Sognando Palestina

Una a Betlemme, l’altra a Ramallah, Diyar e Sareyyet sono le più importanti squadre di calcio femminile in Palestina. Un reportage tra speranze e molte difficoltà: la religione, i pregiudizi, la politica.

Questa sera a Ramallah soffia un vento freddo. È metà maggio ma la bella stagione è in ritardo. All’ingresso del campo da calcio della Friends School un carrettino vende caffè bollente mentre le calciatrici fanno riscaldamento correndo sull’erba sintetica. «È difficile per una giovane donna giocare a calcio in una società sessista», dice Leen Khoury, 16 anni, attaccante del Sareyyet Ramallah, tornando verso la panchina. «Vero, e qui viviamo anche l’occupazione», le fa eco Jessica Salameh, 22 anni, capitana della squadra con il numero 23. Oggi giocano un’amichevole con la squadra maschile della Football Stars Academy di Ramallah.

Nel mondo, il calcio è ancora uno sport principalmente maschile. Nonostante negli ultimi decenni la crescita del calcio femminile a livello globale abbia permesso alle donne di conquistare spazio e visibilità in questo sport, la strada da fare è ancora lunga. Certo la discriminazione di genere è una barriera da abbattere ovunque, ma in ogni regione si realizza in forme diverse. La realtà delle giovani donne che praticano il calcio in Palestina offre un punto di vista unico.

Dal cortile principale dell’Università Dar Al-Kalima di Betlemme, dopo aver attraversato uno stretto passaggio, dietro una fioritura di rose, si apre la palestra dove si allenano le ragazze del Diyar Bethlehem. Alcune sono già a bordo campo «oggi faremo un allenamento misto, le più giovani under 16 con le ragazze della prima squadra» dice Marian Bandak, 33 anni, manager del Diyar per il settore calcistico. Arrivano anche le ultime ragazze e inizia il riscaldamento «in questo modo prepariamo le più giovani a passare ad un livello più alto» spiega Farah Zacharia, 35 anni, che allena le squadre femminili.

Una a Beltemme, l’altra a Ramallah, Diyar e Sareyyet sono le più importanti squadre del calcio femminile palestinese. Tra i due club c’è una certa rivalità, ma per queste giovani donne le sfide si giocano su altri piani e si affrontano insieme. Molte atlete cresciute nelle fila delle rispettive squadre infatti arrivano ad indossare la maglia della Nazionale.

Tra queste c’è Loreen Tanas, 24 anni, che oggi torna ad allenarsi con il Diyar dopo sei mesi di stop. Ha appena finito il turno al ristorante dove lavora, sale le scale di corsa e apre la porta dell’appartamento dove vive con la sua famiglia, su una delle principali arterie di Betlemme. Sulla grande tavola del salotto c’è una teglia di Kafta, sua madre riordina la cucina. «Fin da piccola giocavo a pallone con gli altri bambini in strada», racconta Loreen, seduta al divano accanto a suo padre che tiene in braccio la nipotina. «Sono entrata in una squadra di pallamano e nel 2012 Marian mi ha notata e invitata a giocare a calcio per il Diyar». Marian allora giocava nella Nazionale palestinese, di cui è stata anche capitano con il numero 10. «All’inizio», racconta Loreen, «ho dovuto affrontare molti pregiudizi perché il calcio è considerato uno sport per ragazzi, e noi ragazze non potremmo stare in calzoncini». Mentre racconta, Ibrahim, suo padre, la guarda e annuisce «come genitori», dice, «abbiamo sempre sostenuto la sua scelta». Loreen continua: «È un problema di mentalità qui in Palestina, io accetto me stessa per quello che sono, ma in molti casi la pressione della società maschile fa perdere alle ragazze la sicurezza in sé stesse». Nel 2015 Loreen ha esordito in Nazionale: «I tornei internazionali hanno rafforzato il nostro carattere, confrontarci con l’esperienza delle calciatrici di altri paesi è servito a renderci ancora più determinate nel seguire i nostri sogni». Ma anche raggiungendo questi traguardi la vita rimane complessa, Loreen oltre a giocare per il Diyar e per la Nazionale, lavora e studia. Dice: «Mi sto laureando in scienze motorie, in modo da continuare a lavorare in ambito sportivo, non solo come calciatrice. Vorrei andare in Europa, magari in Spagna».

Nella palestra chiusa rimbombano i palloni quando colpiscono il muro e la traversa. Una dopo l’altra le ragazze del Diyar si alternano negli incroci sfidando la portiera, alcune tirano bordate, ma c’è anche chi osa affrontarla da vicino. Nessuna palla entra nella rete. «No goal!», grida trionfalmente Cynthia Botto, 21 anni, a terra dopo aver parato l’ultimo tiro di Loreen che, ripreso il pallone, lo manda in porta con un tocco, sorridendo.

Marian segue l’allenamento dagli spalti, indossa una maglia del Barcellona. «Come manager devo anche organizzare i viaggi all’estero. È complesso con i visti, gli spostamenti per volare dalla Giordania». Ma pensa che ne valga la pena: «La prossima settimana le ragazze volano in Germania, per uno scambio organizzato dalla città di Colonia, sarà una grande esperienza!». Oggi Marian ha un figlio piccolo, ma il calcio è sempre stato la sua vita.«Quando giocavo mettevo il calcio avanti a tutto», ride, continuando a guardare il campo, «saltavo gli esami per giocare! Tutte facevamo così, la nostra generazione ha dovuto farsi spazio. Piangevamo quando perdevamo un allenamento. Ora è diverso, le più giovani vivono una situazione differente».

Appena prima della partita le ragazze del Sareyyet Ramallah si riuniscono a bordo campo per ascoltare le indicazioni dell’allenatrice, Claudie Salameh, 33 anni, ex capitana della Nazionale con il numero 7. Dà le ultime istruzioni con ampi gesti della mano, gli occhi carichi di energia. Natal Bahbah, 16 anni, è arrivata al Sareyyet a settembre, prima giocava nel Beit Hanina, a Gerusalemme Est. Per partecipare agli allenamenti viene in taxi tre volte la settimana a Ramallah dal quartiere arabo dove abita con la sua famiglia a Gerusalemme. «Sono almeno un’ora e mezza all’andata e altrettante al ritorno, a meno che Israele non chiuda i checkpoint e allora niente allenamenti. La mattina poi ho la scuola», dice Natal prendendo un sorso d’acqua, «ogni volta devo attraversare il muro, passare i controlli a Qalandia oppure a Hizma. Fare sport è una cosa normale, ma non qui».

Leen ha parte della famiglia a Ramallah dove studia, ma vive anche lei a Gerusalemme Est. Con Natal sono amiche, erano nella stessa squadra già prima di passare al Sareyyet e, come sempre, anche stasera torneranno insieme in taxi verso casa. «Spesso molte di noi partecipano a tornei internazionali, sia per club come la Norway Cup, sia con la nazionale». Ad aprile Leen e Natal sono Volate in Vietnam con il resto della squadra nazionale Under 17 per le qualificazioni della AFC U17 Women’s Asian Cup che si giocherà nel 2024 in Indonesia. «Laggiù», racconta Leen, «ci chiedevano se eravamo del Pakistan, perché non pensavano che la Palestina fosse un Paese! Per noi viaggiare è sempre molto complicato».

La partita inizia, è il momento di entrare in campo. Nei primi dieci minuti la partita si svolge tutta nella metà campo dei ragazzi della Football Stars Academy, le ragazze giocano duro in attacco e li mettono sotto pressione «Questo è l’unico campo regolamentare in cui possiamo allenarci a Ramallah», dice Taima Osama, 16 anni, senza staccare gli occhi dal gioco, «tutte le squadre vengono qua e a volte dobbiamo andare altrove». Seduta in panchina indossa la maglia numero 10, per Ammar Jalayta, allenatore della Nazionale è una delle migliori giocatrici. Con un respiro profondo riprende a raccontare: «A volte ci alleniamo allo stadio Faisal Al-Husseini di Al-Ram, che è proprio a ridosso del muro, capita che i militari israeliani sparino granate lacrimogene in campo, solo per non farci allenare, a volte i vicini ci tirano le bottiglie. Smette per un attimo di seguire il gioco e ci guarda negli occhi. «Potrei raccontarvi molte di queste storie». L’Associazione calcistica palestinese affiliata alla FIFA ha denunciato che proprio in quello stadio di Al-Ram lo scorso 30 marzo una gara ufficiale è stata interrotta dal lancio di lacrimogeni da parte delle forze israeliane.

Al fischio conclusivo l’amichevole si chiude uno a zero per i ragazzi della Football Stars Academy, ma Claudie fa i complimenti alle ragazze, hanno giocato bene per tutta la partita. Mentre le altre salgono sul minivan della squadra, Leen e Natal prendono posto nel taxi. Nella fila al checkpoint di Qalandia le due ragazze mangiano la cena che si sono portate da casa e scherzano, un ragazzo si avvicina all’auto, vende zucchero filato confezionato, ma la sua voce è coperta dalla sirena di un’ambulanza che prova inutilmente ad avanzare nell’ingorgo di auto. «Ci siamo abituate», dice Leen con amarezza. Arrivati al posto di controllo cala il silenzio, la sbarra di apre però in un attimo. L’auto adesso va dritta a casa, le luci dell’autostrada brillano, Leen ascolta la musica, Natal per la stanchezza chiude gli occhi.

Da Undici n° 51
Foto di Giacomo Sini