Allyson Swaby ha fatto la storia del calcio giamaicano

Ha iniziato a giocare a calcio per divertimento, oggi è un'icona del calcio giamaicano.

Nel 2019, la Nazionale giamaicana femminile di calcio si qualificò per la prima volta nella sua storia ai Mondiali. Proprio com’era stato per gli uomini poco più di vent’anni prima, si trattò di un momento storico per l’intero movimento: un Paese con scarsa o nulla tradizione calcistica che cambia il corso sportivo della sua storia, cancellando barriere che sembravano immutabili. Se la Nazionale maschile, dopo il Mondiale di Francia 1998, non è più riuscita a qualificarsi per il torneo più importante al mondo, le Reggae Girlz, appena quattro anni dopo, ci sono riuscite di nuovo: c’era anche la Giamaica in Australia e Nuova Zelanda, ed era stata inserita in un girone tutt’altro che semplice con Francia, Brasile e Panama. Poi è riuscita a eliminare addirittura il Brasile, qualificandosi agli ottavi. Qui è stata sconfitta dalla Colombia, un’altra squadra-rivelazione del torneo, ma l’impresa è rimasta impressa nella storia. Non solo in quella della Giamaica.

«Se ripenso al Mondiale di quattro anni fa, è strano: quel torneo in testa mi sembra tutto sfocato», dice Allyson Swaby, capitana della Nazionale giamaicana. Nel 2019, Swaby era da poco arrivata nel campionato italiano, alla Roma: pochi mesi prima, giocava nelle serie minori islandesi, e ancora prima aveva solamente assaggiato il calcio a livello di college. Quattro anni più tardi, si è imposta come una delle migliori calciatrici del suo Paese e non solo, togliendosi qualche soddisfazione con la Roma prima di nuove avventure, con l’Angel City a Los Angeles e con il Paris Saint-Germain. «Questo Mondiale voglio godermelo appieno», continua. «Voglio vivere il momento, perché anche tra anni voglio ricordarmi che esperienza pazzesca è stata. Sicuramente arriviamo a questo torneo molto più mature rispetto a quattro anni fa. Metà delle giocatrici di oggi c’erano già nel 2019, ma l’ultima volta eravamo semplicemente felici di partecipare, stavolta scendiamo in campo per vincere. La nostra mentalità è cambiata. We’re confident».

Allyson Swaby è nata negli Stati Uniti, dove ha iniziato a giocare a calcio molto presto. Lo ha fatto anche al college, con le Eagles di Boston.

Swaby è appena diventata la nuova testimonial di Diadora, che vuole dare voce al calcio femminile e portarlo a nuovi livelli. In campo, anche in questi Mondiali, la giamaicana ha indossato gli storici scarpini Diadora Brasil: un modello icona della storia del calcio, indossato da campioni come Van Basten, Baggio, Inzaghi. Allyson si dice entusiasta del modello – «Sembra fatto appositamente per me, e poi questa qualità della pelle non è più facile trovarla oggi», dice. È un’evoluzione naturale e legittima: il calcio femminile si prende i suoi spazi, i suoi riferimenti, anche quelli che, fino a poco tempo fa, sembravano appannaggio del mondo maschile.

Allyson Swaby è nata negli Stati Uniti, nel Connecticut, da padre giamaicano e da madre inglese di origini giamaicane. Il calcio, nella sua vita, è stato sempre presente: «Onestamente, non ricordo la prima volta con un pallone tra i piedi. Non c’è stato un momento della mia vita in cui non ho amato il calcio. L’ho sempre adorato, per me è stato sempre un divertimento, mai un peso o qualcosa che mi metteva pressione». Ripensando a quegli anni, ricorda: «La difficoltà più grande, da giovane ragazzina nera, era che non vedevo nessun altro come me fare quello che facevo io. Ora, invece, a Los Angeles, eravamo nove giocatrici nere in squadra. A volte, nello spogliatoio, ci guardavamo e ci dicevamo: caspita, quante siamo!». Abbattere le barriere, ancora una volta: lo si può fare a livello di Nazionale, di sistema, ma anche individualmente. Ogni calciatrice ha la sua battaglia personale, che ha portato avanti negli anni: c’è chi ne ha voluto essere portavoce, chi invece se l’è tenuta per sé, ma è qualcosa che appartiene a tutte, indistintamente.

È anche per questo che la coscienza collettiva del calcio femminile – che spesso si è soffermata su aspetti come pari opportunità, equal pay, inclusività e diritti, argomenti che anche le giocatrici della Nazionale giamaicana femminile hanno dovuto negli ultimi anni affrontare di petto in prima persona – è molto più sviluppata che nel mondo maschile. Per ora, sottolinea Swaby, la grande differenza tra i due “generi” in materia calcistica la fanno in particolar modo gli investimenti: «Non si possono mettere a confronto calcio maschile e femminile: da una parte hai un mondo dove da anni e anni girano tanti soldi, dall’altra un sistema che si è appena messo in moto». Più attenzione, più visibilità, più coinvolgimento attorno al calcio femminile sono le leve in grado di attirare più investimenti e generare un circolo economico virtuoso, la strada maestra per professionalizzare sempre più il settore e colmare quel gap di genere.

Nel 2018, dopo una fugace esperienza in Islanda, ha giocato per quasi quattro anni in Serie A, con la maglia della Roma. Successivamente, ha indossato anche le maglie di Angel City e Psg.

Anche per Allyson, che nel prossimo ottobre compirà 27 anni, la prospettiva di diventare calciatrice professionista era tutt’altro che scontata. Anzi, all’inizio non ci pensava nemmeno: «L’idea di essere una professionista è arrivata molto tardi per me. Quando ero al college (a Boston, nda), per me il calcio era ancora un’occasione di divertimento. Poi sono successe una serie di cose: ci ho provato, ed eccomi qua». Proprio la Nazionale ha rappresentato il punto di svolta professionale: quando ancora non aveva deciso il suo futuro, Allyson è stata contattata dallo staff tecnico giamaicano per prendere parte alle qualificazioni per il Mondiale. Così la sua carriera ha preso il volo, imponendole anche di aggregarsi a realtà più professionalizzate del college: dopo qualche mese in Islanda, nel 2018 è arrivata alla Roma, dove ha giocato per quasi quattro anni.

«La cosa che mi ha subito colpito è stata quella di confrontarmi con uno stile di gioco totalmente diverso rispetto a come ero abituata», ricorda Swaby. «E poi mi è rimasta impressa la passione che avevano le mie compagne di squadra, in un modo che non avevo mai sperimentato prima. L’attaccamento alla squadra, l’orgoglio di indossare quella maglia, tutte cose che poi hanno contagiato anche me». Dopo la Roma, sono arrivate anche le esperienze con Angel City e Paris Saint-Germain: «Fare esperienze diverse, girare il mondo, sono tutte cose vitali per una giocatrice, perché ti misuri con vari stili di gioco. Anche come persona, ti insegna ad adattarti, a essere aperto». A non vedere più barriere.

Da Undici n° 51
Foto di Matteo de Mayda