Su Giuseppe Rossi c’è un aneddoto da forum che, vero o no, nella mia mente fa sempre capolino quando mi capita di sentire o leggere notizie su di lui, non ultima quella del suo ritiro, e che a mio avviso lo descrive meglio dei suoi gol più iconici, delle promesse che incarnava quando era un giovane prospetto o della sfortuna che lo ha tormentato per tutta la carriera. Si dice che il giocatore fosse a un party negli Stati Uniti al quale erano presenti anche altri sportivi, tra i quali Kobe Bryant. Leggenda narra che Pepito si sia avvicinato al campione NBA per salutarlo, ma che questi non avesse la minima idea di chi fosse. E, come lui, nessun altro dei presenti. Eppure, all’epoca Rossi era il siluro di punta del Villarreal, il sottomarino giallo più famoso al mondo dopo quello dei Beatles. Forse era addirittura la stagione 2010/11, quella dei 32 gol in 56 partite. Cifre che lo avevano reso la stella di quella squadra, e che oggigiorno lo renderebbero l’obiettivo di mercato ideale per una big alla ricerca di una attaccante atipico, ma tremendamente affidabile.
Razionalizzando, è facile spiegarsi perché Bryant possa non averlo riconosciuto. Allora il calcio era considerato – forse è così anche adesso – uno sport minore negli Stati Uniti, i due abitavano dimensioni di fama differenti, eccetera eccetera. Ma gli utenti di quel thread avevano sviscerato l’aneddoto, andando a mettere in parole quei fattori intangibili che a loro parere, in termini di star power, condizionavano negativamente lo status mediatico del giocatore. Tutte cose sulle quali Rossi avrebbe potuto fare ben poco, anche qualora si fosse intestardito a lavorare su di esse. Come il nominativo da personaggio dei libri di testo, la mancanza di una personalità sopra le righe, e – strano a dirsi, dato che in teoria si parlava di calcio – l’aspetto fisico. Per quelle persone, la sua assenza di magnetismo, il non essere belloccio e il taglio di capelli fai-da-te erano il motivo per cui Rossi non avrebbe mai potuto diventare un’icona in grado di trascendere i confini del proprio sport. Anche se gli infortuni non lo avessero fermato proprio sul più bello.
Se, se, se. È la congiunzione che spunta fuori sempre, quando si parla di lui. Ma il suo è uno di quei what if che si affaccia su scenari che non meritano di essere stroncati sul nascere per mezzo di nonni, palle e flipper. Perché Rossi, al suo apice, era un glitch capace di destrutturare le partite suddividendole in momenti dove, attraverso giocate desaturate, da studente del gioco tutto fondamentali e niente fronzoli, riusciva a crivellare lo strato di realtà fino a farlo cedere. Questa descrizione potrà suonare altisonante, frutto di una rivisitazione prodotta da quei bias che ci portano a mitizzare il passato, anche quello più recente. O magari il motivo per cui ci sembra stonata risiede in un altro bias, quello che ci spinge a parlare di Rossi solamente entro la sfera di quello che poteva diventare, dimenticandoci del fenomeno che effettivamente è stato. Siamo avidi? Siamo incontentabili? Negli occhi abbiamo più i suoi infortuni, il suo viso straziato dal dolore mentre agonizza a terra tenendosi il ginocchio, che i suoi gol. Gol belli, alcuni bellissimi per significato e impatto, ma tutti partoriti da una tecnica e un’applicazione così austere da farli sembrare noiosi. Reti specchio del loro autore, potremmo dire.
In uno sport a basso punteggio come il calcio, il gol, anche il più semplice da segnare, è una deviazione dall’immobilità dello stato iniziale, un picco sulla retta, qualcosa che sì, insomma, suscita un momento di disequilibrio. Assistere a un gol di Rossi era piuttosto come osservare il compimento di un’equazione. Riuscivi a immaginare cosa avrebbe fatto non perché avesse un repertorio limitato di mosse, o facesse sempre la stessa finta, ma perché le sue scelte erano un voto all’efficacia, un azzeramento funzionale della fantasia. Tuttavia, il suo ricorrere sempre alla scelta più logica, il prediligere la strada più breve, più sicura, per arrivare dal punto A al punto B, dall’azione del gol al gol stesso, erano l’espressione di un talento capace di declinarsi in base al contesto, e non di una limitante monotonia. Rossi amava sgusciare tra i difensori per ricevere la palla in corsa, spostarla quel tanto che bastava per raggiungere la distanza perfetta tra lui e il portiere, e aprire il piattone mancino per infilare il primo palo. Di gol così ne ha fatti moltissimi, così tanti da far sembrare le compilation delle sue reti una gif lunghissima. Ma alla logica, Rossi era in grado di addizionare una componente intuitiva estrosa, quando era la logica a richiederlo.
C’è un gol contro il Deportivo La Coruña che esprime quello che sto provando a dire. È la stagione 2015/16, il Levante è ospite al Riazor e gioca con una giallissima maglia da trasferta. Roba che uno spettatore distratto, vedendo Rossi muoversi in quel modo e con quella divisa addosso, potrebbe pensare di essere tornato indietro nel tempo, agli anni del Villarreal. Rossi va incontro al filtrante, riceve palla al limite dell’area e mentre la stoppa si accorge che un difensore avversario è in procinto di frapporsi tra lui e la porta, tra la sfera e la luce sufficiente per calciare bene. Sarebbe sufficiente spostare la palla in una qualsiasi direzione per perderla, perché l’avversario sta sopraggiungendo di gran carriera. Pepito decide allora di fintare una sterzata, usando la gamba destra come il velo di un prestigiatore. Il pallone resta lì quel tanto che basta per mandare la difesa fuori asse. L’affondo palla al piede che segue dura il tempo di sistemarla nel miglior punto possibile, ed è come guardare un cecchino che corregge il tiro del proprio fucile prima di lasciar partire il colpo. Rossi segna con il solito sinistro, ma il gol era fatto nel momento in cui la finta è andata a segno. Una finta di puro corpo che riesce a stupire ai livelli di un sombrero o di un elastico, nonostante il pallone, fulcro di tutto, sia lasciato ai margini.
Il video parte con il gol al Deportivo di cui abbiamo appena parlato, ma prima e dopo ci sono tante altre reti significative, nella carriera di Pepitp
Questa era il tipo di fantasia che Rossi poteva permettersi. Non perché non fosse abbastanza tecnico da fare cose più briose, ma perché la sua interpretazione del calcio rispondeva a principi economici, prima ancora che estetici. La frugalità dei suoi movimenti era un’estensione del suo essere vanilla, rispondeva a un ideale di efficienza richiesto a ogni attaccante, e, perché no, a un’idea di calcio molto italiana: quella di un gioco svuotato di ogni sua componente giocosa, dove tutto deve essere votato alla concretezza, al risultato finale, e qualsiasi forma di eccesso o colore è deprecabile, se fine a sé stesso.
Forse è anche per questo che Rossi, al di là del suo talento e della speranza che incarnava in ottica Nazionale, e al di là dell’empatia indotta dal calvario che ha dovuto affrontare, è stato così amato. Sebbene l’avidità e l’incontentabilità di noi appassionati continuino a farci pensare a lui nei termini di un’occasione mancata, cosa che – per carità – in parte è stato. Ma il punto è proprio questo: non lasciarsi accecare dalla luce che avrebbe potuto riversare in contesti più vicini al nostro cuore, ma essere grati per quella che ha sparso con i suoi gol nella realtà del campo.
Poi, è ovvio: l’amarezza e l’incazzatura per quello che non è stato non se ne andranno mai. Anzi, rimarranno più a lungo che in altri casi. Perché Rossi, nonostante non avesse il talento di Balotelli o di Cassano, è stato un esempio di quella serietà professionale che il pubblico, agli altri due, ha sempre rimproverato di non avere. E quando si deve determinare in che misura il giocatore merita perdono per i propri fallimenti sportivi, gli italiani utilizzano tale aspetto con kantiana severità, assieme alla categoria che concerne l’uso che si è fatto del proprio talento. Giuseppe Rossi non ha potuto godere del suo per via degli infortuni. Non l’ha sprecato, come l’opinione popolare ritiene sia stato il caso di Balotelli e Cassano, per fattori caratteriali. Ma non è questo, ciò che più alimenta il fuoco del rimpianto, dentro di me. O meglio, non è soltanto questo. Perché quando io penso alla distanza che separa Rossi dal campione che avrebbe potuto essere, penso anche e soprattutto alla distanza che intercorreva tra le sue gesta e la fruizione di esse da parte del pubblico, specialmente quello italiano.
In parole più semplici, un po’ rosico per il fatto che Giuseppe Rossi – benché sia nato e cresciuto in America nell’incolore stato del New Jersey, e non abbia mai fatto mistero di considerare Teaneck, giustamente, come la sua vera casa – sia poi esploso in un campionato estero, nella Liga, con addosso la maglia del Villareal, e non in Italia, dove col suo italianissimo e comunissimo cognome avrebbe finito col creare, in virtù di tutti gli aspetti analizzati e del suo background, un interessantissimo connubio tra normalità ed eccezionalità. Qualcosa di riassumibile nello slogan “l’ordinarietà al potere”, o simili.
Può bastare poco, a un giocatore, per entrare nel cuore di una tifoseria: nel caso di Pepito Rossi, 42 partite con la Fiorentina sono state sufficienti per diventare un idolo del Franchi
E chissà, magari Firenze e la Nazionale avrebbero potuto goderselo di più e meglio, se il giocatore avesse deciso di concentrare la sua carriera entro i confini nazionali prima del periodo d’oro vissuto in Spagna. Anche se poi fosse finito, chessò, alla Juventus come successo a Baggio, Chiesa e Vlahovic – passando dall’essere un Davide all’essere parte di quel Golia che, in un giorno d’autunno del 2013 di questa linea temporale, ha steso con una memorabile tripletta. E, a proposito della realtà che è effettivamente stata, chissà come sarebbe andata la sua carriera, se gli dèi del calcio non avessero deciso di fargli scontare con un nuovo infortunio l’apice raggiunto nella partita contro i bianconeri…
Se, se, se. Di nuovo quel maledetto “se”. Ecco, forse ora le persone alle feste lo riconoscerebbero. E gli chiederebbero selfie e autografi. E la cosa bella, la cosa divertente, è che lui probabilmente sarebbe lo stesso. Con il solito sguardo acquoso, l’espressione in viso che tradisce una certa timidezza, il taglio di capelli fai-da-te a incorniciarne i tratti comuni, ordinari, e la postura di chi è abituato a camminare sulle punte. Come se avesse paura di disturbare, di prendersi la scena. O di rompersi. Ma è stato bello. Sì, Pepito. È stato bello, nonostante dovesse durare di più.