Perché Ted Lasso è la miglior serie calcistica mai fatta

Non è una serie fatta ad hoc per gli appassionati di calcio. E meno male.

Il calcio è, allo stesso tempo, lo sport più televisivo di tutti – le partite sono state belle da guardare in tv sin da subito, anche in bianco e nero, e oggi il livello è altissimo – e lo sport raccontato peggio dalla cinematografia e della serialità. Non ricordo un film sul calcio che non abbia guardato speranzoso, con il cuore felice, e che non mi abbia fatto praticamente schifo. A memoria, correndo molti rischi, escludo da questa lista solo Fever Pitch – Febbre a 90 (che in effetti è più un film sul tifo che sul calcio), Fuga per la vittoria perché ci ha recitato Pelé e L’uomo in più di Paolo Sorrentino. C’è un po’ di calcio in tanti film di Sorrentino e si sente la presenza del pallone, e di Maradona, anche in È stata la mano di Dio. Ma è solo un accenno, una pennellata bellissima. Poi su Apple Tv è arrivato Ted Lasso, una serie in tre stagioni che racconta il calcio con una trama molto particolare: lo sbarco in Premier League di un allenatore statunitense che ha esperienza solo nel football americano, e neanche ai massimi livelli. A ingaggiarlo è il Richmond, club di Londra frutto della fantasia degli sceneggiatori. L’assunto da cui partire nell’analizzare questo prodotto, un’opera straordinaria per tutta una serie di motivi, è proprio questo paradosso: Ted Lasso è una serie sul calcio scritta e pensata per piacere a persone che di calcio non sanno niente, o ne sanno poco più di niente. Per gli appassionati, invece, la questione è un po’ più complessa.

Il primo grande pregio della serie è la rinuncia immediata e totale a qualunque spirito di cronaca. I risultati del Richmond vengono raccontati, ma non sono mai un fine: rappresentano solo il mezzo per dirci qualcosa sui protagonisti. Non seguiamo ogni partita, la classifica nel dettaglio, i pareggi, le crisi, i successi. Lo facciamo solo dall’alto, sorvolando l’aspetto sportivo ed entrandoci solo quando questo è funzionale alla narrazione emotiva. Le emozioni, appunto, sono al centro di una serie che ha il grande privilegio di essere attuale. Nell’ultima puntata in assoluto, Ted Lasso (interpretato da Jason Sudeikis) compra dei giornali e paga utilizzando il metodo contactless del suo iPhone: un piccolo dettaglio che mi ha colpito perché, pensandoci bene, non lo avevo ancora mai visto fare in un film. L’essere attuale di Ted Lasso, però, si rivela proprio per come tratta la sfera emotiva. A partire dalla salute mentale degli sportivi: «Non se ne parla mai abbastanza», dice Ted in una conferenza stampa. Ma poi si arriva al coming out di un giocatore della squadra, si passa per il tentativo abortito di creare una nuova Super Lega, si raccontano gli alti e bassi schizofrenici del mondo del calcio, i rapporti con la stampa, quelli tra compagni e avversari.

Ted Lasso è l’assoluto dominatore della serie, i suoi attacchi di panico sono raccontati con una dovizia di particolari notevole e resi alla perfezione anche con l’utilizzo di effetti e video. Raramente mi è capitato di vederli così ben descritti sullo schermo e contestualizzati in maniera puntuale e coerente con la narrazione. Ted ha sempre l’ironia e la spudoratezza necessarie per prendere in giro il mondo del calcio e le sue contraddizioni: odia i pareggi, li trova senza senso, non si capacità del perché arrivando quarti in campionato si possa giocare la Champions League e impara alla perfezione la regola del fuorigioco solo all’ultima puntata della terza stagione. Senza fare spoiler: il Richmond non vince per forza, Ted Lasso non è il protagonista di una favola, non cerca un lieto fine forzato, una rimonta, una vittoria epica; vive la sua vita e reagisce come può ai momenti di difficoltà. C’è una puntata in cui Ted forse esplode nel senso più positivo del termine, ed è la penultima della terza stagione: sua madre arriva dagli Usa per passare un po’ di tempo con lui e Ted la manda letteralmente a fanculo. Questo sarà il modo perfetto per dimostrarle che le vuole bene: una lezione di vita, di rapporti, la fotografia perfetta del rapporto quello che molti maschi adulti vivono hanno con la loro madre.

Vicino a Ted orbitano alcuni personaggi ben scritti ma con i meccanismi tipici della sit-com. Per esempio Willis Beard (Brendan Hunt), il coach apparentemente scontroso e stravagante; Leslie Higgins (Jeremy Swift), direttore sportivo sbadato e goffo ma innamorato del Richmond; Dani Rojas (Cristo Fernández), attaccante messicano che non fa altro che sorridere. Diverso il discorso invece per la presidentessa Rebecca Welton (Hannah Waddingham), una donna a capo di un club di calcio dentro una lega dove impera il maschilismo, e per Keeley Jones (Juno Temple), ex modella e wag che intraprende una carriera nel mondo del marketing. Sono loro che reggono il confronto con Ted, per la libertà che mostrano in ogni scelta, anche quando non prendono la direzione giusta. Sono due donne che lottano sempre per qualcosa: contro l’ex marito, per il Richmond, per la carriera, per un amore, per provare a far stare meglio gli altri. Piccola parentesi con il profumo di spoiler: la storia di Rebecca con Sam Obisanya (Toheeb Jimoh), terzino destro nigeriano del Richmond, è una delle sottotrame migliori. Per l’idea del social network grazie a cui si conoscono – banalizzando: un Tinder in incognito e senza foto – e per la delicatezza con cui nasce, cresce e per come si risolve.

Una menzione speciale la meritano Jamie Tartt (Phil Dunster) e Roy Kent (Brett Goldstein), due personaggi apparentemente agli antipodi che in realtà si somigliano molto. Jamie è una stella in ascesa con una spiccata vocazione al glamour e alla televisione; Roy, invece, è un campione reduce dagli anni Novanta e sul viale del tramonto. Proprio questo aspetto è piuttosto interessante: Ted Lasso è la prima serie che affronta il disagio di una stella che si trova davanti all’abisso del fine carriera, del “E adesso che faccio?”. E lo fa con una certa profondità, facendogli fare i conti con se stesso.

Il coro

Infine, ma non per poca importanza, c’è Nathan Shelley (Nick Mohammed), l’unico personaggio totalmente favolesco di tutta la serie: parte brutto anatroccolo, si trasforma in principe azzurro, poi diventa lupo cattivo e alla fine invece ritorna da Cappuccetto Rosso. È una persona che si fa amare e odiare in maniera viscerale, la sua parabola si conclude grazie a uno dei luoghi chiave di tutta la serie, A Taste of Athens, il ristorante preferito di tutta la sua famiglia. Nathan è il wonderkid che Ted crea dal nulla. O meglio: è il coach a cui Ted fa vedere chi e cosa può diventare. Lui vola vola vola fino al sole. E, proprio come Icaro, si brucia le ali. Riuscendo però in un inaspettato atterraggio di emergenza.

Il fatto che Ted Lasso non sia una serie scritta e girata per gli appassionati di calcio rappresenta anche un limite. La Premier League e il multiverso che le gira intorno, pensiamo alla recitazione di Henry, alla partecipazione finale Pep Guardiola, alle convocazioni in Nazionale, ai giornali, alle trasmissioni di approfondimento e  agli sponsor, vengono restituiti in maniera abbastanza fedele. Ma resistono diversi movimenti di scrittura stereotipati e semplicistici: intanto, una parte consistente della serie non può contare sulle licenze ufficiali dei club del massimo campionato inglese, nemmeno del nome della lega e delle divise degli arbitri, e allora l’effetto diventa quello di vecchi film italiani come Mezzo Destro Mezzo Sinistro o L’allenatore nel pallone, fatte le dovute proporzioni. Anche gli stadi vengono rappresentati in maniera spoglia almeno fino alla terza stagione, in cui le cose migliorano in modo deciso – perché, appunto, arrivano le licenze ufficiali. E poi ci sono delle trovate narrative che arrivano a essere grottesche: l’applicazione degli schemi da football americano, il rigore killer di Rojas contro la mascotte, le conferenze stampa di Ted, un’amichevole giocata in mezzo alla stagione in Olanda contro l’Ajax e tanti piccoli dettagli che un calciofilo integralista fatica a metabolizzare.

Poi l’aspetto più delicato: gli attori sono credibili come calciatori? Generalmente sì, e va riconosciuto un grande salto di qualità rispetto alla media dei prodotti a cui siamo abituati. Ma alcune dettagli risultano indigeribili: Roy Kent, per esempio, è un campione affermato, ha giocato i Mondiali, è stato capitano del Chelsea ma non sa correre; in ogni scena in cui accelera e si avvicina alla palla è incredibilmente goffo e meccanico, sembra un attore di teatro scadente che va in over performance per far vedere a tutta la platea che lui sta davvero correndo. Lo stesso vale per Isac McAdoo (Kola Bokinni), che diventerà anche capitano nel Richmond nel corso della serie e che non ha un fisico adatto per un calciatore di Premier League, figurarsi per un terzino: sembra più un attempato bomber di Seconda Categoria degli anni Novanta, anche peggio di Ailton ai tempi del Werder Brema.

Ted e Walt Whitman

Inoltre la Londra che viene rappresentata è una città piccolissima e provinciale, più vicina al set di The Truman Show che a una metropoli: ci sono dei momenti, specialmente le puntate più lunghe nel cuore della terza stagione, in cui ci si sente soffocare, in cui viene voglia di alzarsi e dire usciamo da questo pub, usciamo da questo quartiere. E se l’ambientazione geografica rimane sempre un po’ troppo accartocciata su sé stessa, quella intellettuale è una fisarmonica che si apre a dismisura: Ted e tutto il suo staff sono una fabbrica continua e brillante di riferimenti, citazioni, aneddoti e rimandi. È tutto divertente ma a volte risulta eccessivo, anche perché perché molti riferimenti sono decisamente lontani dalla nostra cultura. Questo non è un difetto della serie, piuttosto una circostanza, ed è giustissimo che ogni opera d’arte si porti dietro un immaginario proprio. L’unica pecca di questa ricchezza è che a volte il racconto ne risente, rivelandosi troppo pesante.

Al netto di tutto questo, e di un finale che avrei preferito più compassato, Ted Lasso è una delle serie migliori che mi è capitato di vedere negli ultimi tempi. Ho cercato immediatamente il merchandising ufficiale del Richmond sul sito della Nike – è praticamente esaurito – e ho avuto la tentazione fortissima di dedicare a Ted il nome della mia squadra al fantacalcio. È senza dubbio il prodotto migliore di fiction che abbia mai visto sul calcio e lo è proprio perché il calcio rimane sempre il grande pretesto per parlare d’altro. Sarebbe bastato solo qualche dettaglio in più, due pennellate appena, per fare in modo che anche lo sport più amato – e controverso – al mondo venisse rappresentato al meglio. Allora grazie Ted, e forza Richmond per sempre. Adesso, per rovinare tutto, serve solo un bel remake italiano. Magari con Claudio Amendola che va a guidare la Roma in Serie A dopo una vita passata al Pigneto ad allenare la squadra di calciotto del quartiere.