Uno dei cavalli di battaglia di Beppe Grillo, quando era ancora soltanto un comico, era scherzare sull’onorevole Andreotti. Diceva: «Conosceremo la verità solo quando gli toglieranno la scatola nera dalla gobba». La scatola nera, per chi non lo spesse, è quel dispositivo presente negli aerei il cui contenuto dati, in caso di incidente, viene analizzato per capire le dinamiche che hanno condotto al disastro. Non credo di esagerare nel definire disastrosa l’annata 2022/23 di Andrea Belotti: potrà suonare un giudizio severo, cattivo – perché il Gallo sembra davvero un bravo ragazzo e una brava persona, un amico a cui il successo non ha dato alla testa – ma i numeri della scorsa stagione sono lì a dimostrarlo, e allora è giusto descrivere la sua esperienza gillorossa nei termini del fallimento. Per la Roma, per i fantallenatori che lo hanno comprato, per lui stesso. Roba che bisognerebbe davvero reperire la scatola nera del suo talento per vedere che cosa si sia inceppato, trasformandolo nell’ombra dell’ombra dell’attaccante che era.
Tuttavia, la doppietta rifilata alla Salernitana nella prima giornata della Serie 2023/24 ci ha restituito, almeno per il momento, il Belotti in carne e ossa, quello di cui ci eravamo dimenticati. È facile ora lasciarsi prendere dagli entusiasmi, parlare di rinascita, ma è altrettanto facile pensare, facendo peccato, che tutto questo possa essere qualcosa di estemporaneo. Un sorso d’acqua in mezzo al deserto. Dopotutto, un aruspice potrebbe farvi notare che in questa giornata ha segnato pure Charles De Ketelaere, un altro ragazzo a cui si vuole bene anche in virtù delle difficoltà che ha incontrato durante la sua prima stagione in Italia. Quindi forse domenica i pianeti si sono davvero allineati in favore di quei calciatori che l’anno scorso avevano contro Saturno, Marte e tutti i corpi celesti che vi vengono in mente. Un risarcimento immediato, uno strappo netto col recentissimo passato.
Ma il Belotti sceso in campo all’Olimpico contro la Salernitana è sembrato tutto tranne che una pedina degli astri: combattivo, frugale, ferino. Nell’azione del gol annullato ghermisce un bel lancio dalla fascia di Cristante e di controbalzo infila con una saettata mancina la porta difesa da Ochoa: è un caso dove l’acrobazia prodotta dall’aggancio e coordinazione al tiro è più bella del gol stesso – ammesso vi sia uno iato tra essi. Ma è anche fuorigioco. Vedere Belotti contrarsi di gioia, il volto serrato in un urlo liberatorio mentre correndo salta in aria e flette i muscoli delle braccia, per poi vederlo spegnersi subito dopo la decisione del VAR, beffato dall’ennesima gioia negata, è stato come assistere a un ultimo, sadico scherzo della sorte nei suoi confronti. Ma è stato lo stesso Belotti a tramutarlo nell’ultimo. Ci ha impiegato pochi minuti, come a dire che ne aveva avuto abbastanza di aspettare che le stelle girassero dalla sua parte. Su lancio dalla difesa di Llorente, Belotti usa il corpo per tagliare fuori il diretto marcatore, fa rimbalzare il pallone – prendendo così in controtempo l’ultimo uomo della difesa avversaria – lo sfiora col destro quel tanto che basta per addomesticarlo, se lo sposta sul mancino utilizzando il ginocchio e poi chiude da pochi metri, da padrone dell’area.
Stavolta non ci sono dubbi. La secca è finita e Belotti si lancia in un’altra spontanea e liberatoria esultanza, lontana dalla trademarkiana e impostata gestualità della cresta mimata con le mani, prima di abbracciare i compagni. La gioia del momento è troppo intensa per incanalarla in una taunt o per scordarsi del calvario prestazionale che l’ha preceduta. Per dimenticarsi di quanto ogni periodo di magra, breve o lungo che sia, possa racchiudere l’inferno. Quello di Belotti è durato una stagione intera. L’equivalente calcistico del digiuno di Cristo nel deserto. E chissà se nel momento in cui si è visto annullare il gol, ha avuto la forza di pensare che Dio, quando chiude una porta, lo fa per aprire un portone. Quella porta che per lui è rimasta chiusa per 34 giornate.
Il gol di Belotti
C’è qualcosa di così paradossale in un attaccante che non segna mai che suona banale dire che è paradossale. C’è chi finisce col farne uno scudo, un marchio del proprio stile di gioco, come a suo tempo fece Emile Heskey, centravanti di peso ex Liverpool, che ammise – forse con onestà, forse per pararsi il culo – di preferire il lavoro sporco, come giocare di sponda, liberare gli spazi per i compagni, al gol. Del resto «feai della tua debolezza un’armatura e nessuno potrà più usarla per farti del male» è quanto consiglia Tyrion Lannister, un nano, a Jon Snow, un bastardo, nell’episodio pilota de Il Trono di Spade. Invece Belotti, l’anno scorso, ha continuato a farsi del male a ogni giornata, perché non esiste giocata al servizio della squadra che possa compensare il senso di pace trasmesso da un gol, che possa eguagliare la serenità data dall’aver fatto il proprio dovere di attaccante. E prima ancora che da un punto di vista calcistico, suscitava dispiacere a livello umano vedere Belotti disperarsi con fare stoico a ogni occasione fallita. Mordendosi le labbra, chinando la testa in basso senza lasciarsi andare a sceneggiate o a reazioni di frustrazione, ma continuando imperterrito a schiantarsi contro la propria fallibilità. Nel rispetto del suo passato, nel nome della responsabilità a cui un centravanti deve adempiere.
Forse, in un’annata così difficile, oltre al duro lavoro, è stata la sua educazione cattolica ad aiutarlo nella gestione pubblica di un momento del genere. Quella tipicamente italiana, fatta di silenzi, repressione degli eccessi, dominazione degli istinti, ma che Belotti sembra aver assimilato senza storture, proiettandola in un sentimento di fede candido e in una pratica di preghiera quotidiana. Lo scorso anno, in una squadra come la Roma di Mourinho, i compiti svolti da Belotti somigliavano a penitenze, atti di espiazione. Le sportellate con i difensori, le sgroppate fino a centrocampo, i salti a svettare sui marcatori per conquistare il pallone e spizzarlo verso i compagni: tutte azioni fondamentali per la squadra, certo, ma incarnanti la lontananza che lo separava da ciò di cui avrebbe avuto maggior bisogno – il gol. Compiti tanto ingrati quanto necessari a colmare la distanza da una rete, o da un ipotetico, fantomatico e vendicativo dio del calcio. Una divinità da antico testamento, di quelle che possono essere avvicinate o ingraziate solo attraverso la sofferenza più autentica.
Chissà se il Gallo deve essersi sentito come un Giobbe qualsiasi, o come un personaggio di Space Jam, quando si è ritrovato incapace di segnare. Avrà maledetto sé stesso, l’universo, il karma? Quest’ultimo sa essere crudele come neanche certi sceneggiatori di Hollywood. A tal proposito, di tutti gli errori sottoporta che lo scorso anno ne hanno segnato la stagione, ce n’è uno che è la trasposizione calcistica della legge di Murphy. Lo scenario è Roma-Torino, 15esima giornata di Serie A, 92esimo minuto: Belotti è sul dischetto del calcio di rigore. Pronto, oltre che a interrompere la striscia di reti bianche e a riportare il risultato in parità, a troncare col suo passato ricorrendo al classico gol dell’ex. Spiazza Milinkovic-Savic, ma colpisce il palo. Belotti affonda il viso tra le mani. Lo sconforto è autentico. Forse in quel momento ha pensato che non avrebbe mai dovuto lasciare la propria comfort zone, o che il salto in una squadra più grande avrebbe dovuto farlo prima, magari nell’estate 2017, quando per lui Cairo voleva minimo 100 milioni ed era accostato al Milan, al Manchester United, a un’idea di attaccante che avrebbe potuto sistemare un reparto offensivo da solo – 26 gol in 35 presenze, quell’anno, non certo cifre da ultimo arrivato.
Negli Stati Uniti, per un errore del genere, lo avrebbero definito un chocker. In Italia, che siamo sempre più drastici, gli hanno dato del finito. Invece Belotti visto contro la Salernitana, come detto, è sembrato di nuovo se stesso. Repentino, duro, decisivo. Non solo nelle piccole cose – come in questa azione in cui, circondato da tre avversari, protegge palla come se ne andasse della sua intera carriera, dribblando, cadendo, scivolando, prendendo fallo, infine – ma anche in quelle importanti, finalmente: con uno scolastico ma provvidenziale colpo di testa su cross da calcio d’angolo di Paredes ha salvato la Roma da una partenza negativa, nonché il suo ritorno al gol da una narrativa imperniata sulle gioie interrotte, fini a sé stesse.
L’esultanza stavolta è più contenuta, ma non meno simbolica: per un attimo si esalta, agita frenetico le braccia, poi quando la telecamera lo inquadra da vicino si è già ricomposto. Corre indicando la curva, si bacia entrambi i bicipiti, abbraccia i compagni. C’è sollievo nel suo volto. Ci sono ancora sembrano dire i suoi occhi. Più a sé stesso che agli altri, a dire il vero. Ma chissà. Pur senza malizia, questi due gol potrebbero essere visti anche come una risposta ai dubbi nutriti su di lui dalla Roma, alla ricerca di un attaccante. Con Tammy Abraham che ne avrà ancora per molto vista l’entità del suo infortunio, questa stagione sarà per Belotti il banco di prova che ristabilirà qual è la sua dimensione.
Si parla di “ristabilire” perché si sa: nel mondo e nel calcio odierno, dove la memoria è corta, viene naturale ridurre il valore complessivo di un giocatore alla sua prestazione più recente – a maggior ragione se negativa – col rischio di dimenticare, nel caso specifico, che Belotti ha già dimostrato di essere un attaccante validissimo. Ma il calcio, specialmente quello contemporaneo – ossessionato dall’idea che l’eccellenza sia tale solo quando ripetuta a ogni occasione – vive di quel meccanismo tossico e darwiniano che è alla base delle prove di virilità di cui scrive Edoardo Albinati nel suo romanzo vincitore dello Strega La scuola cattolica. Ossia: non importa quante volte dimostri di essere un uomo, un maschio duro e puro. Alle prove successive, che non finiranno mai, dovrai dimostrarlo ancora e ancora, senza mai fallire.
Per un attaccante come Belotti, che negli ultimi anni sembra essere rimasto incastrato in un limbo non solo ambientale – il provinciale Torino – ma anche identitario, metà top player, metà incompiuto, il vuoto lasciato da Abraham e le esigenze della Roma potrebbero rappresentare la prova definitiva. Specie dopo una stagione che l’ha visto pendere verso l’incompiutezza. Anzi, che l’ha visto precipitare verso di essa. Per ora, il Gallo è tornato a cantare. Lo ha fatto tre volte – due se si dà retta, com’è giusto che sia, al tabellino ufficiale – e lo ha fatto non per rinnegare un messia, ma la versione sterile di sé stesso. Ora la parte più difficile, la riconferma, lo attende al varco. Magari la sua storia non è ancora finita.