Gli Oscar del trash talking in Serie A

Vlahovic-Henderson, Ibrahimovic, Cirillo e Materazzi: compilation dei peggio tamarri del nostro campionato.

Una buona preparazione prima della partita, se non essenziale, è comunque utile: Liam Henderson, quando al minuto 95′ di un Empoli-Juventus, sul risultato di 4-1, ricorda a Dusan Vlahovic il prezzo dell’attaccante serbo, 80 milioni, 80 milioni, dimostra di aver studiato. La somma è quella, l’attaccante bianconero potrebbe al limite rispondere che si tratta, a leggere i documenti ufficiali, di 70 milioni più 10 di bonus «legati al raggiungimento di crescenti obiettivi sportivi», e chissà che non l’abbia fatto notare, mentre si portava la mano alla bocca, vista la sua abitudine a usare la lingua: pochi mesi prima, contro la Fiorentina, aveva tormentato l’ex compagno Ranieri («Parli? È tutta la partita e parla proprio lui, stai muto. Tanto non la prendi»), tanto da meritarsi il richiamo di Biraghi («Dusan, non fare il fenomeno con me. Guardami in faccia»).

In Italia nessuno è mai arrivato ai livelli di Muhammad Alì, capace di pubblicare, negli ultimi mesi da Cassius Clay, un album musicale di trash talk, e nemmeno a quelli dei maestri sudamericani come Carlos Bilardo, in grado di utilizzare, secondo la leggenda, i suoi contatti in ambito medico per ricordare agli avversari le operazioni chirurgiche subite dai loro cari. Ma non sono mancati, anche in tempi recenti, esempi di studio e applicazione come quelli di Henderson. I mesi degli stadi vuoti a causa della pandemia, per esempio, hanno rivelato la varietà del repertorio di Zlatan Ibrahimovic: a gennaio 2021, sotto 0-3 con l’Atalanta e in attesa di una decisione del VAR, lo svedese risponde alla provocazione di Duvan Zapata («Non potete chiudere una partita senza rigori») con un fatto indiscutibilmente vero («Ma di cosa parli? Ho più gol io che partite tu in carriera»), considerato che gli incontri ufficiali del colombiano, all’epoca, ammontano a 371, mentre le reti del milanista a 498, circostanza dovuta in parte ai dieci anni di età che separano i due, ma in ogni caso statistica notevole da sguainare all’improvviso nel bel mezzo di una gara.

Passano pochi giorni e Ibrahimovic dimostra di essere un lettore attento della stampa inglese quando, in un derby, consiglia a Lukaku, apostrofato little donkey, di andare a fare la sua voodoo shit, le sue stronzate vudù: riferimento a poche righe di una storia vecchia di ormai tre anni, quando in un’assemblea degli azionisti dell’Everton, Farhad Moshiri aveva spiegato, confezionando una fake news dal retrogusto razzista, la mancata permanenza dell’attaccante belga con un pellegrinaggio della madre «in Africa o da qualche parte» e a un messaggio divino, legato alla religione vudù, che consigliava il passaggio al Chelsea. Parole che avevano fatto infuriare Lukaku, che si era visto costretto a ribadire la sua fede cattolica e a minacciare azioni legali, e che ora si vede riproporre, fuori contesto, in una serata invernale di Coppa Italia, tra un Vidal e un Meité, in un San Siro vuoto: la reazione è quella desiderata, con i canonici insulti a madre e moglie dell’avversario e addirittura una minaccia di fare ricorso ad armi da fuoco («Ti sparo in testa»), citazione involontaria di un memorabile Totò Schillaci in un Bologna-Juventus del 1990 («Ti faccio sparare in bocca», rivolto a Fabio Poli). Una storia che dà fastidio al belga, ma al tempo stesso ignota, con ogni probabilità, agli altri giocatori in campo e soprattutto all’arbitro, che per forza di cose nota di più la reazione della provocazione: che è, in sostanza, il senso e l’obiettivo finale del trash talking, come fa notare Paolo Condò su Repubblica all’indomani della gazzarra, additando la natura sleale a vigliacca dell’espediente.

Meno raffinato, più fondato sull’improvvisazione, l’approccio di Marco Materazzi, la cui capacità di usare la lingua, destinata al trionfo nel luglio 2006, entra prepotentemente nelle case degli italiani la sera del 1° febbraio 2004, quando al termine di Inter-Siena un Bruno Cirillo dal volto tumefatto appare davanti alle telecamere per denunciare non solo le botte, ma anche le parole che hanno scatenato reazione e contro reazione. Il difensore dell’Inter, infortunato, teoricamente non avrebbe nemmeno diritto di stare a bordo campo, ma è seduto a una decina di metri dalla panchina e nel secondo tempo, spalleggiato dall’addetto alla sicurezza dell’Inter Luca Fraquelli, è prodigo di consigli per il compagno Kily Gonzalez («Puntalo Cirillo, che è scarso, figurati se uno come quello lì può giocare in Serie A«) e per tutta la squadra («Puntate Cirillo, tanto è scarso. Dalla sua parte potete passare quanto volete»), oltre che di apprezzamenti rivolti direttamente all’interessato («Cirillo, sei scarso!»). Se la condanna, le scuse e la riconciliazione per l’episodio violento sono scontate, meno ovvie sono le considerazioni sull’esuberanza verbale: Materazzi non smentisce le parole attribuitegli («Se è vero che gli ho detto ‘scarso’? A me lo dicono tutti i giorni»), mentre D’Aversa, centrocampista del Siena, sembra particolarmente indignato e desideroso che tutti sappiano («Materazzi per tutta la gara ha gridato ai compagni di puntare Cirillo che è scarso e non è degno di giocare in serie A. Se queste cose dovessero restare nascoste vuol dire che c’è qualcosa che non va»).

«In campo ci si è presi un attimino in giro», dice Marco Materazzi

In realtà, la maggior parte delle parole al veleno tra calciatori finiscono di solito per perdersi: o per difficoltà di comunicazione, come nel caso Totti-Poulsen («Provocazioni fisiche o verbali? Fisiche, verbali non credo: io non capisco l’inglese», disse Totti), o perché giudicate irripetibili (Zago dopo il derby dello sputo: «Quello che diceva in campo Simeone non si può ripetere») o semplicemente per il senso comune che vuole far restare in campo ciò che accade in campo, come sostiene Antonio Conte al termine di una finale di Europa League in cui l’argentino Banega lo stuzzica, chiedendogli di chiarire se si tratti di una parrucca o meno.

Dove è più facile che gli scambi verbali vengano notati è in occasione del calcio di rigore: il portiere, per deformazione professionale, è portato a prepararsi sull’avversario di turno, sulle sue preferenze e i suoi errori dal dischetto, e ha quindi un arsenale di fatti da sciorinargli in faccia in un momento di particolare tensione, la cosa più simile a un duello individuale durante una partita. Nel novembre 2020, Marco Silvestri si dimostra un attento osservatore dell’Europa League: è passata poco più di una settimana da quando Ibrahimovic ha sbagliato un rigore contro lo Sparta Praga e il portiere del Verona è svelto nel ricordarglielo («L’ultimo lo hai sbagliato tirandolo a destra, lo so che ora calci a sinistra») e nel continuare a evocare l’errore mentre lo svedese si avvicina agli undici metri («l’ultimo l’hai tirato sbagliato, l’ultimo l’hai tirato sbagliato»), riuscendo nel suo intento, con il pallone che finisce alto sulla traversa e Ibra che incassa («Aveva ragione a dire che l’ultimo rigore lo avevo sbagliato»).

Non funziona sempre: penultima giornata di Serie A 2011-12, derby di Milano, Ibrahimovic si appresta a calciare un rigore quando Julio Cesar gli si avvicina, proclama «tu tirerai in mezzo perché ti conosco bene», fa la linguaccia e aggiunge «ti ho beccato pezzo di merda», vituperio che non scalfisce il tiratore, che infila alla destra del portiere e gli ricambia, pur sempre in amicizia, la cortesia («Adesso vai a prenderti il pallone, pezzo di merda tu»). I due si conoscono bene e l’essere stati compagni di squadra aggiunge sempre qualcosa a queste situazioni.

Un bel rigore, alla fin fine

Lo sa bene Francesco Totti, che arriva alla sfida con la Reggina del 25 febbraio 2007 da capocannoniere della Serie A e in piena lotta per la Scarpa d’Oro: sul 2-0 per la Roma, a sette minuti dalla fine, la tensione non dovrebbe essere un fattore, ma i rigori non trasformati dal capitano in stagione sono già cinque e tra i pali c’è Andrea Campagnolo. Che, pur senza mai scendere in campo per un minuto, ha passato tre stagioni con i giallorossi ed è da poco titolare degli amaranto. Tutto inizia come uno scherzo tra vecchi amici: «Se mi dai due magliette non mi butto». Poi il portiere osa di più: «Tanto te lo paro, lo so dove me lo tiri, alla mia destra». E va esattamente così, con Campagnolo che si butta a destra, para in due tempi e dice qualcosa a Totti, facendogli perdere il controllo. Già in passato si è dimostrato permaloso con i portieri chiacchieroni, non onorando la promessa fatta sul dischetto, su richiesta di Sicignano («Se te lo paro, mi dai la tua maglia?») in occasione del famoso cucchiaio sbagliato con il Lecce, ma questa volta fatica a contenersi.

Prima dà del “pezzo di merda” all’avversario, allontanandone le mani stizzito, per poi litigare con altri giocatori («Non mi faccio prendere per il culo»), protestare con Alessandro Lucarelli per la fregatura subita («Mi ha preso in giro») e tornare a occuparsi di Campagnolo indicandogli gli spogliatoi («Ci vediamo fuori»). La questione non finisce lì: le telecamere riprendono il capitano della Roma intimare al portiere avversario di «non fare il furbetto», prima di un ulteriore scambio a fine partita. «Mi aveva detto che l’avrebbe parato, io non pensavo che si buttasse proprio lì, pensavo di fregarlo e invece mi ha fregato lui».

Campagnolo, insomma, ha colpito nel segno, shithousery (come dicono gli inglesi) ben fatta, ma la questione assume subito contorni più ampi per uno stuolo di commentatori. Per l’ex arbitro Paolo Casarin le «parole avvelenate» tra Totti e Campagnolo sono «uno spettacolo da calcio depresso», che ruba spazio alla bella vittoria della nazionale italiana di rugby sulla Scozia, mentre Carlo Mazzone invita Totti a sopportare botte e battute poco simpatiche del portiere, «pedaggio da pagare per la tua classe». Mentre nello spogliatoio della Roma si ride e si scherza sull’errore del capitano, Campgnolo, che pure vorrebbe spiegare e sdrammatizzare, viene costretto al silenzio dal suo club e alla fine deve porgere le scuse in un videomessaggio a Striscia La Notizia: «Ciao Francesco, mi dispiace per quello che è successo l’altro giorno, la voglia di pararti il rigore era tanta. Lo so che mi capisci, mi dispiace per quello che è successo, lo sai che ti stimo tantissimo come persona e come giocatore». Scuse accettate «Quando si sbaglia noi romani ce la prendiamo un po’». Non è un paese per trash-talker.