Giovanni Di Lorenzo e un incantesimo napoletano

Intervista al capitano della squadra che sta dominando il campionato di Serie A.

In una scena del film cult The Devil’s Advocate, thriller legale dalla trama esoterica uscito nel 1997, Al Pacino/John Milton dice che Keanu Reeves/Kevin Lomax è un grande avvocato «perché nessuno lo vede mai arrivare». È una descrizione che potrebbe aderire anche alla figura e alla storia di Giovanni Di Lorenzo, capitano del Napoli che sta dominando la Serie A 2022/23 e che ha incantato pure in Champions League, titolare della Nazionale che ha vinto gli ultimi Europei. Si tratta di una cosa strana, a dire il vero: tutti si aspetterebbero che un giocatore contemporaneo con queste referenze – e con lo status che ne deriva – sia un predestinato esploso da teenager che ha saputo mantenere le promesse. Invece nessuno ha visto arrivare Di Lorenzo, che si è imposto ai massimi livelli quando era già adulto, almeno per gli standard del calcio di oggi. Come se non bastasse la sua esplosione è stata allestita partendo dal basso, in tempi brevi, senza segnali premonitori: nella primavera del 2017, alle soglie dei 24 anni, Di Lorenzo giocava ancora in Serie C; nei quattro anni successivi ha vinto la Serie B e ha scoperto la Serie A con l’Empoli, è stato acquistato dal Napoli, ha esordito in Champions League, ha esordito in Nazionale e ha vinto l’Europeo da protagonista. Così, tutto d’un fiato.

Durante l’intervista rilasciata a Undici, appollaiato su una terrazza panoramica al sole caldo dell’inverno, Giovanni Di Lorenzo ha schernito la sua carriera un po’ anomala, un po’ fuori dal tempo: «Era difficile immaginare un percorso del genere, visto da dove sono partito: oggi la maggior parte dei giocatori comincia nelle prime squadre, a un livello già alto». Allo stesso tempo, però, non è riuscito a nascondere un orgoglio denso e luccicante per il suo passato, per l’eccezione che rappresenta: «Non cambierei niente, tutto ciò che ho fatto mi ha reso la persona e il calciatore che sono. E poi, quando raggiungi certi risultati partendo dalle categorie inferiori, la soddisfazione è doppia. La mia forza più grande è stata la capacità di non mollare mai. E adesso gioco in una grande squadra che disputa le coppe europee e anche nell’Italia, sento l’inno nazionale e quello della Champions prima delle partite: sono cose che uno sogna da bambino, sono cose che a me toccano molto visto quello che ho fatto per arrivare fino a qui. Sono emozioni forti, e me le sto godendo tutte».

Giovanni Di Lorenzo è cosciente che ogni calciatore, così come ogni essere umano, ha una storia da scrivere in un tempo che non può essere uguale per tutti. Una storia che per altro è sempre diversa, visto che ci sono anche i contributi degli altri e del caso. La sua, per esempio, è la storia di un bambino-attaccante – ha detto che «da piccolo la gioia più grande era quella di segnare, quindi ho iniziato a giocare davanti» – che i compagni chiamavano Batigol, che poi è stato arretrato a centrocampo e che alla fine è diventato difensore. Ma come e perché è avvenuta questa trasformazione? «Per necessità, anzi per emergenza: in un torneo quando ero ragazzo, visto che non c’erano difensori, sono stato schierato da centrale. Poi qualche anno dopo sono stato spostato nel ruolo di terzino, e così ho scoperto la mia vera vocazione».

Prima di quest’ultima metamorfosi, il viaggio di Di Lorenzo è stato lungo, accidentato: la scuola calcio nel Valle di Ottavo, l’ingresso nel vivaio della Lucchese, l’esordio in Serie D a 15 anni, un’età da predestinato, ma tu guarda il paradosso. Poi l’ultimo tratto del percorso giovanile con la Reggina, la prima stagione vera in prestito a Cuneo – 27 presenze in Lega Pro Prima Divisione – e un assaggio di Serie B dopo il ritorno in Calabria. Il fallimento della Reggina rallenta la corsa di Di Lorenzo, visto che l’occasione per ripartire arriva dal Matera, di nuovo in Serie C: in panchina c’è Pasquale Padalino, un ex difensore centrale che lo sposta sulla fascia destra. È una mossa che cambia e indirizza la sua carriera, che determina – dopo due ottime stagioni in Basilicata – l’approdo all’Empoli. Quell’Empoli che, secondo Di Lorenzo, è «una società in cui tutto è fatto su misura per far crescere i ragazzi, per valorizzare il loro talento: ti fanno sentire in famiglia, ti danno fiducia e la possibilità di sbagliare. È impossibile dire una sola parola negativa sull’Empoli».

In questi anni di formazione, Di Lorenzo ha maturato una consapevolezza di sé fondata su un’etica professionale inscalfibile, quasi calvinista. Ogni aneddoto che snocciola e ogni concetto che esprime si fondano sull’idea del lavoro come culto irrinunciabile da professare, come unico mezzo possibile per raggiungere degli obiettivi. Altrimenti non avrebbe detto che «i vari step della mia carriera sono stati quelli giusti per me, mi hanno permesso di fare ciò che dovevo: migliorare a livello tecnico, tattico, fisico». Altrimenti non penserebbe che la chiamata del Napoli – arrivata nell’estate del 2019 – e il lancio immediato da titolare in un club di prima fascia siano state delle conquiste «che mi hanno sorpreso ma che in fondo erano meritate, perché credo di aver lavorato bene e di essermi messo in mostra fin dall’inizio». Ecco, questa è un’altra dote significativa di Di Lorenzo, probabilmente la più importante di tutte: ci mette poco tempo ad adattarsi a un contesto di livello superiore, e allora il suo impatto si avverte prestissimo, anche se nessuno se l’aspetta. È andata così a Empoli, nella prima annata da titolare in Serie B e poi nella stagione d’esordio in Serie A. È andata così a Napoli, dove Ancelotti ne ha fatto subito un inamovibile e lui, per tutta risposta, ha segnato contro la Juventus alla seconda partita ufficiale in maglia azzurra. È andata così persino con la Nazionale, Di Lorenzo infatti ha vinto il titolo continentale alla presenza numero 13 con un’altra maglia azzurra addosso. In virtù di tutto questo, è sbagliato dire che Giovanni Di Lorenzo non l’abbiamo visto arrivare: la verità è che ci siamo accorti di lui quando era troppo tardi. Quando era entrato in scena, e la scena era già diventata sua.

Giovanni Di Lorenzo è nato il 4 agosto 1993 a Castelnuovo di Garfagnana, in provincia di Lucca. Il suo esordio da professionista risale al 2011, quando aveva 17 anni: Gianluca Atzori, allenatore della Reggina, lo schiera nell’ultima gara del campionato di Serie B contro il Sassuolo.

La consapevolezza di Giovanni Di Lorenzo non è solo un fatto storico, proiettato nel passato: nutre e definisce il presente, finisce addirittura per anticipare il futuro. Descrivendo il calciatore di primo livello che è diventato, ha detto di sentirsi «forte fisicamente, bravo nelle due fasi: una caratteristica importante per chi gioca del mio ruolo». Poi ha aggiunto che «una delle cose in cui sono migliorato di più è la concentrazione: mi emoziono ancora tanto prima di una partita importante, ma poi l’arbitro fischia l’inizio e tutto passa in secondo piano. Credo che la capacità di concentrarsi sulla gara sia fondamentale per qualsiasi giocatore». Ha le idee piuttosto chiare anche sui suoi punti deboli, sulle cose da migliorare: «Devo fare di più nell’ultimo passaggio, nella creazione di occasioni da gol. E quindi sto lavorando molto su questo aspetto».

Pochissime ore prima di pronunciare queste parole, all’apice dell’azione che ha portato il Napoli sul 3-0 contro la Cremonese allo stadio Maradona, Di Lorenzo aveva servito a Elmas un assist ficcante eppure vellutato, un passaggio adatto sia ad aggirare ma anche ad attraversare la linea difensiva degli avversari. E aveva effettuato questa giocata occupando la posizione di mezzala, con la stessa padronanza e la stessa sensibilità tecnica di una mezzala pura, assecondando bene un meccanismo tattico – l’occupazione del mezzo spazio di centrodestra dopo essersi sovrapposto internamente all’esterno alto – che Luciano Spalletti gli ha insegnato/imposto fin dal suo arrivo a Napoli, nell’estate 2021.

Rivedere quella sequenza, il movimento a venire dentro il campo, lo scambio di prima con Elmas, l’ultimo tocco delicato eppure tagliente, la palla che volteggia coi giri contati, è un modo per comprendere la grande crescita di Di Lorenzo, per misurare la complessità e la modernità che oggi caratterizzano il suo gioco. E che lo rendono uno dei migliori laterali della Serie A, uno dei terzini più completi d’Europa. Per Di Lorenzo, anche questo passaggio di stato e di status è arrivato grazie al lavoro, il suo in allenamento e quello che i suoi allenatori hanno fatto su di lui nel corso degli anni: «Tutti i tecnici che ho incontrato mi hanno dato e lasciato qualcosa di bello, di importante. Risalendo le categorie, ho avuto la fortuna di incrociare alcuni tra gli allenatori più bravi in assoluto, questo mi ha aiutato a scoprire le mie doti, anche quelle più nascoste. E poi è una questione di fiducia: quando un giocatore sente di avere la fiducia del suo allenatore, riesce a fare cose che prima gli sembravano impossibili».

Di Lorenzo è sempre stato un terzino con ottime qualità offensive: nel corso della sua carriera, infatti, ha messo insieme 23 gol segnati e 45 assist decisivi.

Nella storiografia del Napoli, soprattutto quella degli ultimi quarant’anni, il leader ideale della squadra azzurra è un calciatore dal talento soprannaturale e con una forte carica carismatica, una sorta di «messia salvifico di cui Napoli sembra avere perennemente bisogno», per riprendere le parole usate dal sociologo Amedeo Zeni e dallo storico Angelo Frungillo in una serie di articoli sul rapporto tra la squadra e la città. Non c’è alcuna iperbole in queste parole: da Diego Maradona in giù, infatti, tutti i capitani e tutti gli uomini simbolo del Napoli moderno e contemporaneo – Ferrara, Zola, Paolo Cannavaro, Lavezzi, Hamsik, Cavani, Higuaín, Insigne, Mertens, Koulibaly – avevano un’aura ed esercitavano una leadership molto diverse rispetto a quelle di Giovanni Di Lorenzo, per ragioni di censo tecnico e/o di appartenenza territoriale.

Forse è anche per questo che, mentre raccontava il momento in cui ha ereditato la fascia da Lorenzo Insigne, nel corso dell’estate 2022, l’attuale capitano del Napoli ha confessato che «non mi aspettavo di essere scelto, non pensavo che potesse toccare a me». Un attimo dopo, però, è tornato a essere un uomo-calciatore consapevole e sicuro di ciò che lo rende speciale: «Insigne e Mertens erano già andati via, Koulibaly è stato ceduto durante il ritiro. A quel punto il mister doveva scegliere, e credo che abbia scelto me per il modo in cui mi comporto, non solo in partita ma anche in allenamento, per il fatto che vado sempre al massimo. Questo mi ha aiutato: anche se il ruolo di capitano comporta delle responsabilità, anche se nello spogliatoio vanno prese delle decisioni, io resto ancora il giocatore e l’uomo che ero prima. Solo che ora do ancora di più per rappresentare il gruppo».

A guardarla bene, è una vera e propria rivoluzione culturale: la nuova guida emotiva e spirituale del Napoli è un calciatore artigiano nel senso più nobile del termine, un esempio da seguire per la sua costanza, per la sua umiltà, per la sua umanità. Non a caso, viene da dire, ha raccontato che «tutti i miei compagni hanno approvato la scelta del mister e mi hanno sostenuto come nuovo capitano, anche quelli che erano in società da più tempo e magari avrebbero potuto essere nominati al posto mio: questa è la cosa che mi ha reso più felice in assoluto».

Giovanni Di Lorenzo era uno dei due calciatori dell’Italia, tra i 26 convocati dal ct Roberto Mancini per Euro 2020, ad aver accumulato più di 50 partite in Serie C. L’altro era Matteo Pessina.

Da questa estate in poi, Giovanni Di Lorenzo è stato immerso in una realtà che non immaginava potesse essere così bella, così generosa. È una sensazione che si è percepita in maniera limpida quando ha raccontato gli ultimi mesi della sua carriera: «Essere capitano», ha detto, «è sempre un’esperienza meravigliosa. Ma la fascia del Napoli l’ha portata il più grande calciatore di tutti i tempi, e quindi indossarla è una cosa davvero speciale». Accanto alle gioie e alle soddisfazioni professionali ci sono pure quelle personali, quelle legate alla famiglia, all’ambiente in cui vive: «Dopo che il mister mi ha consegnato la fascia», ha ricordato Di Lorenzo, «l’ho detto subito ai miei familiari e a mia moglie: sono le persone che mi stanno vicine da sempre, e meritavano di condividere con me questa gioia. Poi c’è mia figlia Azzurra, con cui cerco di passare la maggior parte del mio tempo fuori dal campo. Giochiamo ogni tre giorni, perciò ogni volta che posso cerco di fare delle cose normali con lei, portarla al parco, a passeggiare in città».

Da questo punto di vista, Napoli ha le sembianze di un’oasi protetta, per Giovanni Di Lorenzo: «Il clima fantastico, il cibo buonissimo, i tifosi super disponibili: io e la mia famiglia ci troviamo benissimo qui, anche i figli crescono bene. Ci sono tanti pregiudizi su questa città, ma poi chiunque arriva vuole rimanerci per molto tempo». Non è incidentale, dunque, che il Napoli sia la squadra di Serie A – tra quelle che non sono mai retrocesse – ad aver utilizzato meno giocatori in assoluto (71) dal 2015 a oggi. Commentando questo dato, Di Lorenzo ha detto che «il merito è anche del club, infatti chi va via finisce per rimpiangere tutto quello che si è lasciato alle spalle: la società, la bellezza della città, il calore dei tifosi e delle persone in generale. Sono cose che possono venire a mancare, e infatti sono in tanti a voler tornare qui».

Da quando è arrivato al Napoli, nell’estate 2019, Giovanni Di Lorenzo ha accumulato 12 gol e 28 assist in 174 partite di tutte le competizioni

Angelo Carotenuto, pochi mesi fa, ha scritto che «Napoli avverte un’invincibile fatica nel momento delle separazioni». Erano i giorni in cui De Laurentiis, Giuntoli e Spalletti stavano portando a termine un profondo rinnovamento della squadra, una vera e propria rottamazione dal grande significato politico: gli addii praticamente simultanei di Insigne, Mertens e Koulibaly avevano reciso molti legami con il passato, e nonostante gli arrivi di Kvaratskhelia, Kim Min-jae, Olivera, Raspadori e Simeone c’era una certa sfiducia intorno al nuovo progetto. In pochi si aspettavano che il Napoli potesse essere competitivo fin da subito, vista la portata del cambiamento. In pochissimi credevano nel Napoli come una squadra in grado di inserirsi nella lotta al vertice. Tra questi, però, c’era proprio Giovanni Di Lorenzo, il nuovo capitano: «Eravamo reduci da un’estate particolare», ha raccontato. «L’ambiente di Napoli aveva vissuto con dispiacere le partenze di tanti giocatori simbolo, alcune anche inaspettate. Però io vedevo e sentivo che stava nascendo un bel gruppo, che stavano arrivando giocatori molto bravi anche se non famosissimi, ma soprattutto disponibili: io credo che gli allenatori debbano adattarsi ai calciatori, ma pure i calciatori devono mettersi a disposizione del mister. Anche i ragazzi tornati dai prestiti volevano dimostrare di essere all’altezza, di poter stare del Napoli, e si sono inseriti subito nel gruppo. Mi ricordo che, dopo alcune amichevoli in ritiro, dissi a uno dei collaboratori di Spalletti – Simone Beccaccioli, ndr – che quest’anno potevamo fare molto bene. Ecco, sta andando proprio così».

Ora l’aria è cambiata, ora intorno al Napoli spira un’euforia comprensibile, inebriante, coinvolgente. E allora ha senso chiedersi: come si gestisce questo ribaltone emotivo? Su questo punto, Di Lorenzo non è sembrato avere dubbi: «Io penso che l’entusiasmo vada cavalcato, alimentato con le prestazioni. Nessuno si aspettava una stagione così, quindi siamo tutti molto contenti. Ma siamo anche con i piedi per terra: mancano ancora molte partite e dobbiamo lavorare tanto. Io non c’ero quando il Napoli e quindi alcuni dei miei compagni ed ex compagni hanno sfiorato lo scudetto, però penso anche che siamo cresciuti. Siamo cresciuti noi, è cresciuto il Napoli, è cresciuta anche la piazza». Niente di nuovo: crescere, in fondo, è la cosa che riesce meglio a Giovanni Di Lorenzo. Ora lui e il suo Napoli sembrano così grandi che è impossibile non vederli arrivare.

Da Undici n° 49
Foto di Eric Scaggiante