Amori e guai tra le squadre italiane e l’Europa League

La Roma proverà a interrompere un digiuno che dura da un quarto di secolo. Nel frattempo, però, i club di Serie A hanno vissuto tanti momenti assurdi, irripetibili, indimenticabili.

Un mese fa, su Twitter, un account non meglio precisato ha pubblicato una foto che gronda malinconia, nostalgia e tutti quegli ingannevoli stati d’animo che fanno la fortuna di decine di pagine social: quella della Coppa UEFA vinta dal Parma nel 1999, in finale contro il Marsiglia, che ora giacerebbe come portaombrelli nella reception di un’azienda di Firenze altrettanto imprecisata. Ovviamente è una bufala: dopo il fallimento del vecchio Parma nel 2015, la nuova società ha riacquistato le copie degli otto trofei vinti nell’era Tanzi (gli originali, com’è noto, appartengono all’UEFA). Oltretutto, è sufficiente un banale ingrandimento per leggere la targhetta “Galatasaray 1999-2000”, il che ci fa capire che è un trofeo successivo alle vittorie del Parma. Ma è bastato questo ballon d’essai per scatenare una micidiale macedonia di rimpianti e ricordi attorno a quel trofeo che davvero nei fatidici anni Novanta qualche spiritoso aveva degradato a “portaombrelli”, per sminuirne la portata nell’epoca in cui le squadre di Serie A la vincevano due volte su tre (non è un’esagerazione: otto vittorie italiane su undici dal 1989 al 1999). Poi, improvvisamente, il vuoto: solo una finale nelle ventitré edizioni successive, persa dall’Inter contro il Siviglia (ohibò) nel deserto fisico e sentimentale del calcio post-Covid.

Il crollo italiano di interesse e di prestazioni nel torneo che una volta i suoi estimatori – soprattutto i più invidiosi delle finali a ripetizione del Milan di Berlusconi – assicuravano fosse addirittura “più competitivo della Coppa dei Campioni” è curiosamente coinciso con la scomparsa della Coppa delle Coppe e soprattutto con l’allargamento della Champions a 32 squadre, a cui hanno preso a qualificarsi le prime quattro della Serie A: la presa d’atto che la Coppa UEFA adesso era davvero un torneo minore, relegato al giovedì sera, senza nemmeno un inno solenne come quello ispirato a Georg Friedrich Haendel, via via svilito da formule sempre più estemporanee e bislacche come i gironi a cinque squadre che tennero banco dal 2004 al 2009.

Questo, almeno, era il nostro punto di vista: in Spagna erano ben felici di farne manbassa, a Est tante squadre – dallo Shakhtar al CSKA Mosca passando per lo Zenit San Pietroburgo – l’hanno inteso come la porta d’accesso al piano superiore. L’Italia invece s’è specializzata in una serie di disavventure regolari ma sempre diverse, divenute a loro modo affascinanti per i cultori del grottesco che nelle sue mille forme si è stretto attorno a eccellenze come Carlo Ancelotti, Antonio Conte, Fabio Capello, Luciano Spalletti, Roberto Mancini, Simone Inzaghi, Stefano Pioli, Luis Enrique, and counting. Tutti loro hanno un Black Thursday nemmeno troppo segreto che gli imperla la fronte, un’avventura alla periferia di nessun centro, da Tromsø a Vila do Conde.

Le imboscate

Lucio Fulci, Dario Argento, Lamberto Bava, Pupi Avati non hanno insegnato niente: contravvenendo alla tradizione dei maestri del nostro horror, l’Italia si è fatta fregare spesso e volentieri in posti e situazioni solo apparentemente tranquille, in cui il baratro si nascondeva dietro la tenda. Massimo esempio è Fulham-Juventus 4-1 del 2010, vero caposaldo del film de paura, come del resto gran parte di quella Juventus post-atomica sderenata a Craven Cottage dalla resistibile armata di Roy Hodgson: Chimenti, Zebina, Grygera, De Ceglie, Felipe Melo, un Cannavaro più lesso che bollito. Tornando indietro di dieci anni, nell’inganno della “comoda trasferta di gestione” c’era caduto anche un Ancelotti non ancora asso di Coppe, che naufragò al Balaídos di Vigo in una notte di tempesta in cui il Celta rimontò l’1-0 di Torino con un 4-0 in cui il popolo bianconero iniziò a familiarizzare con le défaillance di Edwin van der Sar, simili alle schermate blu dei vecchi Pentium.

Grande habitué delle rimonte (subite) impossibili, non s’è fatto mancare nulla nemmeno il Milan, che nel 2018 sbarcò al Pireo potendo persino perdere con un gol di scarto e fu turlupinato da un Olympiakos modestissimo che per incartare il malconcio Diavolo e vincere 3-1 non esitò a ricorrere a mezzucci da commedia plautina, nel disdoro del ds Leonardo – certamente non un buon perdente – che nel post-partita se la prese con l’inquinamento acustico («non so se fosse una sirena, un flauto o un clacson») che dagli spalti aveva disturbato i suoi giocatori.

Cos’è più triste? Il ricordo di Gonzalo Higuaín al Milan e un’eliminazione ai gironi di Europa League contro l’Olympiacos?

Gli attori non protagonisti

L’Europa League e prima ancora la Coppa UEFA sono state un catalogo di facce da schiaffi che nemmeno nei book delle peggiori agenzie casting del Quadraro. Vi basti sapere che a un certo punto (stagione 2012/13) il capocannoniere del torneo è stato il laziale Libor Kozak, i gomiti più appuntiti dell’Est Europa. La Roma giallorossa può rispondere con un caratterista che è diventato figura retorica: Valerio Verre, allora centrocampista della Primavera buttato in campo nel play-off 2011 contro lo Slovan Bratislava da Luis Enrique quasi per provocazione, che dopo la scellerata eliminazione fu eletto a capro espiatorio da un anonimo tifoso: «Ho pagato 26 euro pe’ vede’ Verre».

Il dolce oblio del recente scudetto avrà cancellato dai ricordi dei tifosi partenopei l’immagine sconcertante di Luigi Vitale che nel sottopassaggio di Anfield (2010) sputò su un poster con l’effigie di Steven Gerrard, che aveva appena segnato una tripletta al Napoli. Nella stessa edizione la malinconica Juventus di Delneri uscì dal girone con sei pareggi in sei partite, uno dei quali per 3-3 in casa contro il Lech Poznan, con inaudita tripletta del lettone Artjoms Rudnevs, sparito rapidamente dai radar per poi ritornarvi nel settembre 2015 quando – leggiamo da Wikipedia – «in seguito a un violento litigio con la moglie dovette ricorrere ad un ricovero in ospedale per farsi ricucire la lingua quasi staccata da un morso della coniuge». Ma forse la più significativa e ineffabile faccia da UEFA rimane Eric van der Leur, il cosiddetto “mister Roda” o addirittura “lo Schuster del Roda”, uno sventurato 36enne che fu mandato in campo al 120′ per tirare un rigore ad Abbiati, nel deserto dei Tartari di San Siro, 7mila paganti, ottavi di finale di Milan-Roda – e, ovviamente, calciò alto.

Noi lo abbiamo fatto partire al momento fatidico, ma ovviamente potete gustarvi tutto il video

L’inizio di una bella amicizia

A volte la Coppa UEFA ci è servita a familiarizzare con futuri giganti del pallone – naturalmente, a nostro discapito. Prendete José Mário dos Santos Mourinho Félix, nel 2003 poco più che quarantenne e già capace di far godere a distanza il popolo giallorosso come un avveniristico sex toy, piazzando il primo di tantissimi pullman sulla strada della Lazio di Roberto Mancini, eliminata in semifinale dopo uno 0-0 di granito all’Olimpico. Un anno dopo fu lo sconosciuto Didier Drogba, arrivato da pochi mesi a Marsiglia, a travolgere dal nulla l’Inter e annunciarsi con rumore al continente intero. Altre volte scoprimmo un coro che sarebbe diventato colonna sonora di un’intera estate: il po-po-po-popopopo, importato a Roma dalla curva Sud in trasferta a Bruges (2006), dove usavano da tre anni il riff dei White Stripes per festeggiare i gol.

Abbiamo assistito all’epifania di veri e propri mostri come l’alieno Edinson Cavani, quattro pallini su quattro al Dnipro (2012) e la dimostrazione di un’onnipotenza tecnica e atletica che abbiamo faticato a ritrovare negli attaccanti dell’ultimo decennio. Abbiamo preso atto della simpatica goffaggine di Simone Inzaghi, cinque anni dopo finalista di Champions, quando capitombolò sulla pista ghiacciata dell’Olimpico di Kiev per esultare a un gol di De Vrij (2018). E abbiamo intuito che uno dei soldati più fedeli della sua Inter 2022/23, Matteo Darmian da Legnano, con la sua espressione buona e fiera poteva essere anche uno da grandi notti: precisamente quella del 26 febbraio 2015, quando segnò il gol con cui il Torino diventò la prima squadra italiana a espugnare il San Mamés di Bilbao.

E anche Giuseppe Vives e Maxi López

I disastri idro-geologici

Il global warming sta facendo danni inenarrabili, quasi come l’incuria e la superficialità delle squadre italiane in Coppa UEFA. Prendete Walter Zenga, scellerato nocchiero della Sampdoria di capitan Ferrero che si presentò spavalda al play-off estivo contro il Vojvodina e ne uscì sconfitta 0-4. Prendete addirittura Antonio Conte, che per macinare punti e record in campionato non esitò a trascurare una semifinale di Europa League (2014) che prevedeva addirittura la finale allo Stadium – e difatti la sua Juventus non ci arrivò, eliminata dal Benfica dopo un estenuante 0-0 a Torino. La recente storia europea dell’Inter è segnata da due incredibili 0-2 per chi chiama da fuori Milano: segnatamente l’Hapoel Beer Sheva, che incenerì prima del previsto (2016) la carriera nerazzurra di Frank De Boer, e il piccolo Deportivo Alavéss che fece imbufalire un San Siro molto più ruspante di oggi, con pioggia di seggiolini a contestare i due gol di vantaggio dei baschi, uno dei quali segnato addirittura da Jordi Cruijff. Furono purtroppo tangibili i danni lasciati dal passaggio dei tifosi del Feyenoord (2015) sulla Barcaccia, la fontana del Bernini vandalizzata in Piazza di Spagna.

Ma l’indelebile cambio di segno dell’attenzione del nostro calcio verso la Coppa UEFA avvenne nell’aprile 2002, quando tutta Italia aveva già apparecchiato la finale-derby Milan-Inter, entrambe favorite in semifinale contro Borussia Dortmund e Feyenoord. Come no: tutte e due eliminate e invisibili, senza nemmeno la copertura televisiva che richiedeva una semifinale di coppa, perché le emittenti italiane non ritennero di dover sborsare quelle poche migliaia di euro per comprare diritti che ritenevano acquisiti. La disfatta del Milan (4-0) a Dortmund fu vista in diretta sulla ZDF solo da felici pochi (si fa per dire), che allibirono alla pronuncia teutonica di Marcio Amoroso.

Il difensore biondo del Milan, quello che probabilmente non riconoscete, è Martin Laursen

Le rondini che non fanno primavera

Le più profonde delusioni primaverili sono sempre state anticipate da autunnali imprese ubriacanti, ubriacanti e del tutto inutili. Su tutte il gol di testa di Marco Amelia, che da portiere del Livorno segnò il gol del pareggio in casa del Partizan Belgrado (2007), con Lucarelli e soci che si spinsero fino ai sedicesimi, per poi essere eliminati senza troppa gloria dall’Espanyol. Al secondo posto, l’impresa dell’Udinese (2012) che sbancò 3-2 Anfield, quando Giovanni Pasquale segnò la rete che lo rende tuttora l’ultimo nostro rappresentante ad aver fatto gol con una squadra italiana nel tempio del Liverpool. O ancora il Palermo che vince 1-0 ad Upton Park (2006), la Sampdoria che elimina l’imbattibile Siviglia (2008) con un gol di petto di Jonathan Bottinelli (chi???), Pasquale Marino che elimina Jurgen Klopp in un lunare primo turno Udinese-Borussia Dortmund (2008), l’Atalanta Meccanica di Gasperini che tira cinque schiaffoni a domicilio all’Everton (2017), prima e ultima squadra italiana a segnare una manita in Inghilterra. Circostanze anche eroiche, come i sette minuti in cui Francisco Javier Farinós si ritrovò portiere di un’Inter asserragliata nella propria area piccola al Mestalla di Valencia (2002), a protezione dell’impresa.

Anche se la notte più assurda e squisitamente inutile rimarrà per sempre, nei secoli dei secoli, lo stillicidio di Vila do Conde, quando Milan e Rio Ave si affrontarono per 130 minuti e ventiquattro rigori, e solo per strappare una qualificazione alla fase a gironi di Europa League 2020-21. I poveri portoghesi, sconfitti e scornati, beffati a un certo punto addirittura da un doppio palo, non superarono mai la delusione e a fine stagione retrocessero in Segunda Liga. Nemmeno il Milan fece molta strada in Europa, ma in qualche anfratto dello spogliatoio Pioli conserva ancora la foto ricordo di quella notte memorabile.

Avete venti minuti di tempo? Perché no?

I soliti ignoti

E infine un classico dell’Italietta al suo meglio e al suo peggio: la lamentela arbitrale, la dolce sensazione di essere vittime di un complotto pluto-massonico naturalmente ordito dall’UEFA, e chi se no!, sia essa presieduta da Johansson, da Ceferin o da Platini. Tante giacchette tutte intercambiabili, tanti sicari come da provinciale retorica delle nostre gazzette, a cominciare dall’arbitro Garcia Aranda che impedì una grande rimonta romanista a Liverpool (2001), nell’anno dello scudetto. Per par condicio va citata anche la Lazio, derubata dallo scozzese Collum a Istanbul nell’inferno del Sükrü Saracoglu, l’antro del Fenerbahce (2013). Per tacere dell’impresentabile Milan cinese, defraudato all’Emirates Stadium per via di un contatto ai limiti del paranormale tra Welbeck e Ricardo Rodriguez, prima che un clamoroso paperone di Donnarumma facesse calare la serranda sulla qualificazione (2018).

Il morale della favola lo dedusse come sempre Aurelio De Laurentiis che dopo Napoli-Dnipro 2015, semifinale d’andata finita con un deludente 1-1 anche per via delle sviste della squadra arbitrale guidata dal norvegese Moen, proruppe in sala stampa in questo formidabile flusso di coscienza. «Questo torneo non vale nulla. Noi lo facciamo solo perché è una assicurazione per arrivare in Champions. C’è un monarca come Platini non in grado di tenere alto di questa competizione. Fa figuracce, ora che deve pensare nella sua cameretta buia di Nyon? Che forse ha fatto il suo tempo e che deve andarsene. Sembrava un teatrino delle marionette, il Dnipro ha avuto a favore sei arbitri. Che devo pensare? Che è stata combinata? La coppa è già stata data al Siviglia? Ce lo dicano, noi ci facciamo da parte. Platini, perché vuoi avere l’antipatia dei tifosi napoletani, che sono sei milioni in Italia e tantissimi all’estero? Come andrai a dormire? Fai una preghiera! Ma che credibilità puoi avere? Ciao Platini, sogni d’oro». E così sia.

Cambia il vento ma noi no