Una delle cose che più mi diverte fare quando devo scrivere del perché una squadra dovrebbe – o non dovrebbe – acquistare un calciatore è scorrere i commenti sotto un video di YouTube che lo riguarda. Questo perché mi interessa capire come quel calciatore venga percepito in una dimensione più diretta, in cui il filtro e l’influenza del racconto giornalistico sono limitati al massimo, talvolta addirittura assenti. Generalmente scelgo le compilation più lunghe, così da ampliare la platea di chi vede e chi commenta, e un giudizio più pertinente, centrato. E, in effetti, al di là di qualche isolato flame, oggi l’appassionato medio si dimostra molto più attento e competente nel raccontare quel giocatore, nello spiegare perché sarebbe più o meno adatto a un determinato sistema, nell’intuire come potrebbe rispondere alla richieste di un allenatore.
C’è un commento che mi ha colpito proprio per il suo essere particolarmente centrato, al netto dell’intento ironico. Descrive Hjulmand come la «versione economica di Declan Rice». Nel 4-3-3 rigido e iper-aggressivo impostato dal tecnico Baroni, il danese è stato il perno attorno al quale incardinare un sistema di pressing alto e di occupazione preventiva degli spazi che non siamo abituati ad associare alle squadre che devono lottare per salvarsi fino all’ultima giornata. «Questo è un gruppo di ragazzi giovani ma molto ricettivi, che credono nel lavoro quotidiano e che mi seguono. Avevo chiesto una partita di coraggio, di pressione e di corsa, perché se lasci l’iniziativa agli altri diventa tutto più difficile. A me interessa soprattutto l’atteggiamento, che non deve mai mancare», disse Baroni, non a caso dopo il 2-1 in casa dell’Atalanta del 19 febbraio scorso. Ovvero la partita che, di fatto, ha significato la salvezza del Lecce ben prima della matematica certezza che sarebbe arrivata solo a fine maggio.
Il motivo di tutto questo è da ricercarsi proprio nell’unicità di Hjulmand, nella sua capacità di essere ovunque e in momenti diversi, a volte anche all’interno della stessa azione, a seconda che il pallone fosse tra i piedi dei suoi compagni o tra quelli dei suoi avversari. In particolare è nella fase di non possesso che si è manifestata tutta la superiorità di Hjulmand rispetto al contesto ristretto della lotta salvezza, trasformando i momenti individuali e collettivi di applicazione difensiva nel filo conduttore che ha tenuto insieme tutte le grandi partite che il Lecce ha disputato al Via del Mare contro avversari sulla carta più forti – in tre mesi, da novembre a febbraio, due vittorie contro Atalanta e Lazio e due pareggi con Milan e Roma, all’interno di una striscia da cinque successi in dieci gare chiusa proprio dal colpo del Gewiss Stadium di Bergamo. Tutte queste partite, ma forse anche le altre, andrebbero riguardate potendo avere a disposizione una telecamera dedicata solo a Hjulmand in modo da poter apprezzare la mole di lavoro che si è sobbarcato ogni volta che gli avversari sono stati in possesso di palla. Hjulmand era uno e trino: lo era nella prima pressione sul portatore di palla avversario o sul giocatore incaricato di ricevere l’outlet pass in uscita dalla difesa; lo era nel raddoppio portato in aiuto al terzino di riferimento affrontato in uno contro uno o in condizioni di inferiorità numerica dall’esterno offensivo avversario; lo era nel recupero sull’inserimento della mezzala perso dal compagno fin troppo attratto dal pallone. Una capacità di scanning del gioco off the ball che aveva ed ha pochissimi eguali anche a un livello superiore.
L’ubiquità di Hjulmand, da intendersi come questa capacità di coprire quasi da solo l’ampiezza del campo – quasi 11 km percorsi di media a partita, dodicesimo giocatore del campionato in questa particolare classifica – dipende da come riesce a leggere il gioco con grande anticipo rispetto agli altri, ma è anche la diretta conseguenza del modo in cui riesce a utilizzare la scivolata che costituisce la parte più vistosa e riconoscibile del suo gioco. In questa video-intervista, realizzata per il canale ufficiale della Serie A, Hjulmand dice di essere d’accordo con l’idea di Alessandro Nesta per cui il ricorso a un tackle è sintomatico della presenza di un errore precedente cui si sta tentando di porre rimedio in maniera estrema, ma poi sottolinea come «il calcio è uno sport fatto di duelli individuali e se per vincerne uno devo fare una scivolata allora la farò ogni volta che è necessario».
Hjulmand è il terzo giocatore del campionato per numero di tackle portati (90 in 35 presenze, quindi quasi tre di media a partita), ma la questione non è prettamente numerica, piuttosto di approccio, di interpretazione, quindi di efficacia del gesto tecnico. Guardando una scivolata di Hjulmand non si ha mai la sensazione che sia in affanno o in ritardo, che debba insomma rimediare a un suo errore di posizionamento: sembra invece che quella scivolata sia una precisa scelta stilistica, il miglior modo possibile per far valere la sua superiorità tattica, fisica atletica. Hjulmand sceglie di concedere al suo diretto avversario un vantaggio solo apparente facendosi superare in prima battuta per poi arpionare il pallone in scivolata con l’interno del piede, nella maniera più pulita e sicura possibile, oltre che quella più efficace per ribaltare velocemente l’azione. E anche quando il tackle è davvero l’ultima speranza per sé e per la squadra – come nel caso di quelli portati all’interno dell’area di rigore sull’avversario smarcato che sta per calciare in porta – il suo grande tempismo riesce a ridurre al minimo i rischi connessi all’intervento rischioso per antonomasia.
Un po’ di highlights random di Hjulmand
Quando ha il pallone tra i piedi Hjulmand è invece un giocatore essenziale, uno di quelli che gestiscono la fase di possesso entrandoci il meno possibile, e comunque giocando a non più di due tocchi anche quando si tratta di rifinire l’azione. Nella già citata intervista al canale YouTube della Serie A, ha detto che la sua nuova interpretazione multidimensionale del ruolo del mediano è stata influenzata dallo studio quotidiano di Marcelo Brozovic: «Cerco sempre di guardare tutte le partite in cui so che lui è in campo: Brozovic corre benissimo, con e senza palla, il suo obiettivo è sempre quello di recuperare il pallone e poi impostare immediatamente l’azione successiva. Quindi cerco di replicare il suo modo di muoversi, e di farmi trovare sempre pronto quando si tratta di ricevere il pallone e giocarlo in avanti».
La dimostrazione pratica si è avuta con i due gol di Baschirotto contro Milan e Cremonese, tra i più importanti della stagione del Lecce: entrambi sono stati ovviamente preparati in allenamento ed entrambi sono arrivati grazie alla rapidità con cui Hjulmand si è spostato leggermente in avanti la palla prima del cross d’interno destro. Qualcosa che, peraltro, hanno già visto anche a Salerno quando, in occasione della prima vittoria del Lecce in campionato, un tocco simile – e all’apparenza impercettibile – servì a mettersi nella miglior condizione possibile per lanciare in profondità Ceesay.
Da questo punto di vista quello di Hjulmand è il profilo adatto per squadre reattive, che tendono ad andare pericolosamente fuori giri per assecondare la propria natura dinamica e ipercinetica. E che, proprio per questo, hanno bisogno di un giocatore che sappia razionalizzare entrambe le fasi pur essendo furioso e instancabile, uno specialista del ruolo da inserire in contesti rigidi, dalla specificità marcata. «Chi avrà la possibilità di portarlo via dovrà fare un grande investimento: è giovane e ha margini di miglioramento incredibili, che solo lui può conoscere», ha detto Baroni pochi giorni prima di lasciare la panchina del Lecce. Come tante altre volte in questa stagione non è stato necessario ragionare troppo sulle squadre interessate o sulle ipotesi, come sarebbe normale fare nel momento in cui si ipotizza la parabola di carriera di un calciatore ancora in divenire: chiunque acquisterà Hjulmand lo farà perché ne ha bisogno all’interno di un sistema in cui limiti e potenzialità sono ben definiti. Proprio come lui.