Come Silvio Berlusconi ha trasformato il calcio in un reality show

I suoi vezzi, le sue stramberie e le sue esagerazioni hanno cambiato l'essenza di uno sport.

Se c’è una cosa che tutti – ma proprio tutti: discepoli, detrattori, eredi, figliocci, nemici – gli devono riconoscere, è che Silvio Berlusconi ha cambiato il senso delle cose. Fino a Berlusconi una cosa aveva un certo significato; da Berlusconi in poi molti concetti mutarono completamente verso, prendendo direzioni impreviste e imprevedibili, e la vastità dell’impero fece il resto, senza che lui nemmeno dovesse più impegnarsi in prima persona a dettare la linea. Come una volta era tutta campagna, allo stesso modo in cui un altro arci-italiano e arci-milanese come Adriano Celentano cantava che “là dove c’era l’erba ora c’è una città”, da una certa ora in avanti fu tutto Berlusconi, quel berlusconismo che oggi gli sopravvive e di cui è impregnato qualsiasi addentellato di Occidente, a cominciare dalla grande metafora della vita: il calcio.

Un esempio. Venerdì 18 luglio 1986 Berlusconi decide di “scendere in campo” in grande stile, facendo atterrare all’Arena di Milano tre elicotteri Agusta che trasportano i suoi primi cinque colpi di mercato: Dario Bonetti, Giovanni Galli, Giuseppe Galderisi, Daniele Massaro e Roberto Donadoni, riveriano osservante, con il quale ha inteso recidere il solidissimo filo che legava da anni la Juventus al vivaio dell’Atalanta. È una mattina di pioggia e il suolo fangoso dell’Arena, calpestato dalle ballerine di Drive In e da divetti di famiglia come Cesare Cadeo, Massimo Boldi, Gaspare e Zuzzurro, non si adatta granché a un evento sportivo. Ma la sostanza non vale nulla, contano solo la forma e la suggestione: alle 11 l’aria è squarciata dalle note della Cavalcata delle Valchirie.

Berlusconi conta che la gente ragioni per associazione di idee, per etichette superficiali, per emozioni, per pancia, senza soffermarsi sul significato profondo delle cose: se lo facesse, trasalirebbe all’idea di citare a fini sportivo-propagandistici una delle scene più grottesche e anti-militari della storia del cinema, quella di Apocalypse Now” in cui il colonnello Kilgore (Robert Duvall, doppiato in italiano da un suo vecchio compagno di scuola) ordina il bombardamento di un villaggio vietcong, eccitandosi per le note bellicose composte da Wagner. Un momento di fortissimo sarcasmo verso l’Occidente, la guerra, l’essere umano in generale diventa uno spot, un biglietto da visita. Berlusconi ha cambiato il senso alle cose. Ci piaccia o no.

Con queste scoppiettanti premesse, era questione di mesi che il ciclone travolgesse tutto. Senza grazia alcuna verso i vecchi arnesi alla Gianni Brera che si facevano profeti di sventura, senza rispetto verso le convenzioni di un calcio italiano che riteneva sempre di saperla più lunga degli altri, e consigliava prudenza, prudenza a oltranza: prudenza nelle dichiarazioni, prudenza nelle presentazioni («Gli elicotteri gli serviranno per scappare», le celebri ultime parole famose di Stefano Tacconi), prudenza nel mercato, prudenza anche quando si andava a giocare in trasferta, prendiamoci il punticino senza troppi voli pindarici. Il grimaldello tecnico fu altrettanto eclatante, un colpo di scena da soap opera americana, la messa nero su bianco che tutto era possibile: Arrigo Sacchi, il famoso “fantino che non è mai stato un cavallo”, l’allenatore senza passato al fianco del quale Berlusconi si spese fino alle estreme conseguenze, fino a rischiare di mettersi contro uno spogliatoio popolato da Maldini, Baresi, Ancelotti, Gullit e Van Basten.

Quelli dell’autunno 1987 furono giorni sportivamente drammatici, giorni in cui cambiò il calcio diventando qualcosa di più simile a quello che conosciamo oggi, e come potranno agilmente testimoniarvi i vari Guardiola, Capello, Ancelotti, Klopp, Benitez, tutti dissetati dalla fonte miracolosa del Milan di Berlusconi, che cambiò il senso (di nuovo…) a partire da una vittoria a Verona quando tutti avevano già nel cassetto il coccodrillo di Sacchi. Andrebbero davvero studiate nei dettagli, addentrandosi nelle profondità della storia per scovarne i minimi segreti, quelle ore, quei metodi, quelle riunioni, quei gabinetti di guerra immortalati da uno scatto incredibile sotto i filari di Milanello, che sembra un fotogramma del Divo di Sorrentino: il grande capo in primo piano e tutti i suoi uomini dietro, Adriano Galliani che guarda sicuro davanti a sé, Cesare Cadeo a testa alta con un ghigno di tensione, Ariedo Braida che si abbandona a un sospirone da calciatore appena uscito dal tunnel, il baffo di Silvano Ramaccioni che fa capolino tra le vigne.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Giuseppe Pastore (@giuseppe.pastore85)

Il Berlusconi presidente di calcio in prima linea dura solo fino al 1994, quando poi la politica lo obbliga a diradare le responsabilità, delegando tutto ad Adriano Galliani. Fino ad allora, che spettacolo: nel senso più ampio del termine, uno show ricco anche di pagine oscure, talvolta anche in senso letterale come la nottataccia dei riflettori di Marsiglia di cui non si capì mai la catena delle responsabilità, e certamente Adriano Galliani si porterà il segreto nella tomba. Un calciomercato aggressivo che imbarbarì il calcio malgrado Berlusconi, perché diffuse per tutta Europa il seme dello “spendi e spandi” coltivato da tanti avventurieri inconsapevoli di star facendo il passo più lungo della gamba, da Tapie a Cragnotti, da Tanzi a Cecchi Gori, tutti involontari “berluschini” che provarono a ripercorrerne i passi, dal pallone alle tv private.

Nel marzo 1987, nel giro di quarantott’ore mise sotto contratto Pippo Baudo, Raffaella Carrà e Ruud Gullit, sborsando al vecchio Frits Philips i soldi necessari a rifare la tribuna dello stadio. Nei primi anni Novanta, l’epoca di maggior bulimia calcistica del Novecento italiano, allestì la prima rosa faraonica, in grado di reggere su “due fronti”, inseguendo l’utopia di vincere tutto, campionato e Champions League, e riuscendoci clamorosamente proprio nella sera in cui otteneva per un voto la fiducia al Senato necessaria per la sua prima (disastrosa) avventura di governo, 18 maggio 1994, una vita in una notte, in bilico tra Roma e Atene, dove il Milan di Capello, altra sua creatura imposta contro tutto e tutti, travolgeva 4-0 il favoritissimo Barcellona di Cruijff (e Guardiola).

Ci rendiamo conto che stiamo conducendo questa narrazione in modo del tutto frastagliato, seguendo e inseguendo il flusso di coscienza: probabilmente è l’unico metodo per tentare di star dietro un uomo dal multiforme ingegno, certamente negli enormi pregi e negli enormi difetti uno degli Italiani del secolo. Ma ancora una volta Berlusconi ci costringe ad alzare lo sguardo e guardare oltre confine, per esempio verso la Svizzera – ehi, non fate battute – per via di quei ripetuti inviti alla riforma delle competizioni europee, naturalmente in nome dello spettacolo e del business a esso collegato. Berlusconi era uno che parlava di Superlega trent’anni prima della Superlega, e la prima vera rivisitazione del format della Champions League (la struttura da otto gironi da quattro, che sopravvive ancora oggi) era stata da lui auspicata già nel 1992.

Si trovano dichiarazioni di Galliani che alludono alla Goal Line Technology addirittura nel 1989, in corrispondenza di un derby in cui un tiro di Ancelotti aveva picchiato sulla traversa ed era rimbalzato in campo senza che nessuno capisse se la palla aveva superato la linea. Organizzò il circo dei Galácticos molto prima di Florentino Perez, un altro che lo ha sempre tremendamente rispettato, riconoscendone la grandezza e la megalomania. Il Milan 1992-93 aveva sei stranieri quando in distinta se ne potevano inserire al massimo tre: Marco van Basten (Pallone d’Oro 1988-1989-1992), Ruud Gullit (Pallone d’Oro 1987), Jean-Pierre Papin (Pallone d’Oro 1991), Frank Rijkaard, Dejan Savicevic, Zvonimir Boban. Non gli bastava: voleva anche Gigi Lentini che continuava a dirgli di no, e proprio per quello lo desiderava ardentemente. Alla fine lo ebbe, seguendo criteri non esattamente educativi che intossicarono l’estate e indignarono qualche sepolcro imbiancato di troppo a cominciare dall’Avvocato Agnelli, che sottovoce spendeva più o meno le stesse cifre per portare Vialli alla Juventus.

Un altro grande momento, anche se di un Berlusconi già assorbito dalla politica: l’annuncio ufficiale, dato in diretta al Processo di Biscardi, della permanenza di Kakà al Milan. Era il gennaio 2009, e il fuoriclasse brasiliano sarebbe stato ceduto sei mesi dopo al Real Madrid.

Ecco. Berlusconi ha osato sfidare lo status quo degli Agnelli e ha deciso di farlo iniziando dal calcio, picconando la chiesa laica costruita con pazienza nei decenni dalla Juventus. Di Donadoni abbiamo detto; ma anche Gullit fu uno sgarbo niente male, e nel 1990 Berlusconi stava per soffiargli anche Baggio prima che da Torino gli facessero capire che, per il bene comune, sarebbe stato meglio scendere a più miti consigli. Prima di un cruciale Juventus-Milan del 1988, Agnelli scese negli spogliatoi del Comunale per incontrare Sacchi e Berlusconi: intendeva scambiare due parole con questi nuovi “vicini rumorosi” e mettere un po’ di soggezione a quel calcio nuovo che stava terremotando l’ordine costituito. Ma quando aprì la porta, non trovò nessuno al di fuori di Silvio & Arrigo: i giocatori erano stati già mandati in campo per il riscaldamento, per evitare che cadessero preda del fascino dell’Avvocato. «Sapevo che avevate una grande squadra, speravo che voi due la rovinaste», fu l’epitaffio di Agnelli sugli anni Ottanta juventini. Un vento nuovo soffiava. Il calcio era già politica, e naturalmente lui c’era arrivato prima degli altri: non per caso il suo partito di plastica, assemblato in pochi mesi con modalità da casting di reality show, si chiamava Forza Italia e la cosa – che tempi che erano quelli – causò un grande imbarazzo nei tifosi della Nazionale. Di nuovo, aveva cambiato il senso alle cose.

Berlusconi è morto ma, comunque la pensiate, ci ha lasciato un enorme giardino pieno di tante specie di alberi da frutta, variopinti e lussureggianti, non tutti commestibili. Il Cavaliere merita cavalleria: per l’esattezza, l’Intermezzo della Cavalleria Rusticana che Martin Scorsese riserva a Jake La Motta all’inizio di Toro Scatenato. Un personaggio adorabile e detestabile, magro e grasso, vincitore e vinto, determinato e volgare, affamato e insoddisfatto, sempre e comunque solo al centro del ring, cercato, colpito e illuminato dai flash: questo è spettacolo.