Ti amerei anche se vincessi

Tifare per per il Genoa significa vivere in uno spaziotempo alternativo.

In queste settimane circola un video di TikTok in cui alcune ragazze chiedono ai loro fidanzati quante volte alla settimana pensino all’Impero Romano, e si divertono moltissimo sentendosi rispondere cinque, o magari, tutti i giorni. Chissà come le stesse ragazze reagirebbero se avessero un fidanzato genoano, e gli chiedessero quante volte alla settimana pensa alla tripletta messa a segno da Diego Milito nel derby 2009. E se la risposta fosse sincera, intendo. Anche in assenza di quel tipo di riscontro, una cosa è meglio chiarirla subito. Tifare Genoa non significa seguire il calcio, né tantomeno occuparsi di calendari, classifiche, scudetti, retrocessioni (beh, retrocessioni veramente sì): significa seguire il Genoa, punto. Il che comporta addentrarsi in uno spaziotempo alternativo, di esclusiva proprietà del Genoa Cricket and Football Club 1893, e fatto a sua immagine e somiglianza.

Un luogo singolare, dove i campionati sono solo un fastidioso e prolungato intralcio ai sogni, le squadre avversarie un ectoplasma che prende corpo giusto per i 180 minuti l’anno in cui la Figc costringe a incontrarle, e i risultati un pedante referto di esclusivo interesse degli ufficiali di gara. A noi, è noto, sono tutto sommato indifferenti. Sì, quella sera la Fiorentina ce ne avrà anche fatti quattro: ma noi siamo saliti sul Principessa Mafalda con l’ottavo scudetto sulle spalle, siamo sbarcati a Buenos Aires, e abbiamo pareggiato 1-1 con l’Argentina. Loro no. D’accordo, era il 1923: ma sono dettagli, e chi li fa notare proprio non ha capito. Cosa? Semplice, le leggi dello spaziotempo di cui sopra. Genova, stadio Luigi Ferraris, 16 settembre 2023, incontro Genoa-Napoli. Prima del match, come ormai d’abitudine, si spengono le luci, si accendono i cellulari, e trentamila fedeli urlano il nuovo inno della squadra, che è anche una molto veritiera autobiografia collettiva: Ho un guasto d’amore.

Una scena altamente contemporanea, si direbbe. Non fosse che appena si riaccendono le luci l’occhio cade su uno striscione molto vistoso, anche se rudimentale, che invoca “Giustizia per lo scudetto 24/25”. Per i non cognoscenti sarebbe quello assegnato al Bologna in un modo piuttosto rocambolesco, in base al presupposto che nell’Anno Terzo della nuova era la Nazione non potesse accettare un altro stemma – ehm, il decimo – sul petto di una squadra fondata da svizzeri e inglesi, con un nome straniero, e piena di sudamericani: insomma, irrimediabilmente cosmopolita. Il tempo di pensare per la nonsoquantesima volta che sì, per quello scandalo giustizia andrebbe fatta, ed entrano le squadre. Sgomento.

Nel 2011 il Genoa è stato inserito nell’International Bureau of Cultural Capitals, una sorta di patrimonio sportivo storico dell’umanità, in seguito alla richiesta del presidente dell’ente, Xavier Tudela. Nel 2013, quando ha compiuto 120 anni dalla fondazione, il Grifone è stato ammesso nel “Club of Pioneers”, associazione riconosciuta dalla FIFA che raggruppa i club di calcio più antichi del mondo.

Quella di casa indossa, a memoria di tutti per la prima volta, una maglia gialla, anziché rossa e blu. Sono cose che altrove succedono – basti pensare a quello che si sono messe addosso in questi anni, cito a caso, Juve, Inter e proprio il Napoli – ma che qui si immaginava fossero, più che inaccettabili, improponibili. E invece. E invece, quando già molti prevedevano una gogna immediata e feroce per lo sponsor tecnico, qualcuno deve avere pronunciato la formula magica: «Belin, ma è la terza maglia del Boca». In realtà era la terza maglia del Genoa, che però accade sia identica alla terza del Boca. E siccome noialtri si considera il Boca una prosecuzione del Genoa con altri mezzi – si tratta pur sempre di una squadra fondata da genovesi, in un quartiere dove fino a non moltissimi anni fa lo statuto dei Vigili del Fuoco imponeva alle reclute del corpo una prova di dialetto scritto e orale – beh, apriti cielo.

Ora, se tutto questo vi ricorda quella che il dottor Freud chiamava una formazione delirante, è perché la ricorda. Con una differenza: mentre le formazioni deliranti sono cicliche e ripetitive, il tifo genoano si evolve – negli ultimi tempi, a una velocità che desta qualche preoccupazione. L’arrivo di tre ragazzi americani molto benestanti, sbarcati a Genova con l’aria di saper decifrare un Keynote Apple, ma di perdersi nei bizantinismi del fuorigioco, è infatti sembrato fin da subito una rottura radicale col passato recente. Forse troppo radicale, però. Nel giro di settimane, dal guardare dal basso Südtirol e Lumezzane si è passati a guardare dall’alto Psg e City, nella convinzione incrollabile che in questo genere di cose conti la visione. I fatti, come le salmerie di Napoleone, seguiranno.

Lo stemma del Genoa è composto dalla croce di San Giorgio – simbolo di Genova fin dai tempi delle Repubbliche Marinare – e dal Grifone, figura araldica e mitico animale nato da un incrocio tra un’aquila e un leone. L’attuale logo è in vigore dal 2022, quando ha subito un piccolo restyling.

Per fortuna di tutti noi, e del nostro residuo senso di realtà, c’è l’altra squadra – l’unica, in fondo, con cui interloquiamo. Non le riconosciamo un nome, questo è vero, e date le sue conclamate origini rionali, nemmeno il diritto a chiamare i nostri scontri diretti derby. Scontri diretti non sono peraltro in programma per un pezzo, dato il recente passaggio dell’altra squadra a categoria inferiore. Ma proprio in quella circostanza, e in particolare nei tormenti che abbiamo ritenuto nostro dovere infliggere, sono emersi magnifici lampi di quello humor nero – o anche, umor nero – che è sempre stato il tratto più irresistibile della genoanità, e che sarebbe un peccato se l’euforia di questi mesi mettesse in archivio. Uno risale ai giorni immediatamente successivi al lieto evento, quando un genio purtroppo anonimo ha messo in rete una clip dalla più celebre commedia di Gilberto Govi, I maneggi per maritare una figlia. Sulla sinistra dell’inquadratura si vede l’aspirante genero di Govi, sotto il quale il genio ha tracciato, col pennarello dell’iPhone, le quattro strisce blucerchiate. Sulla destra c’è Govi, che invece ha sotto una striscia rossa e una blu. Fatti coraggio, dice Govi all’aspirante genero. Ma perché, risponde lui, è successo qualcosa? Qui Govi si produce nel suo inimitabile repertorio di smorfie, che introducono un altrettanto inimitabile, benché sintetica, tirata: «No che non è successo qualcosa, ma nella vita è sempre meglio farsi coraggio. Così quando poi succede qualcosa uno si può sempre dire, “Ben, però io mi son fatto coraggio”».

Mi sembra un antidoto sufficientemente efficace all’attesa ormai messianica, non si capisce neanche bene di cosa, che oggi si respira in città. Ma nel caso non bastasse, suggerirei una rapida ristampa dell’adesivo da motoretta un tempo più esibito da tutti noi, che conteneva un’eloquente e altera dichiarazione di poetica. Era mezzo rosso, mezzo blu, aveva un grifone giallo in alto, e subito sotto una scritta, gialla anche lei e bella grossa. Diceva così: TI AMEREI ANCHE SE VINCESSI.

Da Undici n° 52
Foto di Gaia Cambiaggi