Come Simone Inzaghi e l’Inter hanno costruito una finale di Champions League

Il pass per Istanbul non è stato conquistato in modo casuale.

Durante e dopo Inter-Milan 1-0, ma anche durante e dopo la gara di andata, la sensazione era che Simone Inzaghi e la sua squadra avessero vissuto tutta una stagione nell’attesa di questo doppio confronto, in modo da arrivare in queste condizioni scintillanti – dal punto di vista fisico, tattico, emotivo – alla fase finale della Champions League. Ovviamente è solo una suggestione, ma in fondo il racconto del calcio si fa anche in questo modo, mescolando elementi del passato e del presente, sensazioni e numeri, materia e anti-materia. E poi, ripensandoci bene, l’Inter è una squadra che si presta perfettamente a questo tipo di narrazione: perché è una squadra/società che si autodefinisce pazzama soprattutto perché da inizio anno ha sempre avuto un andamento a dir poco altalenante, ha accumulato addirittura 11 sconfitte in campionato, la maggior parte contro avversari di qualità inferiore, ed è solo da qualche settimana che sta mostrando la sua vera forza. Il fatto che siano le settimane più importanti della stagione non è, non può essere, un caso.

Se torniamo con la mente all’estate scorsa, alla costruzione della rosa sul mercato, era come se ci fossero già delle avvisaglie: Marotta e i suoi uomini hanno consegnato a Inzaghi una sorta di instant-team con pochi elementi potenzialmente futuribili – Asllani, Bellanova, forse un po’ Onana – e tanti calciatori esperti, maturi, con trascorsi importanti in Italia e in Europa: per potenziare il tronco dei titolari, sono arrivati Lukaku (29 anni), Mkhitaryan (33) e Acerbi (34); lo stesso Onana (26) non è un ragazzino e aveva già assaggiato i grandi match internazionali, esattamente come De Vrij, Skriniar, Darmian, Bastoni, Barella, Dumfries, Brozovic, Gosens, Calhanoglu, Dzeko, Lautaro Martínez.

C’è anche un altro aspetto di cui tener conto: la cifra atletica di questi calciatori. Praticamente tutti quelli che abbiamo citato, i reduci della vecchia Inter come i nuovi arrivi, hanno grande prestanza e/o un dinamismo molto accentuato. Forse solo Brozovic non è all’altezza dei suoi compagni da questo punto di vista, e infatti – non a caso, ecco – l’assetto definitivo trovato da Inzaghi per questo finale di stagione lo vede partire dalla panchina, almeno inizialmente. A un certo punto, dunque, è come se Inzaghi avesse smesso di fare compromessi: ha votato la sua Inter a un gioco estremamente fisico ma non in senso di durezza, l’ha trasformata in una sorta di orda non barbarica in grado di travolgere – è un verbo che spesso si usa a sproposito, ma descrive perfettamente quello che è successo nei primi minuti dell’euroderby d’andata – chiunque per alcuni segmenti della partita, per poi gestire con maturità la palla, i ritmi, il ritorno degli avversari. Tutto questo, però, non vuol dire che l’Inter sia diventata una squadra essenziale, elementare: i nerazzurri vanno sì a strappi, ma questi strappi si sostanziano in azioni sofisticate, in cui il pallone viaggia velocemente e in verticale, e allora è difficile contenere giocatori alti e forti, rapidi ed esplosivi.

Come tutti gli instant-team, poi, anche l’Inter 2022/23 si è accesa ed è stata anche aiutata da un pizzico di fortuna. Che si è materializzata al momento dei sorteggi: dopo un girone oggettivamente molto complicato, la squadra di Inzaghi ha affrontato due avversarie di qualità non eccelsa come Porto e Benfica e poi un Milan in condizioni – tattiche, fisiche, psicologiche – non esaltanti. E non solo per l’infortunio di Leão. Questo, però, non deve ridimensionare i meriti di Inzaghi e dei suoi uomini: le tre vittorie nei tre doppi confronti sono state raggiunte con tranquillità, la qualificazione al turno successivo è parsa realmente in pericolo solo negli ultimissimi minuti della gara giocata a Porto, il resto delle altre partite è stato affrontato con autorità e consapevolezza. Insomma, con il piglio della grande squadra.

Per dirla con una frase fatta, ma in questo caso profondamente vera: tutto si è incastrato alla perfezione. Anche con la personalità e con i metodi di lavoro di Simone Inzaghi, un allenatore di coppa – cioè un tecnico perfetto nel preparare le partite secche contro avversari di pari livello, o anche superiori – che nelle gare di Serie A ha storicamente accusato problemi di ripetitività e quindi di prevedibilità a lungo termine. Questi difetti si azzerano fatalmente nelle gare infrasettimanali, e quest’anno ancor di più: anche la preparazione fisica e la lotteria degli infortuni hanno permesso all’Inter di prendersi la scena quando è primavera inoltrata, dopo aver “mollato” il campionato e aver fatto all-in sulle coppe. È stato un azzardo controllato, ragionato, è come se l’Inter avesse costruito questo suo percorso con tutte le scelte che ha fatto, anche quelle più controverse, e alla fine sembra aver avuto ragione. Per certificarlo manca l’ultimo passo, quello più esaltante e più difficile. Ma proprio questa dimensione di squadra outsider-ma-non-troppo, potenzialmente in grado di sporcare la partita a chiunque, persino al Real Madrid e/o al Manchester City, dovrà essere valutata con attenzione. Da tutti: da Ancelotti o da Guardiola, dal mondo intero che guarderà la finale di Istanbul. Una finale a cui l’Inter non è arrivata per caso.