Calhanoglu, il cattivo

Da quando ha lasciato il Milan per l'Inter, diventando un villain calcistico, ha cominciato a mostrare la miglior versione di sé.

Se c’è una cosa che abbiamo imparato con la nuova serialità televisiva, diciamo da Breaking Bad in poi, è che gli eroi-solo-eroi non esistono. Così come non esistono i cattivi-solo-cattivi. Siamo tutti un fascio di motivazioni diverse e contraddittorie. Puoi spacciare metanfetamina per garantire una sicurezza economica alla famiglia e allo stesso tempo nutrire la tua ambizione sfrenata di successo? Eccome. Anzi, a volte trasformarsi nella propria versione peggiore può essere l’unico modo per diventare davvero se stessi. Come Walter White, fino a qualche anno fa pensavamo che Hakan Calhanoglu fosse un uomo tutto sommato semplice, e in quanto tale limitato. Aveva un imprinting molto preciso, quello del Bayer Leverkusen di Roger Schmidt, fatto di gegenpressing e tensione verticale. Questa impostazione sembrava averlo portato a essere un trequartista essenziale, pavlovianamente votato all’intensità: alzava il ritmo in maniera quasi ossessiva e non appena poteva cercava la verticalità. Non a caso le sue statistiche sui lanci lunghi erano gonfiate all’inverosimile. Ma la parte migliore del suo repertorio era il modo di calciare. I suoi tiri, sia da fermo che in corsa, sibilavano verso la porta come droni militari agganciati all’obiettivo.

Per contro, le letture erano poco sofisticate e la sua tecnica sembrava inadeguata quando i ritmi si abbassavano e gli spazi si facevano stretti. Per questa ragione, arrivato al Milan, la sua crescita pareva finita, per non dire involuta. Nemmeno la parentesi positiva con Pioli ci aveva davvero convinto che potesse diventare un giocatore diverso, più complesso e determinante. Il momento Breaking Bad arriva il 22 giugno 2021. Calhanoglu lascia scadere il suo contratto col Milan e passa dall’altro lato del naviglio a titolo gratuito. Lo fa dopo aver baciato la maglia rossonera contro il Chievo, dopo tutte quelle gite in moto con Ibrahimovic. Ma soprattutto dichiarando: «L’Inter è una bella squadra che ha vinto l’ultimo scudetto e più derby durante la mia esperienza rossonera. Ho scelto di venire qui perché nella mia carriera mi piace affrontare nuove sfide». E poi: «All’Inter abbiamo giocatori migliori rispetto al Milan». Come prevedibile, i suoi ex tifosi non la prendono benissimo. Così come non prendono benissimo nemmeno il suo post su Instagram prima del derby del 7 novembre, dove si mostra con addosso i colori di Inter e Milan sullo sfondo di San Siro.

Fino a quel momento il rendimento in nerazzurro del turco è in linea col suo passato recente. Buone prestazioni, ma niente di eccezionale. Poi, all’11esimo minuto del suo primo derby con la nuova maglia, succede qualcosa. Calhanoglu corre per esultare verso quella che fino a qualche mese prima era la sua curva. Ha appena segnato un rigore che si è procurato e che ha voluto calciare anche se non sarebbe toccato a lui. Il suo volto è pallido, sconvolto. Sembra deformato da un’angoscia senza nome. A rivederlo oggi c’è qualcosa che non torna, perché giustamente si è parlato tanto del lato gratuito e provocatorio di quella esultanza – le mani alle orecchie, I M Hakan I M Inter e tutto il resto. Ma quello viene dopo. Prima c’è dell’altro. Il turco appare stravolto, come se avesse commesso il più terribile dei delitti.

Non ci credete? Andate a rivederlo

Tra i sultani dell’Impero Ottomano uccidere parenti stretti era un’usanza così consolidata da essere sancita per legge. Vuoi regnare in pace e a lungo? Va’ e strangola tuo fratello con un fazzoletto di seta, recitava più o meno il Qanun musulmano sotto la voce “fratricidio”. Non esisteva la successione per primogenitura, pertanto la cosa migliore, una volta salito al trono, era sbarazzarsi personalmente della concorrenza. Calhanoglu ha quello sguardo lì, di chi ha appena ucciso il suo compagno di culla. Ha segnato un rigore contro la sua ex squadra, dopo essere passato dalla parte dei cugini campioni in carica. È circondato dai compagni e da uno stadio intero che urla per e contro di lui, eppure ha lo sguardo vuoto, la sua corsa è di una solitudine insostenibile. Infatti Dzeko gli sbraita nelle orecchie per scuoterlo e gli dà uno spintone che si somma tragicomicamente al suo tuffo in scivolata, facendolo rovinare a terra. Lui si rialza, abbozza un sorriso tirato, poi si incupisce di nuovo. Infine mette le mani dietro le orecchie per amplificare l’odio dei tifosi avversari, i suoi ex tifosi. Questo è il momento che cambia Calhanoglu per sempre.

Dopo quel rigore arrivano cinque gol e cinque assist in sette partite. In versione villain, riesce finalmente a mostrarsi per quello che è, si toglie il peso di certe aspettative che in fondo non gli appartenevano: quelle che lo volevano trequartista puro, tecnico e leggero, il cui estro creativo avrebbe potuto e dovuto cambiare le partite in qualsiasi momento. Lo fa anche simbolicamente, passando dalla maglia numero 10 alla più prosaica 20. Nel sistema di gioco di Simone Inzaghi, in cui non esistono solisti ma tutti partecipano alla manovra alternando momenti di verticalità a fasi di palleggio più prolungato, diventa – in fondo lo è sempre stato – una mezzala dinamica con colpi da trequartista. Abbina quantità e qualità, tackle e missili da fuori, corsa e calci da fermo guidati col joystick. Cresciuta la consapevolezza, cresce anche la sua versatilità tattica. Quello che mostra di diverso è soprattutto una lettura degli spazi e una gestione del ritmo inedite. Rallenta quando c’è da rallentare, per poi cambiare improvvisamente gioco o trovare l’imbucata per il compagno. Anche nello stretto sembra molto più a suo agio. Chiude lo scorso campionato con un bottino di otto gol e 13 assist, il migliore di sempre.

Intanto il Milan, paradossalmente, vince lo scudetto. I cori contro di lui si sprecano, invocati persino dallo stesso Ibrahimovic. Calhanoglu soffre nell’ombra e cova vendetta. Ormai ha intuìto che l’astio lo migliora. Questo suo lato oscuro, da supercattivo monomaniaco nei confronti dei rossoneri, torna puntuale nella stagione successiva. Dopo la vittoria in Supercoppa del 18 gennaio contro il Milan, ricomincia a punzecchiare: «Li abbiamo mangiati. 3-0 e a casa». Altra shitstorm milanista, altro scatto verso il livello superiore del suo gioco. Perché da qualche settimana Inzaghi l’ha chiamato a sostituire l’infortunato Brozovic come regista, e lui, in questo ruolo apparentemente inedito, tira fuori alcune delle prestazioni migliori. Lo interpreta in maniera diversa rispetto al croato: garantisce meno movimento senza palla e meno sicurezza nel fraseggio, ma in compenso offre delle opportunità in più in transizione. La cara vecchia verticalità.

E in Champions League, dopo aver segnato contro il Barcellona uno dei gol decisivi per il passaggio del girone ed essere stato eletto altre due volte MVP (nello 0 a 0 contro il Porto è anche il giocatore che recupera più palloni), ha già in testa solo una cosa: «Derby col Milan ai quarti? Mi piacerebbe, sarebbe storico». Deve aspettare la semifinale, ma viene accontentato. Con due prestazioni sontuose (e un palo clamoroso che a distanza di un mese evoca ancora fantasmi) contribuisce a buttare fuori i cugini – proprio loro – e a staccare il biglietto per la finale di Istanbul. In campionato a livello collettivo le cose non vanno altrettanto bene, ma lui brilla comunque a tal punto da diventare Player of the season della serie A 2022/2023 secondo Sofascore. Cos’è cambiato, rispetto al giocatore semplice, quasi monodimensionale, di soli due anni fa? È lui stesso a dire: «I calciatori intelligenti si sanno adattare, e io credo di averlo fatto bene in un ruolo che comunque conoscevo già, perché in Nazionale gioco da mediano. Poi puoi essere alto o basso, ma in campo fai la differenza se hai il fuoco dentro. Devi essere cattivo nei duelli, intenso».

Avreste mai detto, due anni fa, che Calhanoglu sarebbe diventato un centrocampista così completo?

«All’inizio i tifosi dell’Inter avevano dubbi, come è normale che sia: sostituire un gran giocatore come Eriksen, poi è cambiata la musica. Per metà della città sono un idolo e per metà un nemico», dice in un’altra intervista. È come se questo tipo di attenzione, per quanto in parte negativa, lo avesse caricato portandolo alla sua forma più compiuta. In vari passaggi del suo libro con Richard Durham, Il più grande, Muhammad Ali torna più volte su questo aspetto psicologico: sembra che alcuni sportivi abbiano bisogno di farsi odiare per fare il salto di qualità. A un certo punto Ali dice: «Non era il mio primo incontro, ma stavolta la folla gridava il mio nome e gridava contro di me. Per me però l’importante era che fossero attenti. Prima dell’incontro, per la prima volta avevo apertamente dichiarato che avrei sconfitto il mio avversario, e si era diffusa la voce che “Cassius è uno spaccone”. Certo, avrebbero preferito vedermi perdere, ma su questo punto avevo qualcosa da dire anch’io. E poi in questa maniera battermi diventava per me sempre più affascinante». Calhanoglu, a quanto pare, lo ha capito.