Noah Lyles sta cambiando il modo in cui gli sportivi parlano di loro stessi

E non solo: lo sprinter americano vuole cambiare anche la percezione e lo spettacolo dell'atletica leggera.

Durante il primo episodio della serie The Unseen Journey, disponibile gratuitamente su YouTube, Noah Lyles si trova a un incontro promozionale. E deve rispondere alle domande di una platea eterogenea, non esclusivamente legata al mondo dello sport e a quello di USATF, acronimo di USA Track & Field, l’associazione di atletica leggera degli Stati Uniti d’America. E allora non sorprende che, verso la fine dell’improvvisata conferenza stampa, gli venga chiesto quale sia la ricetta che ha utilizzato per gestire, nel corso degli anni, i frequenti challenging days, vale a dire le inevitabili giornate difficili che capitano a un atleta del suo livello.

Rispondere a quella domanda, per Lyles, è un’occasione: per promuovere la propria disciplina e la propria immagine, certo, ma anche per uscire dalla comfort zone. Nelle sue parole, infatti, è totalmente assente la roboante epica gladiatoria dello sportivo che non deve lasciarsi scalfire, pena il declassamento a fallito. Lyles, piuttosto, racconta in modo disarmante la sua insospettabile fragilità: un modo per disinnescare, anche con una certa semplicità, la narrazione contemporanea per cui certi agonisti sarebbero – o dovrebbero essere – come Übermensch, privi di macchie e punti deboli. «Chiamo mia madre. Poi la mia terapista. Poi ovviamente mia madre chiamerà la mia terapista per sapere di che cosa abbiamo parlato». Questa è la risposta, secca e sorprendente di Noah Lyles. Che poi verrà ampliata e motivata con attenzione nel primo episodio della seconda – attesissima, almeno tra gli appassionati – stagione di Unseen Journey: «Se il pubblico vede solo le vittorie, i trionfi, le giornate di gloria potrebbe trovarsi a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato nell’avere momenti e giornate negative. Dobbiamo mostrare i nostri “up and down” per non farli sentire soli. Per non farli sentire sbagliati».

L’unicità dell’atleta originario di Gainesville, Florida, forse sta proprio nella naturalezza e nella maturità con la quale sa affrontare il suo ruolo sotto i riflettori. In un tempo in cui tutti si sentono dei supereroi, e vengono raccontati come tali, questa antiretorica è capace di deragliare fuori dai canoni che siamo abituati ad accostare agli atleti professionisti. E non può che far piacere a coloro che guardano allo sport o che se ne fregano, che siano o non siano fan di Noah, che seguano o non seguano l’atletica leggera.

A Budapest, qualche settimana fa, Lyles ha conquistato i titoli mondiali dei 100 e dei 200 metri piani: solo quattro sprinter, prima di lui, avevano raggiunto questo doppio traguardo. In più, ha vinto anche l’oro nella staffetta 4×100. Tutti questi trionfi, per Noah, hanno anche un altro significato: è come se li utilizzasse come uno strumento per promuovere la crescita globale dell’atletica. Nonostante la (fondata) ambizione di superare Usain Bolt e i suoi record mondiali, infatti, il vero obbiettivo di Nojo18 – pseudonimo utilizzato da Lyles per pubblicare regolarmente la sua musica – sembra quello di voler regalare una piattaforma totalmente nuova alla sua disciplina, in modo che possa raggiungere il maggior numero possibile di persone. «Il nostro è uno sport, e in quanto tale è anche intrattenimento. Io voglio che le persone si divertano nel venirmi a vedere dal vivo. Se c’è una singola cosa di cui posso vantarmi è che, se vieni a vedere una mia gara, ogni volta avrai modo di assistere a qualcosa di diverso, te lo assicuro. Ci sarà sempre un momento che non ti aspettavi», ha dichiarato in una lunga intervista a GQ Sports.

Quello di Lyles, si può dire, è un programma vasto. Che vuole rivoluzionare, per sempre, il mondo dell’atletica. E, quindi dello sport. Partendo dalla gestione degli eventi: «Credo sia necessario organizzare delle attività per rendere le gare più divertenti di atletica. Trovo limitante regalare solo due ore di spettacolo ai nostri fan quando la giornata dura 24 ore. Vorrei che ogni meeting venisse vissuto come una festa. Dovremmo farci ispirare dall’NBA sotto questo punto di vista». Si passa poi alla questione relativa al professionismo: «Sono d’accordo con Michael Johnson: siamo arrivati a un punto dove chiunque è professionista. So quanto ho lavorato per arrivare dove sono oggi. Dobbiamo mettere una linea, uno standard da raggiungere per poter essere e potersi definire professionisti».

Per raggiungere i suoi obiettivi – e anche per far parlare di sé e dell’atletica – Lyles è disposto anche a mettere a segno qualche colpo basso e fuori dai tracciati consueti. Come quando ha detto, sempre parlando di NBA, che «la squadra che vince il titolo si autodefinisce campione del mondo. Ma gli Usa non sono il mondo». L’aver messo in discussione l’abitudine delle squadre vincitrici della NBA di fregiarsi dell’appellativo di “World Champions” ha scatenato, come era facilmente prevedibile, la replica di alcune tra le stelle più in vista della lega: Kevin Durant, Devin Booker, Aaron Gordon, Draymond Green. Per Lyles, che ha visto le sue treccine – l’acconciatura è stata studiata con attenzione maniacale prima di Budapest, in modo che Noah ottenesse il maggior comfort possibile a livello aerodinamico – e il suo ormai celebre «World Champions of what?» trasformarsi in un contenuto virale tra Instagram, Tik Tok e Facebook, si è trattato di un enorme spot. Difficile, quindi, pensare che non sia stato tutto previsto e studiato a tavolino da lui e dal suo entourage. In ogni caso, anche se fosse stata un’uscita davvero spontanea, una pubblicità gratuita di tale portata per l’atletica leggera non si vedeva dai tempi di Usain Bolt, dei suoi record straordinari.

Il trailer della seconda stagione di The Unseen Journey

Noah Lyles fa dello spoken into existence, della fiducia nella forza del pensiero e nella bontà del proprio lavoro quotidiano, i principali tratti distintivi della sua carriera e della sua personalità. A febbraio scorso, prima della gara sui 60 metri al New Balance Indoor Grand Prix di Boston, è riuscito a visualizzare in anticipo come sarebbe andata la gara. E l’ha fatto ancor prima di raggiungere i blocchi di partenza. Il merito va anche a Diana Mcnab, la sua Sports Perfomance Consultant – definita a più riprese semplicemente “terapista”. I fatti, in ogni caso, dicono che Lyles ha corso in 6,51 secondi: il suo nuovo record personale.

In un’epoca in cui si tratta di sport e sportivi in un modo molto paludato e prudente, dove nessuno parla mai male di nessuno, dove l’omologazione e il conformismo sembrano essere sempre la scelta più intelligente da fare, Noah Lyles è una ventata d’aria fresca. E a chi gli chiede cosa succederebbe se la sua rivoluzione non dovesse andare a buon fine, lui risponde con un sorriso laconico e con parole sincere, dirette, perfettamente nel suo stile: «A chi importa? Ci ho provato. E se non ci riuscirò torneremo a provarci, ancora, ancora, ancora».