Decarbonizzazione, efficientamento energetico, gestione delle acque. Sono parole che non fanno spesso le prime pagine dei giornali, ma tre leve fondamentali per indirizzare l’industria e il pianeta sui binari migliori per il futuro. A pochi chilometri da Milano, nei laboratori di Bolgiano, ci sono ricercatori che si occupano di questo. Abbiamo incontrato Carmela Sarli – ingegnere per l’ambiente e il territorio, in Eni dal 2006 e responsabile dal 2019 dell’unità Business Partner – Natural Resources, come interfaccia tra Ricerca e la Direzione Natural Resources – e Filomena Castaldo – ingegnere chimico, arrivata in azienda nel 2013 dopo un lungo percorso accademico e attualmente responsabile del cluster di attività relative alla cattura, utilizzo e stoccaggio dell’anidride carbonica, con il compito di unire aree tecniche e business interessati – che ci hanno raccontato come si lavora alla transizione energetica.
«Seguiamo un approccio in filiera, facendo ricerca tecnologia su singoli segmenti dei percorsi energetici e industriali, in modo da abilitare l’intera filiera. Per chi si occupa di research&development, questo è il metodo da seguire». Descrive così la propria attività Sarli. Concorda con lei Castaldo, che sottolinea quanto gli sforzi collettivi facciano la differenza quando si tratta di ricerca sperimentale. Un lavoro in team a tutti gli effetti quindi, proprio come per gli sport di squadra, quello portato avanti dai ricercatori e dalle ricercatrici del Centro Ricerche di San Donato Milanese della multinazionale, inaugurato nel 1985 nella frazione di Bolgiano.
Uno dei sette centri della società da sempre attenta allo sviluppo di progetti e tecnologie innovative in grado di contribuire in maniera determinante alle sfide che il settore energetico si trova ad affrontare. Le persone Eni impiegate qui a Bolgiano per la sola ricerca sperimentale sono circa 290, una cifra che si attesta al di sopra dei 1000 se si considera l’intera penisola. Eni crede fortemente nella ricerca e investe nella realizzazione di brevetti proprietari, sceglie di fare ricerca applicata all’interno dei propri laboratori e partecipa a iniziative di partnership – 70, in tutto – con le maggiori università italiane – Bologna, Roma, Basilicata, Politecnico di Milano e Torino – e con il Centro Nazionale di Ricerca. Considerati i risultati – sono quasi 8000 i brevetti Eni ideati e progettati – uno sforzo che pare essere largamente ripagato.
Nei laboratori di Bolgiano, Sarli si occupa anche di acqua. «Il tema della disponibilità di acqua dolce rivestirà un ruolo sempre più rilevante nel prossimo futuro e per questo l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite ha inserito tra i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile l’accesso sicuro alla risorsa idrica. Attualmente oltre due miliardi di persone vivono in condizione di scarsità idrica e si stima che al 2050 una persona su due non avrà accesso stabile all’acqua potabile. Migliorarne l’uso e valorizzarne le applicazioni diventano quindi imperativi fondamentali. L’impegno di Eni in questo senso – e il mio campo specifico d’indagine – è appunto tripartito: concentriamo la nostra ricerca in tutte e tre le fasi che compongono il processo di gestione delle acque – efficientamento, riutilizzo e valorizzazione. Per quanto riguarda l’efficientamento, stiamo lavorando nella direzione di: consolidare i processi fisico-chimici e sostituire laddove possibile, processi chimici con processi biologici e sviluppare processi avanzati e digitali per la caratterizzazione e monitoraggio ambientali. In fase di riutilizzo, l’obiettivo da perseguire è quello della circolarità: una volta depurata, l’acqua può essere nuovamente impiegata, all’interno dello stesso processo o in settori industriali adiacenti. L’industria agricola può, per esempio, utilizzare i reflui civili dopo specifici trattamenti per alimentare i propri sistemi di irrigazione. Infine, valorizzare le acque significa recuperare al loro interno elementi di interesse industriale: vogliamo elaborare trattamenti e tecnologie capaci di catturare i cosiddetti minerali critici (rame, nichel, litio, cobalto e i metalli rari), elmenti fondamentali per far avanzare la transizione energetica».
L’ambito di ricerca di Castaldo è, invece, quello della cattura, utilizzo e stoccaggio dell’anidride carbonica, un insieme di tecnologie comunemente conosciute con l’acronimo CCUS (Carbon Capture, Utilization and Storage). Una volta separata dagli altri gas, l’anidride carbonica viene catturata, compressa e trasportata dove può essere riutilizzata o immagazzinata. «Investire nella ricerca in ambito CCUS significa sviluppare nuove tecnologie in grado di contribuire alla decarbonizzazione andando a diminuire i costi di filiera. La sfida maggiore si registra nella fase di cattura della CO2: più della metà dei costi dell’intero processo arriva da qui. In Eni stiamo quindi mappando tecnologie di cattura già esistenti, dalle più commerciali a quelle industriali, e parallelamente lavoriamo allo sviluppo di una nostra tecnologia, che si basa sull’utilizzo di miscele solventi innovative contenenti liquidi ionici. La ricerca e la tecnologia sono molto importanti anche per la fase di stoccaggio (CCS).
Grazie alla sua vasta esperienza nella modellistica numerica per lo sviluppo di campi di idrocarburi, Eni applica algoritmi innovativi di simulazione che permettono di studiare le interazioni tra CO2 e roccia e di simulare nel tempo le migliori soluzioni per lo stoccaggio, in relazione alle caratteristiche geo meccaniche e geochimiche del giacimento. Tali approcci sofisticati sono possibili solo grazie all’utilizzo di un software proprietario e alla potenza di calcolo disponibile nel Green Data Center Eni a Ferrera Erbognone. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, nel 2050 il 95% della CO2 catturata sarà destinata allo stoccaggio: individuare dei giacimenti adatti risulta pertanto fondamentale.
Per quanto riguarda invece l’utilizzo, in laboratorio stiamo brevettando una tecnologia di mineralizzazione: vogliamo, cioè, replicare, velocizzandola, una reazione che avviene spontaneamente in natura tra la CO2 e alcuni silicati. Il prodotto che si ottiene – inerte, stabile e non tossico – può essere candidato come materiale per le formulazioni del cemento, dopo un semplice trattamento di post-sintesi. La CCUS permette quindi di decarbonizzare i processi industriali, soprattutto quelli dei settori energivori o hard to abate, le cui emissioni dipendono dagli stessi processi di produzione e per questo difficili da eliminare. Ridurre la quantità di anidride carbonica emessa nell’ambiente significa avanzare, di fatto, nel percorso di transizione energetica».