Contro il Siviglia si è inceppato il Mourinhismo

La Roma ha rinunciato troppo a giocare – Dybala a parte – e la strategia della tensione non ha pagato. Si poteva fare di più?

José Mourinho non fa compromessi, non ne ha mai fatti: per lui il calcio è uno sport che si fa e si vive a partire dall’emotività, è un gioco fatto di scontri fisici, provocazioni, litigi, tensione costante. Per lui ciò che succede tra gli uomini, e tra questi uomini non ci sono solo i giocatori, è importante quanto quello che succede tra i calciatori e la palla. Forse di più, dicono i maligni: chi non apprezza più Mourinho – insieme a chi non lo ha mai apprezzato – sostiene che l’allenatore della Roma sia tatticamente superato, che in ogni caso le sue idee non sarebbero più adatte a gestire un grande club. D’altra parte, però, i risultati (europei) raggiunti con la squadra giallorossa dimostrano che questo tipo di calcio può essere ancora valido, ancora efficace. È chiaro che la sconfitta di Budapest abbia cambiato la percezione del biennio romanista di Mou, ma due finali europee raggiunte in due stagioni restano. Sono un fatto. E vanno ascritte al lavoro – mentale e anche tattico, è inevitabile – dell’allenatore portoghese.

Il problema, però, è che questo modo di vedere il calcio ha anche dei punti oscuri. Lo si capisce bene all’indomani di una sconfitta così dolorosa, anche perché arrivata praticamente sul traguardo: a ogni finale persa, il multiverso degli sconfitti si chiede sempre cosa si sarebbe potuto fare di più? Nel caso della Roma di Mourinho, questa stessa domanda diventa più diretta, più specifica, più tagliente: le poche energie rimaste ora che siamo a fine stagione, quelle che a Budapest sono state spese per litigare, per rallentare il gioco, per spezzettare e incattivire la partita, potevano essere impiegate meglio? Si doveva fare qualcosa di più a livello tecnico-tattico, magari lavorare su soluzioni offensive che andassero oltre la creatività e l’intelligenza di Paulo Dybala? Il gioco di una squadra che raggiunge la finale di Europa League può essere così elementare, così strettamente legato alla pura e semplice emotività?

Tutti questi dubbi diventano più ingombranti quando si leggono i dati della partita: sui 146 minuti complessivi scanditi dai cronometri ufficiali, solo 70 sono stati di gioco effettivo; l’arbitro ha fischiato 40 falli e ha estratto per 14 volte il cartellino giallo, record assoluto nella storia delle finali europee; se guardiamo alla Roma, scopriamo che la squadra di Mourinho ha tenuto pochissimo il pallone (36%) e ha imbastito molte azioni d’attacco in meno (41) rispetto al Siviglia (75). La prima conseguenza di tutto questo è che, dopo il gol di Dybala, la Roma ha costruito solo due occasioni da gol degne di questa definizione: quella fallita da Belotti e il colpo di testa di Smalling finito sulla traversa. La seconda conseguenza è che Roma-Siviglia rimarrà nella memoria collettiva per le battaglie verbali e fisiche che si sono consumate dentro il campo e a bordo campo, per le ammonizioni che Taylor ha comminato alle panchine di entrambe le squadre, per le continue perdite di tempo tattiche, le proteste, gli infortuni strategici, per Mourinho che tira Ibañez per un braccio e lo porta dall’arbitro per mostrargli una ferita al labbro, per Mourinho che litiga con Jordán e poi lo abbraccia e lo bacia in modo plateale, per Mourinho che lancia la medaglia d’argento a un ragazzino sugli spalti, per Mourinho che va in conferenza stampa a lamentarsi della direzione di gara, per Mourinho che insegue l’arbitro Taylor nel parcheggio dello stadio e gli dice delle cose non proprio carine, mettiamola così, e tutto questo viene ripreso con uno smartphone e finisce sui social – si tratta di una cosa sgradevole da qualsiasi punto di vista, al netto di un eventuale rigore non fischiato alla Roma, di un’ammonizione che manca, di un recupero troppo poco consistente.

Nello sport la teatralità può essere un’arma potente, ma è chiaro che José Mourinho ne faccia abuso. L’eventualità che il suo approccio non possa funzionare non è minimamente contemplata. Ed è per questo che, a pensarci bene, non ha molto senso discutere sul fatto che la Roma arrivata a Budapest – una Roma che effettivamente si teneva insieme con le garze e i cerotti – abbia dato il massimo, potesse fare ed essere qualcosa di più: anche una squadra al completo e in condizione, con Dybala e Wijnaldum e Spinazzola e Smalling al 100% per più di 60 minuti, avrebbe avuto gli stessi atteggiamenti, si sarebbe comportata allo stesso modo. Probabilmente avrebbe giocato meglio in fase offensiva, ma José Mourinho lo conosciamo: non fa compromessi, non ne ha mai fatti, in ogni caso avrebbe combattuto le sue guerre verbali e non verbali contro l’arbitro e la panchina avversaria, in ogni caso avrebbe preparato i suoi giocatori a fare altrettanto, in ogni caso avrebbe cercato di controllare la partita, di non rischiare nulla e poi si sarebbe chiuso ancor più in difesa dopo un eventuale gol del vantaggio. Se lui e la Roma avessero conquistato l’Europa League in questo modo, saremmo qui a lodare il vincitore seriale pragmatico e inossidabile, ad applaudire i trionfi europei ottenuti tutti di misura e comunque senza subire gol, la sua capacità di vincere le battaglie emotive e di infognare qualsiasi avversario in qualunque partita. Solo che Mourinho e la sua Roma hanno perso, perché il Siviglia non si è tirato indietro dalla lotta e ha anche giocato meglio. E allora l’essenza della squadra e quella del tecnico vanno messe in discussione, esattamente come i loro comportamenti. Essere un allenatore che vive di emotività e risultati comporta questo rischio, e Mourinho lo corre da sempre. Stavolta gli è andata male.