Una tentazione da sempre invalsa tra i seguaci dello sport, al di là della mania di misurazione della grandezza e forza di ogni atleta, nel tentativo di stabilire spesso improponibili gerarchie, è la caccia all’erede. Nel tennis, già Mats Wilander – re di tre quarti di Slam nel 1988 – venne presentato al mondo da un pigro cronista come Borg numero due. Una sciocca comparazione tagliata con l’accetta (biondo, svedese, rovescio a due mani, fondocampista) cui il ragazzo rispose, con brillantezza inattesa: «No: semmai, sono Wilander numero uno».
Talora la caccia all’epigono risponde a un diffuso sentimento di smarrimento, del quale il tifoso fa esperienza al pensionamento di una classe dominante. Pullulano, nel tennis, gli orfani di Federer, i prossimi orfani di Nadal; seguiranno, a dispetto del progetto di rifiuto dell’obsolescenza fisica, quelli di Djokovic. Per un verso, ci sono nostalgici del campione che fu e non sarà più; per un altro, esiste una sorta di nostomania tennistica: chi tornerà a farci emozionare come Roger, Rafa e Nole che bucherellano rettangoli di gioco in sfide dall’epica immortale? Chi sarà capace di farci vivere la trepidazione e l’esaltazione di finali Slam tanto epiche da predarci l’anima?
La risposta, cercata inutilmente in Zverev, Tsitsipas, Thiem, Medvedev e in altri rappresentanti di una sorta di lost generation rimasta alla finestra tra l’attesa del dominio dei vecchi e il dirompente ingresso dei giovanissimi, si può semmai individuare in Carlos Alcaraz. Lo spagnolo si propone chiaramente per questa presunta carica ereditaria. Con una prima collezione di primati notevoli: nel giro di dodici mesi è transitato dal non essere testa di serie in un major alla prima posizione mondiale, arrivando a toccarla più presto di chiunque altro da che esiste il ranking Atp, cioè il 1973. Nessun teenager era mai salito in vetta alla classifica: Roger e Rafa avevano atteso di compiere ventidue anni, Nole ventiquattro. A neppure vent’anni, peraltro, si è assicurato la tessera del club degli slammer, una qualifica che tanti hanno inseguito senza successo; altri – l’ultimo, Dominic Thiem – hanno finalmente ottenuto, salvo viverne gli effetti collaterali, lo svuotamento di energie e motivazioni susseguenti a uno sforzo tanto severo ed esigente per il corpo e la mente. Alcaraz, per contro, ha vissuto il suo battesimo – conquistato a spese di Jannik Sinner agli ultimi Us Open, a dispetto di un match point da salvare – con la leggerezza e la consapevolezza di chi già conosceva gli inghippi e le insidie da evitare, al pari di un habitué delle finali Slam.
Discorso differente, al di là dei risultati già eccezionali, è se Carlos Alcaraz possa essere considerato il novello custode del fuoco, il giocatore dalle qualità e dalle caratteristiche tecniche, tattiche, di gesti e di movenze tali da permettere alla comunità del tennis di non avvertire troppo il contraccolpo dopo la perdita della triarchia più feroce e totalizzante nella storia. In questo senso, esagerando, c’è chi si è convinto di aver scorto in lui una sintesi dei tre grandi: la fisicità, la volontà e l’approccio umile di Nadal, la rapidità, le spaccate, il ritmo forsennato e la letalità di Djokovic e pure (nelle smorzate, nei tocchi a rete) un che del lascito dei gesti di Federer.
Che si tratti di una esagerazione appare flagrante: si tratterebbe della quintessenza delle caratteristiche peculiari dei tre giocatori più eminenti di sempre, un mix dei sogni che sostanzia in un solo corpo il meglio del meglio del tennis. Una teoria per certi versi affascinante ma, onestamente, insostenibile. Vero è che la varietà nel gioco dimostrata da Alcaraz lo rende competitivo su ogni superficie e non schiavo di una unica trama: può tenere lo scambio da fondo campo e accelerare con botte strabilianti, con un uso più o meno marcato del top spin; sa scivolare sulla terra rossa ed è lì che sembra più nel suo ambiente naturale, eppure il primo Slam lo ha acciuffato sul cemento e, sempre sul duro, si è aggiudicato due dei Master 1000 già agguantati (Miami e Indian Wells). E ora ha raggiunto la sua prima finale sull’erba di Wimbledon.
Gli highlights della prima semifinale giocata (e vinta) a Wimbledon da Alcaraz
Nonostante un servizio di buona qualità ma rifinibile nelle percentuali e nelle scelte, può già utilizzare il serve&volley – e lo fa, anche perché l’atletismo su cui fonda il suo tennis gli permette di piazzarsi a rete con rapidità rara e la “mano”, se del caso come nel gioco di volo, si mostra sensibile. Un altro aspetto sul quale gli toccherà riflettere è la gestione delle energie: pagata la tassa della gioventù, lanciarsi come un ossesso alla rincorsa di tutte le palle potrebbe non essere la strategia migliore per evitare infortuni che già hanno limitato la sua attività ai massimi livelli. La sensazione, tuttavia – ecco perché gli altri candidati alla spartizione di ciò che sarà lo temono tanto – è che i margini di miglioramento siano ancora tali da rendere indefinibile, oggi, il livello di gioco standard di Carlos Alcaraz.
Con le armi in dotazione ha già centrato due obiettivi preclusi ai più: negli ultimi vent’anni, dopo il suo coach Juan Carlos Ferrero e a parte i soliti tre e Murray, il solo Daniil Medvedev si è garantito l’accoppiata Slam e vetta del ranking. Ma ci ha messo tanto tempo in più. E ha puntato, praticamente, sul solo cemento. Al medesimo bottino conquistato prima dei vent’anni, lo spagnolo ha incorporato quattro titoli Master 1000 e l’ambizione di fare centro dappertutto: terra, duro, indoor. E, perché no, l’erba. Insomma: un asso lo è già. Pigliatutto, ce lo dirà la storia.