È finalmente iniziata l’era di Alcaraz

La vittoria di Wimbledon ci ha mostrato che Alcaraz non è “uno dei migliori”: è un predestinato.

«È una finale di Wimbledon, non c’è da avere paura». Così Carlos Alcaraz aveva risposto quando, dopo aver battuto facilmente Medvedev in semifinale, gli avevano chiesto dei suoi timori per la sfida contro Novak Djokovic, ultimo avversario tra lui e uno storico titolo di Wimbledon. Era una domanda sensata, si trattava di battere il giocatore più vincente di sempre negli Slam, un campione avvolto in un’aura di imbattibilità tanto da vincere le partite mettendo paura agli avversari ancor prima di iniziarle, colui che non perdeva sul campo centrale di Londra da dieci anni, che aveva vinto le ultime 34 partite di fila a Wimbledon, il quattro volte campione in carica che giusto qualche settimana fa aveva procurato proprio ad Alcaraz i crampi per la tensione e che è stato – fino alle 19, ora di Greenwich, del 16 luglio – una specie di Keyser Söze del tennis, però visibile e conosciuto da tutti. 

E in effetti Alcaraz non ha avuto paura, giusto un po’ all’inizio per 32 minuti, quando ha pagato dazio agli dei del tempio, ma sapeva bene che non sarebbe bastata solo la temerarietà per vincere, perché per battere Djokovic non basta giocare il tennis migliore nella giornata di grazia. Serve coraggio, convinzione, forza, caparbietà. Serve l’arroganza di pensare di poter essere al pari degli dei, serve essere un fuoriclasse, non un generico “uno dei migliori al mondo”. Carlos Alcaraz, tutto questo lo è sempre stato. Gli serviva solo l’ultimo certificato. 

Lo spagnolo ha un’enorme fiducia in se stesso, ed è questo fattore a rivelarsi decisivo nelle partite storiche come questa finale, quando non contano più strategia, tattica o tecnica ma soltanto la determinazione. Fu lui stesso a farcelo sapere dopo gli Australian Open 2022, quando lo spagnolo spiegò che era pronto a vincere uno Slam: «Non so se sarà già il Roland Garros, ma mi sento pronto alla grande vittoria», disse senza mancare di rispetto all’idolo delle sue parti, Rafael Nadal. Al Roland Garros era tra i favoritissimi, perché a Madrid aveva messo in fila uno dietro l’altro prima Nadal, poi Djokovic e infine distrutto Zverev. Fu proprio quest’ultimo, in stato di grazia, a fermare la sua corsa nei quarti nello Slam parigino. A Wimbledon dell’anno scorso, Alcaraz arrivò avendo giocato una sola partita da professionista sull’erba e si fece sorprendere da Sinner. A New York mantenne la promessa accennata a Melbourne: alzò il trofeo, il primo Slam della carriera e diventò il più giovane numero uno della storia del tennis, almeno da quanto non sono gli umani a compilarla.  A New York Djokovic non c’era, non aveva avuto il permesso di entrare negli Stati Uniti perché sprovvisto del certificato vaccinale; il livello espresso in quel torneo da Alcaraz può acuire i rimpianti per un grande match mancato, ma non è detto che il risultato sarebbe stato diverso.

Gli highlights della finale

Già molto sicuro di sé, quella vittoria non poté che rafforzare l’autostima di Alcaraz, tant’è che in ogni intervista pre-torneo dichiarava di sentirsi pronto alla vittoria. Sempre. Nonostante la tensione gli abbia giocato un brutto scherzo un mese fa a Parigi, quando arrivarono i crampi a interrompere un match che stava cominciando a dominare, anche alla vigilia di Wimbledon Alcaraz ha ripetuto che lui aveva un sogno da realizzare e che quest’anno poteva essere il momento di tramutarlo in realtà. Così, mentre tanti altri giocatori al cospetto di Djokovic, Federer e Nadal perdevano prima di entrare in campo, spaventati dal palmarés e incapaci di gestire situazioni di pressione cui non erano abituati per inesperienza, spesso accontentandosi di fare bella figura, Alcaraz è arrivato al match spartiacque con sfrontatezza, una fiducia cieca nelle proprie capacità e il coraggio di crederci anche se la partita non si fosse messa benissimo. Se Alcaraz ha tutto questo, è perché lui non è “uno dei migliori”, non è come Tsitsipas, Zverev, Ruud, Medvedev, Thiem: lui è un predestinato, un fuoriclasse. 

Nonostante il disastroso avvio, il primo mattone sul suo primo Wimbledon Alcaraz l’ha messo convincendo Djokovic che questa partita si poteva perdere. Lo spagnolo, dopo aver non giocato il primo set, si è un po’ sciolto nel secondo, quando ha capito che quella contro Djokovic in finale a Wimbledon non è una sfida da affrontare con il fioretto, serve and volley e smorzate, ma è una lotta da vincere con la spada, con solidità, lungimiranza e resistenza da fondo campo. E correndo, correndo tantissimo. Vinto il tie-break con una fantastica risposta di rovescio sul set point ma anche con due banali errori di rovescio di Djokovic, Carlos ha tolto una prima grande sicurezza a Djokovic: quella di non perdere mai un tie-break negli Slam. Novak veniva infatti da 15 vittorie di fila dopo essere arrivati sul 6-6. È qui che la partita è sembrata inclinarsi in una direzione obbligata, verso la seconda vittoria slam di Alcaraz: sul 3-1, un game di 27 minuti dava allo spagnolo un vantaggio che sembrava incolmabile, tant’è che Djokovic improvvisamente pareva mostrare, sul volto e nei movimenti, tutto il peso dei suoi 36 anni e delle mille partite. 

Quando tutto sembrava finito, Novak, al solito, è stato magistrale nel rimettere in piedi una partita che sembrava saldamente in mano a Carlos Alcaraz. Sono arrivate allora la pretestuosa discussione con l’arbitro sullo shot clock per la battuta, la lunghissima pausa-bagno prima dell’inizio del quarto set, le schermaglie col pubblico, nonostante per una volta non fosse del tutto contro di lui, le finte litigate con il suo angolo, reo di non dargli i consigli giusti nei momenti topici. Ecco: il suo angolo. Con Goran Ivanisevic impietrito e incapace di proferire parola nel box, è stata la moglie Jelena a mostrare pugni, muscoli tesi e a urlare quando Djokovic faceva punto, uno scambio “fisico” a distanza che Novak ama, che usa, anche quello, per alimentare il suo tennis. 

Djokovic si è portato in parità ma Carlos Alcaraz oramai era arrivato talmente tanto vicino alla vittoria che neanche la netta sconfitta del quarto set poteva farlo desistere. A quel punto era difficile non considerare Djokovic come favorito, e invece la partita è cambiata: dopo essere stata preda della tensione e di colossali incertezze da parte di entrambi, improvvisamente è diventata bellissima, una lotta fra due pugili che avevano messo da parte strategia e tattica già da qualche ora. E che arrivati alle soglie della quarta ora di gioco, “sentivano” i colpi come se la partita fosse appena iniziata.  C’era da fare punti con la prima palla di servizio, non sbagliare da fondo campo e far giocare l’avversario in corsa, fare la smorzata solamente quando era il colpo con meno probabilità di errore. E soprattutto c’era da correre, come se fermarsi equivalesse a perdere, e quindi rincorrere ogni palla.

Nella finale di Wimbledon 2023 non si stava decidendo solo un’edizione di un torneo, ma si stava delineando un evento epocale nella storia del tennis. Perché vincere uno Slam battendo Ruud in finale non è come alzare un trofeo dopo aver battuto Djokovic. A Wimbledon poi: se c’è un posto dove più che altrove si scrive la storia del tennis, quel posto è lì, a due passi da quel borgo nel sud ovest di Londra, tra le eleganti casette da non disturbare dopo le undici di sera.

Fu a Wimbledon che, nel 2001, Roger Federer sconfisse Pete Sampras in cinque set interrompendo la serie di 31 vittorie consecutive sull’erba dell’americano. E fu a Wimbledon che Rafa Nadal chiuse tra le ombre della sera quella che forse rimane la finale Slam più bella della storia del tennis, anche lui interrompendo una serie di 40 vittorie di fila di Federer. E fu sempre a Wimbledon che Djokovic vinse la più incredibile delle partite fissando per sempre un punteggio nella mente dei tifosi dello svizzero: 8-7, 40-15.

Dopo la sconfitta, in mezzo ai complimenti di rito, Djokovic ha detto di non aver mai affrontato «un tennista come Carlos. Ha preso diverse cose da me, Federer e Nadal, è un giocatore completo». La spettacolarità dei colpi di Federer, l’abilità di eccellere giocando anche in difesa come Djokovic, specie scivolando con il rovescio a due mani, e quella maniera spagnola di interpretare la partita come una battaglia che sembra ereditata da Rafael Nadal: Carlos Alcaraz sembra un giocatore mai visto prima, neanche nelle altre ere del tennis. E se questo potrebbe essere anche una concessione al fair play del momento, lo stupore per come Alcaraz ha giocato l’ultimo game è sembrato del tutto reale. L’ultima volta che, sulla coppa con l’ananas, venne inciso un nome diverso da quelli di Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic e Andy Murray, era il 2002. E Carlitos Alcaraz non era ancora nato. Dopo averlo visto vincere questa edizione di Wimbledon, già ci chiediamo se ci siano avversari destinati a ostacolare il suo dominio, che sembra già iniziato. Certo, Djokovic è ancora della partita e Nadal potrebbe tornare, anche se nessuno può sapere quando e come. Ma da oggi inizia un’altra era, quella del Fabulous One Carlos Alcaraz. Vedremo se anche qualche altro giocatore entrerà a far parte del club.