Erling Haaland ha già rivoluzionato il calcio

Il centravanti del Manchester City ha solo 23 anni eppure è il simbolo di questa era: l'ha conquistata con numeri incredibili, con un talento sconfinato, ricostruendo l'idea stessa del centravanti.

Nella storia ci sono pochissimi uomini che hanno avuto il privilegio di assistere al compimento della loro missione, al materializzarsi nella realtà di un pezzo della loro immaginazione. Nella maggior parte dei casi, la reazione di questi uomini è stata di sgomento. «Perché non parli!», urlò uno stravolto Michelangelo davanti alla perfezione pietrificata del suo Mosè, martellandogli il ginocchio e pretendendo da esso un’umana reazione. «Sono diventato la Morte, il distruttore di mondi», si dice sia stato il commento di un terrorizzato Robert Oppenheimer alla prima detonazione della bomba atomica nel deserto della Jornada del Muerto, conclusione del Trinty Test, realizzazione del Progetto Manhattan, materializzazione nella realtà della fantasia finale – letteralmente – dello scienziato.

Chissà cosa deve aver pensato Pep Guardiola la prima volta che ha visto Erling Haaland allenarsi con il City, a cosa si sarà paragonato una volta acquisita la consapevolezza di aver aggiunto il pezzo letale a un macchina già mortale. Ai tanti privilegi della vita di Guardiola quest’anno si è aggiunto anche quello avuto prima di lui da Michelangelo, Oppenheimer e altri pionieri delle scienze e delle arti: la certezza di aver compiuto la sua missione, materializzato la propria immaginazione. Ma sono certo che a Guardiola non saranno sfuggite le implicazioni, da uomo pensoso quale è: cosa resterà del calcio dopo il Manchester City con Erling Haaland come centravanti? Porsi questa domanda è ancora più urgente dopo quello che è successo nell’ultima fase della Champions League: la semifinale contro il Real Madrid è stata difficile soltanto a metà, forse a metà di una metà, alla fine solo nel primo tempo della partita d’andata; la finale è stata più complessa, ma alla fine è stata vinta. Haaland non ha segnato né al Bernabéu né all’Etihad, e neppure a Istanbul. Ed è divertente vedere come, tra i commenti più frequenti, ci siano quelli che esprimono sollievo per l’assenza del norvegese tra i marcatori: allora è una persona umana pure lui, il nemmeno tanto implicito messaggio.

La grandezza di un giocatore, ovviamente, si misura con le aspettative. Viviamo la fine di un’epoca in cui due singolarità avvenute contemporaneamente – Messi e Ronaldo – hanno cambiato il nostro modo di misurare le quantità del calcio: se segna meno di trenta gol in una stagione, ormai, un attaccante è quasi costretto alle pubbliche scuse. È il fardello del progresso, il peso dell’eredità: chi viene dopo deve ripartire da dove gli altri si sono fermati. Fin qui, la cosa più inquietante di Haaland è stata la sua capacità di portare questo fardello senza fatica. Anzi con un pizzico di arroganza, addirittura con una punta di piacere: una cosa che non sta riuscendo nemmeno agli eredi designati delle due singolarità contemporanee di cui sopra, Kylian Mbappé e coevi.

Le premesse c’erano tutte, sia chiaro. Haaland sta costruendo il suo mito dall’età di nove anni. Quando, come ha raccontato lui stesso, al primo tocco del pallone della sua vita corrispose anche il primo gol della sua carriera. All’epoca non era nemmeno un attaccante: giocava largo sulla fascia perché «ero molto veloce», ha spiegato in un’intervista a GQ di qualche tempo fa, con la faccia di uno che finge di non ricordarsi di aver quasi battuto il record di velocità sui sessanta metri in una gara di Champions League contro il PSG. Le aspettative, dicevamo. Quando questa estate Haaland è arrivato al City, tutti più o meno sapevamo – temevamo – cosa sarebbe successo. Ma, appunto, la grandezza di un giocatore si misura con le aspettative nei suoi confronti e vedere Haaland prima rispettare esattamente e poi superare ampiamente quelle aspettative è stato sconvolgente. “Watching Erling Haaland, Manchester City’s Destroyer of Worlds”, si intitolava un bellissimo pezzo del New Yorker dello scorso aprile.

I numeri di Haaland sono tali che ormai è uno sforzo inutile provare a descriverlo usando un approccio quantitativo. Personalmente, la cosa che meglio mi aiuta a capire la traiettoria calcistica di Haaland è la successione delle immagini, dei soprannomi, dei riferimenti pop usati per definirlo. All’inizio, erano i predatori alfa del Regno animale: l’orso e il lupo. Poi, le bestie mitologiche come lo Yeti. Poi, le creature del folklore norreno: il troll. Ora usiamo le macchine: il cyborg o, come ha detto Haaland di se stesso, Terminator. C’è chi non ci prova neanche a definirlo, come spesso capita a coloro che la sorte sceglie come primi testimoni di un nuovo fenomeno naturale: «Io un giocatore così giovane che fa queste cose non l’ho mai visto. Mai», ha detto di lui Peter Crouch.

D’altronde viviamo l’epoca in cui le macchine stanno diventando più di se stesse, quindi l’accostamento si presta benissimo a descrivere un calciatore che sembra uscito dai classici della letteratura fantastica. Haaland sembra la folle composizione di un Viktor Frankenstein del pallone: il fiuto di Pippo Inzaghi, la stazza di Bobo Vieri, l’equilibrio di David Trezeguet, la potenza del primissimo Radamel Falcao, la velocità di Ryan Giggs all’inizio del Manchester United di Sir Alex Ferguson. Tutto tenuto assieme, parti saldate le une alle altre da un’elettricità galvanica che sembra attraversare tutto il suo corpo in tutti i momenti. D’altronde viviamo l’epoca dell’ascesa delle macchine, delle intelligenze artificiali che forse, chissà, magari, salveranno il mondo oppure lo distruggeranno. Così come Haaland – e il Manchester City – potrebbero salvare il calcio oppure distruggerlo. A proposito: qualcuno ha chiesto a ChatGPT, l’AI più in voga in questo momento, quanti gol segnerà Haaland l’anno prossimo. La macchina – forse capace di riconoscerne un’altra? – ha risposto che meno di 30 gol costituirebbero un’anomalia statistica.

In effetti sì, 30 gol sarebbero un’anomalia statistica se partiamo dai 52 di quest’anno

A 23 anni compiuti oggi, Haaland è già il centravanti più forte della sua generazione. Ma forse sarebbe più corretto dire che è il primo centravanti della sua generazione, colui che ha restituito centralità a un ruolo per quindici anni condannato all’obsolescenza, l’attaccante che riavvolge il nastro del tempo e riporta il calcio all’epoca in cui i gol li segnava, anche e soprattutto, un energumeno con il numero 9 sulle spalle. E la sorte, beffarda, ha voluto che la guida in questo “ritorno al passato” fosse Pep Guardiola. Quest’anno il Manchester City ha vinto la prima Champions League della sua storia, dopo anni di tentativi e investimenti sufficienti a sostenere l’economia di un piccolo Paese. Quest’anno, Guardiola ha vinto la sua prima Champions League lontano da Barcellona e senza Leo Messi. Ma, a dimostrazione del nuovo capitolo della storia del calcio che sta iniziando davanti ai nostri occhi, la narrativa è ormai un’altra: non più senza Messi ma con Haaland.

Ecco, forse, più che nelle aspettative, la grandezza di Haaland si può misurare davvero con le conseguenze della sua esistenza: chi avrebbe mai immaginato che sarebbe arrivato un giocatore capace di convincere Guardiola del diritto all’esistenza del centravanti? In questo suo primo anno in Inghilterra, quasi tutti i giornalisti che lo hanno intervistato hanno chiesto a Haaland la sua opinione sull’impatto che la sua sola esistenza ha avuto nel mondo del calcio. Come ci si sente a essere il giocatore che ha fatto cambiare idea all’allenatore più radicale e, in un certo senso, integralista? Come ci si sente a essere il calciatore che ha ridato vita a una specie che si pensava estinta, la nobile casata dei centravanti? La risposta che Haaland dà ogni volta è la dimostrazione che non è una macchina (o che forse è una macchina estremamente raffinata), racconta il carattere che gli ha permesso di fare quello che ha fatto fin qui: «Non me ne frega niente. A me piace solo giocare a pallone».