L’apparizione di Buffon è stata un meteorite per il calcio italiano

Nei suoi primi anni, Buffon ha cambiato la percezione universale del ruolo del portiere. Con le sue doti soprannaturali, certo, ma anche con un carattere unico fuori dal campo.

Un giorno il mio amico Pedrini, sommo intenditore di vita e di portieri, ha scritto su Twitter una cosa che condivido: «Nella storia del calcio, Lev Jascin sta a Pelé come Manuel Neuer sta a Cruijff come Gianluigi Buffon sta a Maradona». Nel senso: Jascin e Pelé sono figure mitiche e ormai quasi retoriche, se ne parla da generazioni senza che nemmeno i loro contemporanei abbiano avuto il piacere di ammirarli dal vivo più di una decina di volte; li si mitizza sulla fiducia – del resto, in pochi oramai leggono la Bibbia pretendendo di fare fact-checking su quella faccenda dei pani e dei pesci. Proseguiamo con le analogie: né Neuer né Cruijff sono stati i migliori di sempre, ma l’evoluzione del calcio è senza dubbio passata dai loro princìpi di rivoluzione, insomma dalle loro idee; tutti e due hanno migliorato il gioco, rendendolo più dinamico e moderno. Quanto a Gigi e Diego, sono accomunati dall’ineffabile, lo stato d’animo dell’appassionato testimone: si può solo ammirarli, non imitarli, non prenderli a esempio di nulla. Anche l’ispezione delle loro giocate si lascia dietro una robusta percentuale di mistero. Come avrà fatto Maradona a segnare quella punizione impossibile alla Juventus? Come avrà fatto Buffon a respingere quel colpo di testa di Inzaghi che lo aveva colto in completo controtempo? La vivisezione frame by frame non dissipa alcunché.

A patto di conservare una buona memoria, uno dei privilegi dell’invecchiare è che cominci a ricordarti come sono iniziate le storie: eviti così di impelagarti in tutte quelle faide a vuoto sull’origine del mondo, con accenti drammatici degni del conflitto in Medio Oriente, di cui sono piene le fosse reali e digitali (ovvero i social). Sì: io ho un ricordo preciso della prima volta in cui ho sentito nominare Gianluigi Buffon. Avevo dieci anni e stavo guardando Guida al Campionato – per i più giovani, Guida al Campionato era il programma di Italia 1 della domenica all’ora di pranzo che presentava la giornata di Serie A che stava per iniziare. Sandro Piccinini si era collegato con Carlo Pellegatti da Parma e lui, con il suo tipico registro linguistico che esprime meraviglia anche quando sta ordinando un cappuccino, aveva detto: «A sorpresa Nevio Scala farà esordire in Serie A il giovanissimo Buffon». E me lo ricordo anche dopo, quando il giornalista che lo intervistava a Stadio Sprint esprimeva stupore per il livello stellare di questo ragazzino che ancora non aveva nemmeno la patente – per i più giovani, Stadio Sprint era la trasmissione RAI con le interviste agli allenatori immediatamente dopo il fischio finale delle partite, lanciando la volata a Novantesimo Minuto.

Fu chiaro a tutti in tempo reale che Buffon fosse un fenomeno, un alieno proveniente da chissà quale pianeta e rinvenuto in Italia per pura coincidenza come Superman nella fattoria di Smallville. Il teorico titolare del Parma era Luca Bucci, basso ma molto agile, assai apprezzato dal ct della Nazionale Arrigo Sacchi, ma certamente impotente di fronte all’avvento di uno dei primi tre portieri della storia del calcio. Nonostante i massicci investimenti della Parmalat, malgrado ogni estate partisse in prima fila nella griglia della Gazzetta, al suo Parma non riuscì mai il salto in alto definitivo: però Buffon piombava ugualmente nelle case degli italiani ogni tre giorni, alternandosi tra Serie A, Coppa Italia e Coppe Europee, approfittando felicemente della congiunzione astrale di sbocciare nel momento di maggior densità del calcio televisivo in forma gratuita.

Alcune apparizioni furono senza dubbio sconcertanti, come quando parò due rigori in Champions League la stessa sera, contro i campioni d’Europa al Westfalenstadion di Dortmund, stadio in cui in futuro si sarebbe tolto una soddisfazione ancora maggiore. A diciott’anni guidava un reparto che comprendeva Cannavaro e Thuram e guardava negli occhi le stelle più luminose del miglior campionato del mondo: parò due rigori in due campionati consecutivi a Ronaldo il Fenomeno, tirò giù la serranda in faccia a Baggio e Zidane. E la sera che debuttò in Nazionale, ragazzi della Generazione Z, dovevate esserci: a Mosca, sotto una tormenta di neve da Dottor Zivago, entrò dalla panchina in braghini corti per sostituire l’infortunato Pagliuca – e il suo sangue fu subito caldissimo, felino su un tiro a botta sicura di Alenichev, al culmine di un drammatico play-off Mondiale contro la Russia, in epoche in cui non si poteva nemmeno immaginare di saltare i Mondiali.

Buffon è durato talmente tanto da avere il tempo persino di non qualificarsi ai Mondiali, fingendo di piangere lacrime che non aveva, da capitano di una nave affondata – ruolo in cui ebbe molte più responsabilità di quelle che gli furono pubblicamente addossate, distratti tutti noi come eravamo dagli impresentabili Ventura e Tavecchio. È stato un colosso, un monumento cui è molto piaciuto stare sul piedistallo, infine anche un dinosauro da Prima Repubblica, di quelli che non se ne vogliono andare. Ha seguito l’istinto del portiere anche fuori dal campo, nel coraggioso proposito di non essere mai banale, e per questo ha preso delle scivolate epocali che lo hanno tormentato a lungo: dall’incauta frase «meglio due feriti che un morto», pronunciata nel pieno di uno scandalo scommesse, alle elucubrazioni politiche, pericolosamente confinanti col vaniloquio, con cui ha cercato – invano – di darsi un tono da maître-à-penser.

Perciò, se davvero Buffon sta a Maradona, allora bisogna prendere tutto il pacchetto, compreso l’ampio capitolo di controversie che fanno volume e dopotutto danno spessore al personaggio. I più piccoli ricorderanno soprattutto la brutta scena con l’arbitro Oliver, di cui non s’è mai pentito ufficialmente, e le ancora più deplorevoli dichiarazioni del post-partita, forse il momento di maggior bassa marea nel suo rapporto con gli italiani. Il prezzo da pagare per aver voluto diventare un simbolo della Juventus, averla accompagnata da campione del mondo e potenziale Pallone d’Oro nei campacci di Rimini, Mantova e Crotone, ha accentuato il suo carattere divisivo, gli è costato un gap di sintonia e simpatia che ora dovrà cercare di colmare rilanciandosi come simbolo di unità nazionale, magari come dirigente accompagnatore “alla Vialli”. Tutto questo però è quasi cronaca, riguarda gli anni di un lento e malinconico tramonto, quando ha cercato disperatamente di non arrendersi all’autunno illudendosi che fosse ancora primavera, infine tornando a Parma, non del tutto amato nemmeno dal pubblico locale che ne percepiva gli egoistici interessi personali.

Invece Gianluigi Buffon si è comportato da Grande Italiano fin dalle prime luci dell’alba: sbruffone, generoso, geniale e contraddittorio alla maniera di un Alberto Sordi, talmente lontano dalla razza umana tra i pali – guardatevi le compilation su YouTube, sono piene di interventi da togliere il fiato – quanto idealmente avvolto in un morbido bandierone tricolore nell’arte di lanciare il sasso e nascondere la mano come per il famigerato “Boia chi molla” scritto a pennarello sulla maglietta (Parma-Lazio, autunno 1999). Pagine oscure si sono intervallate ai suoi balzi prodigiosi fin dall’inizio, dal finto diploma di maturità conseguito in un istituto di Roma che dichiarò di non averlo mai avuto come studente (2000) a un parapiglia risalente al giugno 2001, a margine della finale di Coppa Italia Fiorentina-Parma. Rientrando a casa dopo la partita, si accodò al pullman degli ultras emiliani e diede un passaggio sulla sua Porsche gialla a un tifoso ricercato dalla polizia, ne protesse la fuga e venne infine a contatto con gli agenti. Episodio fieramente rivendicato qualche anno fa in un’intervista a Vanity Fair: «Dopo una partita diedi un passaggio a un tifoso del Parma. Al casello c’era un posto di blocco della polizia. Appena vide le luci blu, lui si dileguò. E a confronto con loro rimasi solo io».

L’eccezionalità di Buffon, vero erede e massimo esponente della tribù dei Cavalli Pazzi che hanno difeso i pali di squadre anche fortissime, da Albertosi a Tacconi, la capimmo subito. La Storia non rivaluterà un bel niente: Gigi ha avuto il privilegio, spettato a pochi, di essere enorme nel presente. Dove l’aggettivo “enorme” non è necessariamente un complimento: significa anche vistoso, rumoroso, impossibile da ignorare. Un’intera catena montuosa – del resto Buffon è nato alle pendici delle Alpi Apuane – frastagliata e irregolare, che ci fa venire voglia di scalarla e scavarla. Picchi e abissi giganteschi, un titano che avrebbe tanto da dire e dà spesso la sensazione di trattenersi – per esempio, qualche mese fa è stato spassoso sentirlo alla Bobo TV sdottorare a ruota libera, esaltare Thiago Motta e Totò Di Natale con un’allegra sincerità da bar che non appartiene più alla specie eletta dei calciatori.

Divertente, imbarazzante, emozionante, mai destinato all’indifferenza. Prima che diventasse juventino e dunque istituzionale per definizione, prima che vestisse i panni un po’ rigidi del Monumento Nazionale, il Buffon rivelatore è quello degli anni di Parma, quello che a 17 anni esce faccia avanti su Weah, temerario e spericolato, “e poi ci troveremo come le star”. Una parata sensazionale lo rappresenta più di tutto il resto. Il 23 maggio 2000 a Verona, nei minuti finali di uno spareggio Champions contro l’Inter che il Parma sta perdendo 2-1 e perderà 3-1. Parata inutile, dunque, ma di qualità abbagliante. Recoba riceve al limite dell’area e si mette in posizione di sparo nelle condizioni ideali: da fermo, zona centrale, palla perfettamente acchittata sul sinistro. Da lì il Chino è uso spolverare gli incroci dei pali di tutta Italia, e lì ha diretto la palla anche stavolta: ma Buffon, non si sa come, ci arriva. C’è bisogno del secondo replay, quello frontale, per apprezzare l’assurdità di quest’intervento. Ma l’inquadratura decisiva è apparsa qualche secondo prima: l’espressione sconcertata di Roberto Baggio con una mano sulla fronte, come un genio irregolare piovuto pure lui da chissà quale pianeta Krypton, che ha appena riconosciuto un altro della sua stessa specie.