Non sempre viene ricordato, eppure il Triplete dell’Inter nacque grazie a Roberto Mancini. Era l’11 marzo 2008, era alla quarta stagione sulla panchina nerazzurra. L’Inter fallì la rimonta al Liverpool nel ritorno degli ottavi di Champions. Perse a Milano 1-0, gol di Fernando Torres. Il Mancio scese in sala stampa e invece di prepararsi a subire il processo mediatico per quell’eliminazione, ribaltò il tavolo: «Vi dico una cosa, e la dico in italiano perché tanto agli inglesi non interessa. Questi sono gli ultimi due mesi e mezzo per me sulla panchina dell’Inter, anche se ho quattro anni di contratto». Bum. Mancini in purezza. Quella fu la sera in cui Massimo Moratti capì che con lui in panchina non sarebbe andato da nessuna parte. E allora in gran segreto avviò i contatti per arrivare a José Mourinho. Qualche settimana dopo portò a casa lo scudetto all’ultima giornata – grazie a Ibrahimovic sotto la pioggia di Parma – e ripagò Mancini con la stessa moneta. Lo fece fuori senza dirgli niente. E due anni dopo vinse la Champions. Fu, quella, una delle poche volte in cui a Mancini non riuscì la fuga improvvisa. Uno schiaffo in pieno volto senza possibilità di scampo. Forse uno dei momenti più duri della sua carriera.
Roberto Mancini da Jesi, 58 anni, ha attraversato il calcio italiano da protagonista. Non proprio da primattore, sempre il personaggio incompreso. Controverso. Ombroso. Sfuggente. Da prima pagina ma mai realmente l’uomo attorno a cui costruire un film. Il suo è sempre stato il ruolo del controcorrente. Ma non nel senso di scomodo. Men che mai contro il potere. Più nel senso di capriccioso. Lontano da Cantona, dall’impegno politico, per capirci.
Talento precoce, esordio a 16 anni in Serie A con la maglia del Bologna, ha sempre diviso la platea. C’era chi stravedeva per lui, calciatore dai mezzi tecnici importanti, tocco sopraffino, viso imbronciato, sempre sul punto di sbuffare. E c’era chi invece lo tollerava poco, pur riconoscendone il grande talento (del resto era impossibile non riconoscerlo). Bisognava innamorarsene per sopportarlo. E Paolo Mantovani, irripetibile presidente della Sampdoria, se ne innamorò. Perdutamente. Per quindici anni ha deliziato la Marassi blucerchiata. La sua coppia con Vialli è storia del calcio, non solo italiano. Quando erano in giornata, facevano piangere anche Baresi e Maldini. La Sampdoria di Mantovani era il suo habitat. Veniva trattato da principe, nessuno gli chiedeva di vincere. Tanto divertimento, poche pressioni. Boskov l’allenatore ideale. Non a caso con la Nazionale Mancini non ha mai avuto feeling. Non c’era nessuno a coccolarlo. Men che mai a considerarlo unico e imprescindibile. L’unico fu Azeglio Vicini che si impuntò contro tutto e contro tutti e lo schierò titolare all’Europeo 1988. Di lui, in quel torneo, si ricorda solo la corsa sotto la tribuna stampa per il vaffa ai giornalisti dopo il gol alla Germania.
Mancini ha spesso avuto bisogno di un nemico. I giornalisti venivano al secondo posto. I primi erano gli arbitri. Memorabile la sua rincorsa al tedesco Schmidhuber che fischiò l’inesistente punizione che costò alla Samp la finale di Coppa dei Campioni del 1992 contro il Barcellona di Koeman. Gli disse di tutto, si beccò cinque giornate di squalifica. Si ricordano anche i tre minuti di insulti reiterati all’arbitro Nicchi (sì, lui) che gli negò un rigore contro l’Inter. Si tolse la fascia di capitano, aggirandosi per il campo col ditino puntato e quando fu cacciato salutò Marassi come a dire: “me ne vado, la mia storia qui è finita”. Un grande classico del Mancio. Che, non dimentichiamolo, in tempi di Covid è stato un riferimento per il popolo no vax. Pubblicò la vignetta negazionista che ritraeva un uomo in un letto d’ospedale e l’infermiera che gli chiedeva: “hai idea di come ti sei ammalato” e lui: “guardando i telegiornali”. Scoppiò un putiferio. Le sue uscite crearono non poche tensioni col ministero della Sanità. Alla fine si scusò. È finito anche nell’ampia inchiesta del giornalismo investigativo sui paradisi fiscali.
Il potere ha sempre avuto un debole per lui. Come se i ricconi del pianeta ci tenessero a esporre la sua statuina. Sergio Cragnotti lo volle alla Lazio, prima come calciatore e poi in panchina. Il suo esordio da allenatore fu un caso politico. Approdò alla Fiorentina a febbraio 2001. In teoria non avrebbe potuto guidare una squadra di Serie A, non aveva il patentino. L’associazione allenatori si schierò contro il suo incarico, ma per lui scese in campo la Federcalcio allora guidata dal commissario straordinario Gianni Petrucci (sì, l’attuale presidente della Federbasket). Che concesse una dispensa speciale e il Mancio si accomodò in panca. Agroppi gli diede del raccomandato. A rincorrerlo c’erano voci sui suoi rapporti privilegiati con l’allora potentissimo Cesare Geronzi, banchiere di Capitalia, e sua figlia. Sulla sua vicinanza alla potentissima Gea la società di Moggi che dominava il calciomercato e influenzava le carriere. Per dirla cinematograficamente, la Gea erano i Jep Gambardella del pallone: non volevano solo partecipare alle campagne acquisti, volevano avere il potere di farle fallire.
Alla Fiorentina vinse una Coppa Italia ma in fondo rimase appena 32 partite. Finì male, con gli ultras che lo aggredirono. La sua carriera di allenatore era comunque partita. Approdò alla Lazio di Cragnotti, poi all’Inter di Moratti dove vinse gli scudetti post-Calciopoli. Infinite le polemiche che lo hanno avuto come protagonista. Occorrerebbe un libro per ricordarle tutte. Quattro stagioni al Manchester City dove vinse la prima storica Premier del club (gli altri due campionati erano stati vinti prima della nascita della Premier). E ancora Galatasaray, il ritorno all’Inter, lo Zenit. Sembrava quasi dimenticato per il calcio di prima fascia.
Ma mai sottovalutare le risorse del Mancio. Nel 2018 l’incarico in Nazionale dove portò un vento di diversità. Da noi, dare spazio ai giovani è rivoluzionario. E lui lo fu. L’Italia del calcio era sotto shock per la mancata qualificazione ai Mondiali. Ebbe libertà assoluta. E lavorò benissimo. Ricreò il clima Sampdoria e si prese la rivincita della vita a Wembley. Vinse l’Europeo nello stadio dove aveva subito la delusione più dolorosa della sua vita professionale: la sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni. E la rivincita riuscì a prendersela con l’amico di una vita: Gianluca Vialli. Se avesse saputo leggere i segni del destino, avrebbe compreso che l’obiettivo era stato raggiunto. Si era compiuto un ciclo e un disegno. Proprio lui che sostiene di aver avuto in sogno l’apparizione della madonna di Medjugorie, quel segno non lo colse.
Invece ha proseguito e le cose sono andate come sappiamo. Fino all’ultima fuga. La più roboante. Addio alla Nazionale nel bel mezzo dell’estate. Alla sua maniera, da vittimista, da complottista, accuse al mondo. In realtà la verità sembra molto più banale: ha ricevuto un’offerta che in tutto il globo avrebbero rifiutato in cinque, al massimo in sei. Ha salutato e se n’è andato. Oggi in tanti lo detestano. Ma la vita è lunga, il tempo stempera i ricordi. E questo Mancini lo sa bene.