Beppe Marotta non passa mai di moda

Vita, calciomercato e passione politica di un dirigente che sta nel giro da quarant'anni. E che ha conquistato la terza finale di Champions della carriera.

Giuseppe Marotta. Anzi, cavalier Giuseppe Marotta. Ne ha vinti di titoli, eppure siamo certi che quello di cui va più orgoglioso lo ha ricevuto lo scorso dicembre: Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica italiana. Classe 1957, di Varese, noto soprattutto come dirigente sportivo, Marotta è uno dallo sguardo lungo. Che ha la passione del calcio ma ha sempre osservato la politica. L’ha frequentata sin da ragazzino. A scuola con lui c’erano Roberto Maroni – il leader leghista recentemente scomparso – e anche il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana. Giocavano nella stessa squadra. Lui si considera una riserva della Repubblica, la sua ambizione è essere chiamato al servizio del Paese. Lo ha confessato in una recente intervista al Corriere della Sera: «Se mi hanno mai chiesto di entrare in politica? Sì me lo hanno chiesto. E siccome nella vita bisogna sempre avere un sogno nel cassetto, il mio è quello di entrare in politica da tecnico, senza tessera di partito, per offrire il mio apporto in termini di competenza ed esperienza». Tanto peer essere chiari, lui il ministro dello Sport da tecnico lo farebbe subito. Di corsa.

Del resto non può che essere questa l’ambizione di un signore che da oltre vent’anni, cioè quando ancora dirigeva la Sampdoria, veniva definito il Kissinger del calcio. Per i più giovani, Henry Kissinger era il Segretario di Stato degli Stati Uniti, l’uomo che fece incontrare per la prima volta America e Cina. Un Kissinger con il pallone nelle vene. Che all’età di otto anni andò dal custode dello stadio del Varese e gli chiese il permesso di assistere agli allenamenti. Raggiunsero un accordo: gli disse di sé, lui in cambio lo avrebbe aiutato nelle faccende quotidiane di campo e di spogliatoio. Quel giorno entrò nel calcio e non ne uscì più. La passione. E anche quell’innato fiuto, che alcuni si ostinano a chiamare fortuna, che lo porta a trovarsi al posto giusto al momento giusto. Come quando il Varese sconfisse 5-0 la Juventus con tripletta di Anastasi. Era il 1968. Lui faceva il raccattapalle.

Beppe Marotta oggi è il dirigente italiano che ha raggiunto tre finali di Champions in otto anni. Due con la Juventus e una con l’Inter. L’uomo che Andrea Agnelli nel 2010 volle a Torino per rifondare i bianconeri e cominciare un ciclo vincente. Il Kissinger del calcio era stato otto anni alla Sampdoria, e l’aveva lasciata al quarto posto, nei preliminari di Champions. Lui andò via e i blucerchiati finirono in Serie B dopo aver perduto la possibilità di giocare la Coppa nel recupero del match col Werder Brema. Alla Juventus è rimasto altri otto anni. Fino all’ottobre del 2018. Ha vinto tutti i campionati, tranne il primo. Sette scudetti consecutivi con due allenatori diversi: prima Conte e poi Allegri. Andò via pochi mesi dopo l’acquisto di Cristiano Ronaldo. Lui ha sempre negato che ci fosse un collegamento tra i due eventi. Anche con dichiarazioni ufficiali. E forse è vero, in quegli anni ci fu anche il filone biglietti dell’inchiesta ‘ndrangheta che scosse il club bianconero. Ma è ormai considerato un assioma che la rottura sia avvenuta sull’acquisto del portoghese. I soliti beninformati, successivamente diventati voce di popolo (quindi voce di Dio), assicurano la sua contrarietà all’operazione. Ammonì sui pericoli dell’affare che era in netta controtendenza rispetto a quella che fino a quel momento era stata una oculata e invidiata gestione societaria. Vincente e con i conti in ordine. Il miraggio della Champions finì col diventare come la Campagna di Russia di Napoleone.

È andata proprio come pensava – si dice – Marotta. Lasciò una Juve che sembrava scoppiare di salute, col fuoriclasse portoghese che imperversava. È finita come sappiamo. Tra plusvalenze, processi, richieste di penalizzazione, dirigenti inibiti. Non ha mai detto una parola su tutto questo. Poche settimane fa, su Twitter, il rimpianto ha assunto le sembianze di un cinguettio di Lapo Elkann (in un italiano traballante che noi rimettiamo in sesto): «La Juventus dopo l’uscita di Marotta ha perso tanto, a mio parere ci vogliono, oltre chi c’è oggi, figure forti e capaci del mondo del calcio che è un mondo tutto suo. Sennò è impensabile riportare la Juventus ai più alti livelli, questo per me è un dato di fatto». In fondo è il pensiero di larga parte dell’universo bianconero. Anche se non mancano quelli che gli rinfacciano Anelka e Bendtner, oppure El Malaka Martînez ed Eljero Elia, la figuraccia di Witsel che non arrivò nella giornata finale di un calciomercato da film, o ancora la cessione di Coman. Ma sono fisiologiche correnti di estrema minoranza. Per dovere di cronaca va aggiunta anche la scelta di Delneri come primo allenatore della Juventus di Agnelli. Ma quello è un classico di Marotta: alla Sampdoria portò Novellino con cui aveva lavorato a Venezia. E all’Inter fu fondamentale per l’arrivo di Antonio Conte, con cui visse gomito a gomito alla Juve per tre anni.

Perché Marotta sarà pure un Kissinger, e lo è, ma di calcio se ne intende. Di colpi ne ha messi a segno talmente tanti che non ce n’è uno solo uno che simboleggia la sua abilità. Ce ne sono tanti. Basterebbe Andrea Pirlo a parametro zero dal Milan, fu l’architrave della prima Juve di Conte. O ancora l’altro campione del mondo Andrea Barzagli, andato a recuperare a prezzo di discount al Wolfsburg. Senza dimenticare Vidal, Tevez e soprattutto Pogba strappato al Manchester United di Ferguson grazie a un’operazione condotta in tandem con Mino Raiola. Come i veri potenti, Marotta ha attribuito i meriti di quell’operazione a Fabio Paratici, da sempre considerato suo figlioccio. Addentrarsi nel passato rende l’idea. C’era lui al Venezia quando in Laguna sbarcò Recoba, che giocò probabilmente la sua stagione più bella e continua in Italia. E anche in questo caso è l’understatement a farla da padrone. «Recoba? Fu un colpo di fortuna. Stavo andando a prendere Giunti, mi dissero che si stava accordando con Galliani per andare al Milan. E così mi informai su Recoba». A Ravenna portò un giovane sconosciuto di nome Christian e di cognome Vieri. Alla Sampdoria riuscì a recuperare al calcio Antonio Cassano: andò a prenderlo a Madrid dove di Fantantonio ricordano soltanto improbabili cappotti di pelliccia e imitazioni di Capello. A Genova, Cassano tornò Cassano.

In Italia sarebbe un politico della Prima Repubblica. Un democristiano di lungo corso. È sempre meglio una parola in meno che una parola in più. Un principio cui raramente ha derogato. Una volta gli scappò la frizione dopo uno Juventus-Genoa. Attaccò l’arbitro Guida di Torre Annunziata provincia di Napoli. Reo, a suo dire, di avere negato un rigore ai bianconeri all’ultimo minuto. «Non parlo di malafede ma di difficoltà. Al 94esimo un arbitro della provincia di Napoli si è trovato in difficoltà… Così come è consigliabile che un arbitro di Novara non arbitri la Juventus, così una arbitro napoletano non deve venire ad arbitrare la Juventus». Classica frase da dirigente calcistico nel post-partita. Di scivolate così, di simili frasi modello bar-sport, a memoria, non ne abbiamo ascoltate tante. Recentemente, ha reagito col silenzio alla sfuriata di Allegri negli spogliatoi del Meazza al termine di Inter-Juventus. «Siete delle merde, ma tanto arrivate sesti», le parole del livornese riportate dai media. Poi negli spogliatoi avrebbe detto ai suoi: «Dobbiamo arrivare davanti a loro in campionato, non dobbiamo mandarli in Champions». Non è andata proprio così.

Dopo le prime esperienze nel Varese, nel Monza, nel Como e nel Ravenna, Marotta ha lavorato per il Venezia (ai tempi di Zamparini presidente) e per l’Atalanta. Poi otto anni alla Sampdoria, dal 2002 al 2010, prima di passare alla Juventus. È all’Inter dal 2019 (Filippo Monteforte/AFP via Getty Images)

Sì, una volta la Procura della Repubblica di Torino lo ha intercettato in una conversazione con un giornalista della Gazzetta. Chiese e ottenne il ridimensionamento di un articolo. Sono questioni di potere e anche di rapporti. Per dirla alla De Gregori, è da questi particolari che si giudica un dirigente. O un politico. Quando portò Vidal alla Juventus (dal Leverkusen), non si tirò indietro nella scaramuccia a distanza con Rummenigge: «Abbiamo operato secondo i regolari canali di mercato che prevedono l’accordo sia con la società, in questo caso il Bayer Leverkusen, sia con il calciatore. A quanto pare di intendere, Rummenigge si era affidato a canali meno ortodossi, me ne rammarico con lui e con il Bayern. Hanno perso una bella occasione sia sul mercato sia di comunicazione: il silenzio sarebbe stato infatti preferibile».

Nel 2018 un altro cambio di direzione nella sua carriera. L’Inter sceglie Marotta per tornare a vincere. L’inizio, come spesso gli capita, non è dei più semplici. Si ritrova a gestire il caso Icardi, e lo risolve. Poi traccia la strada per la vittoria. Torna a lavorare con Antonio Conte. Lo scudetto dell’Inter è molto diverso da quelli della Juventus. Non è uno scudetto sostenibile. Tutt’altro. I conti traballano. Il Covid si fa sentire. Anche personalmente. «Sì, ho avuto paura, perché non si conosceva l’evoluzione della malattia. Per qualche giorno ho indossato il casco, sono stati momenti difficili». Più difficili dell’addio di Conte, che dopo il titolo lo abbandona un’altra volta. Si ritrova nel bel mezzo della tempesta. Vende Lukaku e Hakimi. Ingaggia Simone Inzaghi. Non agisce d’impulso dopo uno scudetto buttato come quello dello scorso anno. Altrimenti non sarebbe considerato un diplomatico. Mantiene lo sguardo lungo, il passo di chi è geneticamente distante dal “tutto e subito”. E oggi si ritrova in finale di Champions. Dal Triplete interista del 2010, per tre volte le italiane sono arrivate a giocarsi la coppa più prestigiosa e tutte e tre volte c’è stato Beppe Marotta. Il cavalier Beppe Marotta. Che sogna una chiamata del Paese per dimostrare quanto davvero abbia imparato da Henry Kissinger.