Tutte le stranezze di The Decision, lo show in cui è nato un nuovo LeBron James

Un estratto del libro LeBron James è l'America, scritto da Simone Marcuzzi ed edito da 66thand2nd.

Estate 2010. Il giorno dell’annuncio si avvicina. L’idea di farne un evento ha trovato compimento in uno show televisivo, una diretta fissata per le nove di sera dell’8 luglio da Greenwich, Connecticut, in una palestra del Boys & Girls Club, associazione di cui in passato la famiglia James aveva ricevuto il sostegno, e che avrebbe ricevuto i proventi della serata. A trasmettere lo spettacolo, della durata di un’ora e pomposamente intitolato The Decision, l’emittente Espn. A fare da spalla a LeBron, ovviamente, il giornalista Jim Gray. Situazione controllata, proprio come fatto da Tiger Woods. Con due importanti differenze: innanzitutto, Woods aveva concordato le modalità del suo messaggio con i vertici della Pga, l’organizzazione che cura i principali tour professionistici di golf negli Stati Uniti. Lo staff di LeBron non ha concordato nulla con la Nba, al contrario: il commissioner David Stern, venuto a conoscenza delle intenzioni della star dei Cavs, sconsiglia caldamente la messa in onda dello spettacolo. Tenta addirittura di intervenire direttamente con Espn, uno dei partner commerciali della Nba, ma senza successo.

In secondo luogo, è il momento esistenziale dei due sportivi a essere agli antipodi. Woods si trovava al centro del proprio buco nero personale, e stava giocando nel modo più razionale possibile le poche carte a disposizione per provare a uscirne. LeBron è un giocatore ancora in ascesa, che tutti vorrebbero nel proprio roster, ma non ha ancora vinto un titolo, e nel suo ergersi sopra tutto e tutti è ragionevole scorgere una grave mancanza di misura e di stile. Ma in fondo lo spettacolo è pensato anche per segnare un momento spartiacque per la comunicazione sportiva, perciò non può mettere d’accordo tutti. Quanto si rivelerà una frattura nella vita di LeBron, invece, nessuno pare averlo previsto.

Il set dello spettacolo è piuttosto scarno. La palestra poco illuminata, dei ragazzi silenziosi seduti attorno alle postazioni di LeBron e Jim Gray, un distributore automatico. Da subito LeBron mostra un disagio concreto, evidente fin dall’aspetto. Veste una camicia viola a quadri, un paio di pantaloni scuri e un paio di scarpe marroni, e la sua presenza non trasmette alcuna energia. Non c’è l’aura che sa diffondere in campo nei momenti importanti, quando diventa uno e tanti, nutrendo i compagni della sua speciale linfa. E non c’è nemmeno l’impeto mostrato spesso con i media anche su temi scomodi. Pare lì controvoglia, pare lì ineluttabilmente, come se si fosse accorto di aver sbagliato manovra quand’è ormai troppo tardi.

L’intervista si trascina a lungo – d’altra parte, il tempo da riempire abbonda – e con momenti di autentico imbarazzo, come quando Gray chiede a LeBron se si mangia ancora le unghie. Ma anche sorvolando sui maldestri tentativi di alleggerimento del conduttore, a chi può interessare quando LeBron abbia deciso, quanto abbia sofferto, chi lo abbia consigliato, quante persone conoscano la sua decisione in quel momento? È il trionfo dell’autoreferenzialità, oltre che una sopravvalutazione indegna del proprio ruolo. Ci vogliono diciotto domande per arrivare a quella decisiva. E qui, per il fin troppo atteso climax, con tutto il tempo avuto a disposizione per riflettere e cesellare, LeBron sceglie queste parole: «Questo autunno… questo è molto difficile… questo autunno porterò i miei talenti a South Beach e mi unirò ai Miami Heat».

The Decision

Questa frase – citata, radiografata e analizzata alla nausea nelle settimane e negli anni seguenti – diventa immediatamente famigerata. In quel momento, in quel contesto, pronunciata da quella versione di lui, suona finta, enfatica, raccapricciante. Alle orecchie degli appassionati di basket, allo stesso tempo, è anche familiare. Nella primavera del 1996, nella palestra della sua high school, Kobe Bryant, idolo d’infanzia e ora rivale di LeBron, aveva annunciato di aver deciso di saltare il college per «portare i suoi talenti» nella Nba.

Per l’occasione Kobe vestiva un abito elegante del padre, aveva un paio di occhiali da sole appoggiati con irriverenza sulla fronte, e a metà dichiarazione si era prodotto in una pausa scenica come se non ricordasse perché si trovava lì. L’attesa era palpabile ma, di nuovo, era una situazione emotivamente diversa. Per Kobe era un giorno di festa, la sua rivelazione era stata ampiamente anticipata e si aspettava solo che diventasse realtà, e infatti quando terminò l’annuncio con un grande sorriso stampato in volto, il pubblico presente gioì rumorosamente.

LeBron non genera l’entusiasmo di nessuno dei presenti. Al contrario, per la maggior parte dei telespettatori lo show finisce in quel momento. Secondo le rilevazioni ufficiali, dopo l’annuncio cambiano canale in massa. Ne hanno avuto abbastanza. In realtà, Jim Gray continua a fare domande, dando modo a LeBron di spiegare che la scelta è andata sulla squadra che gli offre maggiori garanzie di vittoria, e non di «cinque partite di fila o tre partite di fila», ma di «tanti titoli».

Si parla anche della convivenza con Dwyane Wade, leader della squadra e già vincitore di un anello con gli Heat, e con l’altro nuovo arrivato Chris Bosh, con cui LeBron avrebbe formato un terzetto di stelle presto identificato come i nuovi «Big Three». È una questione tutt’altro che oziosa, specie in un contesto fortemente machista come quello della Nba. Avere una gerarchia chiara spesso è la salvezza degli spogliatoi. Gli Heat sarebbero stati la sua squadra o quella di Wade? LeBron elude la domanda, dicendo in sostanza: di entrambi. Di più, di ognuno degli Heat: «Tutti avranno i propri riflettori puntati, dopodiché tutti dovranno fare ciò che è meglio per la squadra». L’impressione, oggi come allora, è che uno show come The Decision, forse, non c’era modo di farlo funzionare. LeBron fa di tutto per mantenere un contegno emotivo, in un momento in cui un equilibrio di sentimenti, semplicemente, non può esistere.

Un estratto dal libro LeBron James è l’America, di Simone Marcuzzi, edito da 66thand2nd