In Italia non abbiamo ancora capito del tutto De Zerbi?

A Brighton, così come in tutte le sue esperienze precedenti, ha creato valore attraverso un'idea di gioco moderna, sofisticata. Eppure qui da noi è ancora molto discusso.

Roberto De Zerbi è un allenatore che si è fatto conoscere presto. In virtù delle sue doti precoci, certo, ma anche per un altro aspetto: è sempre stato divisivo, lo era già a inizio carriera, quando lavorava ancora in Lega Pro. È una storia che risale a sette anni fa, più o meno: il suo Foggia praticava un calcio estremamente ricercato nonostante fosse in terza divisione, sul web e sui social circolavano gli articoli longform, i video, i thread incentrati sulla squadra rossonera, e così De Zerbi iniziò a rilasciare le prime interviste in cui parlava di identità tattica radicata, di costruzione dal basso coinvolgendo costantemente il portiere, di gioco di posizione e superiorità alle spalle della prima linea di pressione; alla fine, però, furono il Benevento (vincitore della regular season) e il Pisa di Gattuso, dopo aver battuto proprio il Foggia in una drammatica finale playoff, a conquistare la promozione in Serie B.

È così che nacquero il mito, l’anti-mito e l’inevitabile dibattito intorno a Roberto De Zerbi, subito etichettato come un allenatore giochista che non era riuscito a vincere. Difficile immaginare una polarizzazione più aspra e più profonda nel contesto italiano. Se guardiamo all’intera storia del nostro Paese, forse solo guelfi, ghibellini, berlusconiani e anti-berlusconiani hanno raggiunto le stesse vette di violenza dialettica.

Oggi, nell’estate del 2023, Roberto De Zerbi viene ancora raccontato – e quindi idolatrato o criticato, a seconda della posizione di ciascuno – come se fossimo nel 2016. Forse va così a causa del suo percorso in questi sette anni, per via delle esperienze double face – gioco sempre gradevole, risultati altalenanti – vissute a Palermo, Benevento e Sassuolo. Di certo la coerenza delle sue scelte tecnico-tattiche e delle dichiarazioni rese ai media non l’hanno aiutato, nel senso che hanno proiettato l’immagine di un allenatore non solo giochista ma anche estremista, ideologizzato, sicuro di sé: tutte condizioni ideali perché il multiverso calcistico italiano potesse continuare a litigare sulle qualità e sulle prospettive di De Zerbi.

Il punto, però, è proprio questo: il problema che abbiamo con Roberto De Zerbi è un problema che abbiamo solo noi. Solo noi italiani. Lo dice la cronaca degli ultimi anni: dopo la fine della sua esperienza al Sassuolo, De Zerbi ha scelto di emigrare ed è stato scelto dallo Shakhtar; l’avventura in Ucraina si è chiusa troppo presto perché potesse essere giudicata in modo compiuto, definitivo, eppure nessun club di Serie A ha pensato a lui.

Così a settembre 2022 è arrivata l’offerta del Brighton, che doveva sostituire un’istituzione come Graham Potter. Una condizione di partenza difficile per tutti, quindi anche per De Zerbi, che però ha risposto benissimo a queste nuove pressioni. E infatti negli otto mesi che sono passati dal suo arrivo sulla costa sud dell’Inghilterra è stato definito, in ordine sparso: «Un manager che sta cambiando la Premier League» (Jon Mackenzie, su The Athletic); «Un allenatore che potrebbe spingere un po’ più in là l’evoluzione del gioco» (Jonathan Liew, sul Guardian); «Il tecnico che ha costruito una delle squadre più belle che abbia mai visto giocare a calcio» (Jürgen Klopp).

Certe parole così lusinghiere e certe investiture così impegnative si basano su cose tangibili, non solo su sensazioni estetiche: nella stagione 2022/23, infatti, il Brighton di De Zerbi ha raggiunto la prima qualificazione europea della sua storia nonostante avesse il 19esimo monte ingaggi della Premier League, un campionato a 20 squadre; ha perso solamente ai rigori, contro il Manchester United, la semifinale di FA Cup; ha sviluppato il talento di giocatori non ancora celebri su scala globale come Moisés Caicedo, Kaoru Mitoma, Solly Marsch, Robert Sánchez; ha offerto al campione del mondo Alexis MacAllister, uno dei pochi profili top già presenti in rosa, un palcoscenico ideale per imporsi come uno dei centrocampisti più completi del panorama europeo – al punto che il Liverpool ha deciso di acquistarlo e di affidargli la maglia numero 10. Tutti questi nomi vanno aggiunti a una lista che comprendeva già i vari Djimsiti, Venuti, Locatelli, Demiral, Berardi, Boga, Raspadori, Lopez, Traorè, i calciatori lanciati o rilanciati da De Zerbi nelle stagioni vissute a Benevento e a Sassuolo, gli atleti valorizzati dentro il suo sistema di gioco, grazie al suo sistema di gioco.

Da quando siede sulla panchina del Brighton, De Zerbi ha accumulato 19 vittorie, nove pareggi e 11 sconfitte in 39 partite di tutte le competizioni (Bryn Lennon/Getty Images)

Proprio questo è l’aspetto più significativo e più futuribile di De Zerbi: è un tecnico che sa creare valore – tecnico, quindi economico – partendo da un progetto tattico ambizioso, che ama e vuole vedere un calcio efficace ma anche sofisticato, per lui i risultati devono essere la conseguenza di un’idea. Della sua idea. È un nesso causa-effetto esattamente inverso rispetto al passato, nel senso che ribalta completamente la teoria e la pratica della scuola di allenatori italiana, storicamente legata al principio per cui sono i risultati a rendere valido un certo modello di gioco, mai il contrario.

E allora il successo di De Zerbi al Brighton e il suo – possibile, preventivabile – approdo in una squadra d’élite potrebbero innescare un cambiamento, potrebbero creare un nuovo modo di percepire e raccontare e anche valutare il lavoro degli allenatori. Magari, chissà, tra un po’ di tempo il dibattito sui tecnici si baserà su altri parametri che non siano i semplici risultati, il numero dei campionati vinti o delle salvezze ottenute. Sarebbe giusto e interessante per Roberto De Zerbi, ma soprattutto sarebbe giusto e interessante anche per noi.

Da Undici n° 50