Il calcio è politica, è stato un fatto nobiliare e poi un fatto del popolo, è stato borghese e poi è diventato rivoluzionario, è stato osteggiato, usato, inevitabilmente amato, è stato un simbolo e anche un tradimento, è stato fratellanza ed è stato dimostrazione di dominio. Il calcio è questo, e non solo questo, un po’ ovunque, ma queste caratteristiche che vengono fuori da racconti orali, da foto sbiadite, da palloni che rotolano nella neve su cambi improbabili, da uomini in divisa militare e da altri che indossano ipotesi di divise calcistiche, da attaccanti sconosciuti ma straordinari morti nell’anno della Rivoluzione d’Ottobre, dal pallone usato come antidoto alla diffusione dell’alcolismo e come strumento primario della propagazione del senso di appartenenza a una nazione, parlano di questo sport in Unione Sovietica, delle storie che lo accompagnano, grazie a un libro bello e straordinario L’arte del calcio sovietico (Il Saggiatore, 2023, traduzione di Simone Cattaneo) scritto dal saggista spagnolo Carles Viñas.
Diciamo subito che non si tratta di un libro di sport, certo Viñas scrive di calcio, ma anche di politica, di conflitto sociale, ne viene fuori una lettura ricca, piena di fascino, in cui il pallone proprio con la Rivoluzione di Ottobre, da quegli anni, diventa uno strumento socialista che si sottrae dall’essere solo uno svago per gli aristocratici o gli inglesi che erano immigrati sotto l’impero degli zar. Il calcio passa dall’essere un sinonimo di caccia alla volpe a sport di massa – della classe operaia – e quindi biglietto da visita per raccontare al mondo la forza della nazione nuova, l’impero sovietico.
In questo libro – per ragioni diverse da quelle che leggiamo nelle pagine meravigliose di Galeano e di Soriano sul calcio sudamericano – rafforziamo la convinzione che il calcio sia soprattutto un fatto letterario, generatore di pagine che hanno la forza del romanzo, qui un romanzo russo, roba da Dostoevskij, da racconto, da Gogol’, da poesia, da Achmátova o da Brodskij. E non importa che Viñas scriva un saggio – è docente di Storia contemporanea all’Università di Barcellona – perché il passo del calcio, le storie che compaiono sulle pagine, pur utilizzate per spiegare in maniera scientifica i cambiamenti di un popolo così complesso, non possono sottrarsi all’incanto, alla magia, a undici uomini in maglia rossa che spingono una palla verso la porta, a centravanti dai nomi impronunciabili ma dai piedi incantati, da portieri che paravano tutto e che, per certi versi non hanno mai smesso.
C’è Lev Jasin e il suo trionfo con il pallone d’oro del 1960, ma prima c’è stato di tutto, squadre nascoste, squadre formate da ingegneri e operai come quella del Morozovci, la prima grande squadra, le grandi partite tra i portuali di San Pietroburgo, le tre squadre di Mosca: la Dinamo dello Stato, lo Spartak del popolo, il CSKA dell’esercito. Le prime due che si odiavano tra di loro e che insieme odiavano la terza. Il calcio usato per lo spionaggio, per l’internalizzazione dell’URSS, luogo di partite straordinarie ed eccessi, di dissidenti e militari, di berretti e maglie rosse, di stivali e scarpette bucate, di rovesciate mai viste e vita di fabbrica. Dalla nobiltà allo sport di massa, per le masse, per il loro controllo, un’altra arma per rappresentarsi tutti uguali.
Il poeta friulano Giovanni Fierro in una bellissima poesia scrive: «È il comunismo perfetto / tutti con la stessa maglia / ognuno è dell’altro il compagno / in campo si vede, distintamente / capisci immediatamente / chi ha talento paura furbizia / remora buona volontà o resistenza / chi gambe chi fiato / non c’è mai una menzogna / e che tutti e sempre / si giochi con le braghette corte / dice bene / che questo è un regime / che funziona / solo quando è giovane». La poesia di Fierro segue un binario politico e uno romantico, ma se l’applichiamo al calcio sovietico a quello che è stato, riusciamo a leggere bene quello che Carles Viñas ci racconta. Intanto che il pallone sovietico ha sì funzionato solo da giovane, come il comunismo, come le ideologie, ma è stato giovane tante volte, attraverso numerosi passaggi formali e informali, dispiegandosi su campi ufficiali e clandestini, è stato servo dello Stato per arrivare al popolo, ma poi è diventato del popolo che non lo ha lasciato e mai lo lascerà qualunque cosa accada. Il calcio è il comunismo perfetto, scrive Fierro, Viñas sarebbe d’accordo fino a un certo punto perché lo storico, a differenza del poeta, deve fare i conti con l’imperfezione che attraversa i suoi studi. Se si capisce subito chi ha talento e chi ha furbizia sul campo da pallone, si fa più fatica a scovare l’inganno del politico, dove, a differenza della poesia di Fierro, c’è sempre menzogna.
Tra i vari personaggi ritratti in queste pagine, oltre al già citato Ragno Nero Lev Jašin, ricordiamo il primo diventato idolo: «l’ala sinistra Vasilij Žitarev, acquistato nel 1911 dal Zamoskovoreckji klub sporta (Zks) di Mosca e proveniente dal Kružov […] che in Russia divenne una certa celebrità». Oppure Nikitin calciatore della squadra olimpica russa, sempre con le parole di Viñas (che qui assume un vero passo da Galeano): «Nato a San Pietroburgo, questo abile bomber, che giocava nello Sports della località in cui era nato, perse la vita nel 1917, l’anno in cui iniziò la Rivoluzione d’Ottobre». Leggendo le pagine di Viñas, e al suo modo di raccontare la politica e la società russa e poi sovietica attraverso il pallone, vengono in mente quella di Anne Carson quando in Economia dell’Imperduto (Utopia editore, 2020, trad. P. Ceccagnoli) usa Simonide e la sua poesia per spiegare l’arrivo della moneta, lo scambio al posto del dono e Karl Marx. Immaginiamo che a Viñas questa deduzione potrebbe far piacere.
L’arte del calcio sovietico è un saggio scientifico e romantico allo stesso modo, addirittura ci siamo commossi leggendo le pagine che parlano del calcio selvaggio (o fuorilegge), il calcio degli operai e dei poveri che prima della Rivoluzione erano esclusi dalle squadre e dalle competizioni ufficiali, che erano appannaggio dei nobili, ricchi o borghesi, e hanno dimostrato invece – ancora prima di saperlo – che il calcio era roba loro.