persino più privato. I calciatori non si sono più sentiti in dovere di alimentare la Napoli da cartolina. A nessun calciatore è stato affibbiato come soprannome un nome di battesimo tipico partenopeo. Nessuna esigenza di napoletanizzare. E nella coppia ciascuno ha avuto i suoi spazi. Ci si vede allo stadio, il resto della settimana ognuno si comporta come crede. I calciatori di Spalletti fanno poca vita sociale, decisamente meno rispetto a chi li ha preceduti. Ha funzionato. Fin troppo bene. Non solo. La città ha mostrato di apprezzare il Napoli internazionale, poliglotta. Osimhen non parla italiano, si fa intervistare in inglese. Kvaratskhelia non parla italiano. Kim neanche a pensarci. Eppure si fanno capire alla perfezione. Del resto il linguaggio è quello calcistico. Quando si rivolge al georgiano, Spalletti lo fa in inglese. A volte temperato da qualche toscanismo. Nella rosa sono rappresentate diciassette diverse nazionalità. Qualcuno l’ha definita una virtuosa Torre di Babele.
La città ha assecondato questo fiume di globalizzazione. Si è affidata al Napoli costruito seguendo i criteri di bilancio. Ha imparato a frenarsi. Persino i salotti delle tv private ne hanno risentito. Non c’è più nulla su cui litigare e il tifoso non ha più rabbia e frustrazione da sfogare. Qualche imprenditore televisivo in privato se n’è lamentato: col Napoli che domina, gli ascolti non sono paragonabili a quelli dei giorni caldi della piazza divisa tra sostenitori e detrattori del presidente e degli ex calciatori simbolo. Non ha attecchito nemmeno l’afflato retorico-complottistico di Roberto Saviano sul vento del Nord che avrebbe potuto sottrarre lo scudetto al Napoli: non ce n’è stata l’opportunità, le continue vittorie hanno spazzato via qualsiasi accenno di polemica. L’unica eccezione è rappresentata dall’atavica avversione per la Juventus. Quella non la scalfisce nessuno. È una tradizione, come Totò e Peppino con Mezzacapa in Totò, Peppino e la malafemmina.
In fondo, Napoli si è semplicemente adeguata alla passione dei fuorisede. Che poi rappresentano la stragrande maggioranza della tifoseria. Lo stadio globale di cui De Laurentiis ha parlato sin dal primo giorno della sua presidenza. Non c’è luogo nel mondo dove non ci sia un tifoso del Napoli. Il cartello “Forza Napoli” è comparso anche a Maranello nel corso della presentazione della nuova Ferrari. Lontano da Napoli la tifoseria ha da sempre un rapporto diverso con la squadra. Chi vive altrove – quelli che un tempo erano chiamati emigranti – si emoziona alla sola vista della maglia. La squadra ha finito col non giocare mai fuori casa. Neanche dopo i provvedimenti restrittivi del Viminale che ha vietato le trasferte. Ogni città italiana è zeppa di residenti tifosi del Napoli. A Reggio Emilia, contro il Sassuolo, i tifosi di casa erano in minoranza. Il campionato si è trasformato in un festeggiamento itinerante, proprio come accadeva ai tempi di Maradona. In attesa del grande evento. A quel punto, fatti i debiti scongiuri, Napoli si lascerà andare. Anche comprensibilmente. Trentatré anni sono tanti.