Secondo Roberto Rivelino, uno dei cinque numeri dieci brasiliani in campo durante la finale di Messico ’70, la finale vinta per manifesta superiorità contro l’Italia, la colpa dell’eliminazione della Seleção ai quarti di finale dello scorso Mondiale contro la Croazia ai rigori, è stata tutta del suo allenatore: «Tite ingessa la nostra nazionale. Tatticamente è ingessata, non ha niente. C’è un giocatore a destra, uno a sinistra, uno al centro; nessuno si mescola». In quasi sette anni alla guida del Brasile, Tite ha saputo ricostruire la credibilità della Nazionale più blasonata del mondo dopo la dura crisi post-Mineirazo. Ed è anche riuscito a riportarla fin da subito in una dimensione top, nonostante le due sofferte eliminazioni ai Mondiali: la squadra che ha vinto la Copa América 2019 è stata senza dubbio la più dominante vista in Sudamerica negli anni Dieci, e di certo Tite è il migliore allenatore che il Brasile – sia a livello di club che di Nazionale – abbia espresso in quel periodo.
Il giudizio del leggendario fantasista è di certo iperbolico e ingeneroso, eppure rientra in un dibattito di più ampio respiro portato avanti anche da diversi analisti. L’autore che scrive sotto lo pseudonimo di Jozsef Bozsik, in un suo lungo articolo che ripercorre le permanenze e i cambiamenti nella storia del calcio brasiliano, porta avanti una tesi secondo cui, per una questione culturale e tecnica e quindi di uomini e calciatori, il vero gioco brasiliano ha necessità di esprimersi in squadre libere da vincoli posizionali rigidi, organizzate secondo connessioni istintive, asimmetriche, i cui giocatori hanno la libertà adeguata per esprimere il loro talento – che si tratti di puntare l’uomo, associarsi, inventare – ragionando in funzione del pallone e dei compagni, più che dello spazio da occupare. Ciò che Bozsik imputa a Tite, dopo un inizio di gestione molto affine a questi concetti, è di aver virato su uno stile sempre offensivo e orientato al dominio del gioco, però più rigido e posizionale, che considera lontano dallo spirito profondo del calciatore brasiliano e quindi – in declinazioni diverse a seconda del contesto dell’epoca – della Seleção.
Il centro del dibattito, dunque, non è Tite – che, va ribadito, ha di fatto rimesso in piedi la Nazionale – ma il modo in cui è cambiato il calcio in quella parte del mondo: il Brasile, a livello storico e culturale, prima ancora che calcistico, è frutto di commistione, di meticciato, ed è inevitabile che un movimento così ricettivo e aperto alle idee che arrivano dall’esterno abbia attinto a piene mani anche dai principi del gioco di posizione, ovvero il modello egemone dell’ultimo decennio di calcio europeo. Se le versioni più iconiche della storia della Seleção, dal Brasile di Didí, Vavá, Pelé e Garrincha, passando per quello dei cinque numeri dieci e per la squadra straordinaria di Telê Santana, eliminata dall’Italia nell’82 (il momento in cui, secondo Jonathan Wilson, il sistema ha battuto l’uomo) costituiscono un eterno ritorno all’identità a cui fa riferimento Bozsik, l’allenatore brasiliano che in questo momento sembra portare con sé più di chiunque altro questa visione calcistica è senza dubbio Fernando Diniz, il tecnico del Fluminense. In Brasile è salito alla ribalta nel 2016, quando con il piccolo Audax è andato a un giro di rigori dalla vittoria del campionato Paulista; poi, negli anni successivi, ha allenato anche big come São Paulo e Vasco da Gama, portando con sé la fastidiosa e superficiale etichetta di allenatore spettacolare, preparato, ma troppo idealista per vincere. Il suo primo titolo in carriera è arrivato poche settimane – il campionato statale di Rio, per altro dopo aver battuto il Flamengo in finale – e per il momento ha vinto tutte e quattro le partite di Copa Libertadores e Brasileirão giocate.
Il Fluminense di Diniz è una squadra che vive di sintonie, quella collettiva tra i singoli calciatori e quella di ognuno di loro con il pallone: si gioca costantemente dal basso, si insiste nel fraseggio, si creano uno-due costanti, si cerca la superiorità numerica e si dominano le partite attraverso il possesso. Questo stile, abbinato alla grande aggressività nel recupero palla alto, ha portato molti commentatori a paragonare il suo calcio a quello di Guardiola, ma Diniz – che del Manchester City di Pep si è sempre detto grande ammiratore – ha evidenziato che esistono non solo delle differenze, ma che si tratta due proposte concettualmente antitetiche, se guardate da un certo punto di vista: «Il suo modo di tenere palla è opposto al mio. È un gioco molto posizionale, i giocatori rispettano molto le posizioni e il pallone si muove nello spazio. I giocatori obbediscono allo spazio, si muovono dentro quello spazio e la palla arriva lì», ha spiegato Diniz. «Il modo in cui vedo io vedo il calcio è quasi aposizionale, nel senso che i giocatori cambiano molto la loro posizione».
Vedendo giocare il Fluminense, si percepisce come le connessioni siano istintive: l’azione si sviluppa sempre avvicinando molti giocatori al pallone, generando scambi e continui smarcamenti. Non ci si preoccupa di occupare i cinque proverbiali canali che nel gioco di posizione dividono in verticale il campo, si cerca la prossimità, la vicinanza, lo scambio insistito. È assolutamente consueto vedere il terzino destro Samuel Xavier iniziare l’azione nella sua posizione naturale e chiuderla, diversi scambi dopo, ricevendo palla al centro dell’area. Marcelo, che ha consacrato la propria carriera a dimostrare al calcio contemporaneo fino a che punto un laterale brasiliano possa essere più di un terzino, ha segnato in finale contro il Flamengo quello che altrove sarebbe a tutti gli effetti il gol di un’ala destra. Fernando Diniz non ha mai fatto mistero che la squadra ad averlo emozionato più profondamente, da ragazzo, è stato il Brasile del 1982: è difficile pensare che l’esempio di quella Seleção, libera, asimmetrica e armoniosa, non sia alla base del suo modo di intendere il gioco.
Prendetevi cinque minuti di pausa
In fondo non è un caso che la stella della squadra sia un calciatore guardato dal calcio europeo con tanta fascinazione e poca fiducia, concepito spesso come troppo esotico per il nostro contesto e troppo vintage per il nostro tempo – alla stregua di un soprammobile che proprio non sapresti dove mettere nel tuo salotto. Stiamo parlando, ovviamente, di Paulo Henrique Ganso. La heatmap del numero dieci del Tricolor è interamente rossa, perché tocca palla e fluttua praticamente ovunque, alternando gli uno-due e i fraseggi alle giocate di pura chiaroveggenza che lo rendono un giocatore di culto. Ganso, come tutti i fantasisti mortificati almeno una volta nella vita dalle circostanze e dai sistemi, ammette di aver bisogno di sentirsi protagonista, per rendere: Diniz lo ha definito pubblicamente «un genio del calcio» e gli ha messo a disposizione un contesto affine al suo modo di stare in campo, in cui tutti i giocatori, dal portiere in su, non hanno paura di avere il pallone tra i piedi, di assumersi il rischio della giocata invece che rimanere incasellati nello spazio mentale, prima che fisico, della loro posizione, o di un gioco più diretto.
Jamie Hamilton ha approfondito la sua figura e la sua intenzione di svincolare i calciatori dal ruolo di meri esecutori di un sistema in un articolo intitolato “Fernando Diniz vs the man-machine“. La responsabilizzazione del giocatore, la fiducia nel suo talento e nella sua capacità di prendere decisioni in campo sono la conseguenza di un sentimento più profondo, che Diniz si porta dietro dalla sua carriera di calciatore di buon livello (ha giocato per diverse grandi come Flamengo, Corinthians, Palmeiras e Santos). In un’intervista di undici anni fa, agli albori della sua carriera di allenatore, ha raccontato di aver vissuto con frustrazione il contesto del calcio professionistico: «Vogliono che tu sia una macchina, nessuno sa cosa pensi, perché lo pensi, perché soffri. Il calcio non è uno strumento che favorisce l’umanizzazione delle persone. Il calciatore non è una macchina fatta per vincere e guadagnare soldi». Dopo il ritiro precoce, a 33 anni, si è dedicato agli studi di psicologia, ma la sua carriera è proseguita nel mondo del calcio, probabilmente per creare un contesto pensato in maniera opposta a quello con cui si era dovuto confrontare durante la sua esperienza da calciatore.
Alcuni mesi fa, dopo le dimissioni di Tite, al termine di un ciclo di più di sei anni in cui, nei centoventi minuti, ha perso soltanto due partite delle competizioni ufficiali, (la finale di Copa América 2021 con l’Argentina e il quarto di finale del 2018 con il Belgio), anche il nome di Fernando Diniz è stato menzionato tra i possibili sostituti come commissario tecnico della Seleção. Indipendentemente da quello che sarà il futuro del suo allenatore, il Fluminense oggi brilla come una squadra speciale: profondamente in sintonia con i tratti culturali di lungo periodo della cultura calcistica da cui proviene, ma allo stesso tempo controculturale rispetto a un contesto attuale dominato dal gioco di posizione. Immaginare contrapposizioni tra assoluti e aggiungere il “dinizismo” alla galassia sfocata di etichette e “-ismi” serve a poco e spesso schematizza inutilmente una realtà più complessa e sfumata, ma di certo, Fernando Diniz ha costruito la squadra più interessante, libera e spettacolare del Sudamerica.