Parlare di ludopatia in un Paese di scommettitori

Le scommesse sono dappertutto, in Italia, anche nelle trasmissioni sportive in prime time. Che senso ha, allora, demonizzare dei ventenni che hanno sbagliato?

Si potrebbe pensare che, se rapportata alla lunga storiografia degli scandali veri o presunti legati al pallone, l’ennesimo caso rubricato sotto la lasca (e imprecisa) definizione di “calcioscommesse” non sia poi questa grande notizia. Eppure, nel terremoto mediatico innescato dall’iscrizione di Tonali, Zaniolo e Fagioli sul registro degli indagati c’è un elemento di novità abbastanza vistoso: un grottesco e disfunzionale intreccio tra giustizia, calcio, scrittura creativa e psichiatria. Basta sfogliare le pagine di un giornale, sbirciare un sito o seguire il pernicioso hashtag #calcioscommesse per rendersi conto di come, nel racconto della cosiddetta “inchiesta sul betting illegale” (così è stata ribattezzata dalla maggior parte dei quotidiani italiani) il termine “ludopatia” abbia finito per acquisire una rilevanza assolutamente centrale. 

Il pathos degli eventi narrati dipende pressoché interamente dalla capacità delle parti in causa di strumentalizzare il significato di questa parola, piegandolo agli obiettivi che intendono perseguire. Ad esempio, se assumiamo il punto di vista degli avvocati chiamati a difendere i calciatori coinvolti e dei procuratori che curano i loro interessi, l’accertamento di questo disturbo diventa una questione puramente utilitaristica. La ludopatia è il perno supremo della loro strategia difensiva, il grimaldello giuridico che potrebbe determinare l’agognata incapacità di intendere e di volere dei loro assistiti e, di conseguenza, una limitazione dei danni piuttosto consistente. Non è un caso, insomma, se diversi articoli parlano già di un Tonali che «ha deciso di farsi aiutare da un terapista»: la rincorsa disperata del vizio di mente è l’unica scorciatoia percorribile per ottenere sconti di pena, umana comprensione e una parziale riabilitazione agli occhi dei tifosi.

Chi si pone al di fuori della cerchia elitaria e iper specializzata degli azzeccagarbugli, invece, si arrangia come può, approcciando questo termine con gradi di intensità diversi. I più rumorosi sono ascrivibili a quella porzione di opinione pubblica un po’ giustizialista e manettara che spera nella tolleranza zero e nelle peni esemplari, ritenendo inverosimile che calciatori così ricchi, giovani e di belle speranze possano inciampare in un malessere di questo tipo e mettere a repentaglio la propria carriera: la loro tesi è che ludopatia faccia rima con deresponsabilizzazione. 

Dall’altro lato della barricata c’è uno schieramento che agita lo spauracchio dell’emergenza sottaciuta: dal loro punto di vista, il gioco d’azzardo sarebbe l’ennesimo male endemico e silenzioso che rischia di inficiare la reputazione del calcio nostrano, un virus sotterraneo colpevolmente sottovalutato che avrebbe finito per diffondersi a macchia d’olio, contagiando un’intera categoria di professionisti da tempi non sospetti, il tutto nel silenzio generale. Tra questi due poli si colloca una sorta di “terza via” che parla della ludopatia come di un male accessorio a una problematica più grande e di stampo, come dire, “sociologico”. In un’intervista a Repubblica, Aldo Serena ha riassunto alla perfezione il paradigma di questa scuola di pensiero: «Non credo sia soltanto ludopatia. Ho paura che questa vicenda ci racconti qualcosa di più ampio sulla nostra società, qualcosa che ci riguarda come adulti e come genitori di persone sempre più fragili».

Il problema è che, al netto di tutte le spettacolarizzazioni e i giochi linguistici del caso, quando parliamo di ludopatia parliamo anzitutto di un disturbo della mente che ha alle spalle una letteratura scientifica consolidata. Quando un termine medico viene sdoganato fino al punto di venire utilizzato come espediente narrativo le cose si complicano: per dirla basaglianamente, il rischio di “romanticizzare la malattia” aumenta in modo esponenziale. 

In psichiatria il dibattito attorno a questa parola è talmente minuzioso e cervellotico che, spesso, viene messa sotto scrutinio la stessa opportunità di utilizzarla. Ad esempio, nella versione più recente del DSM, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali redatto dall’American Psychiatric Association, la ludopatia viene definita un sinonimo non preferenziale di “gioco d’azzardo patologico” (G.A.P.), termine reputato più valido dal punto di vista medico–scientifico. Rientra nella categoria diagnostica dei disturbi del controllo degli impulsi, quelli caratterizzati dalla presenza di azioni o gesti incontrollabili. In particolare, chi è affetto da questa patologia presenta un «comportamento problematico persistente o ricorrente legato al gioco d’azzardo» che «porta a disagio o compromissione del funzionamento individuale clinicamente significativi». Utilizzare un termine così preciso e metodico richiede, per forza di cose, uno sforzo di problematizzazione: rientra nello spazio di quelle che solitamente definiamo “cose serie”, che serie rimangono anche quando riguardano una nicchia di professionisti privilegiati e distaccati dalla realtà come quella dei calciatori. 

Secondo le ultime notizie, Nicolò Fagioli sarebbe pronto a patteggiare una pena: un passaggio necessario è l’ammissione di avere avuto e di avere problemi con il gioco d’azzardo (Marco Luzzani/Getty Images)

Se usciamo dalla dinamica polarizzante del momento e teniamo per buona una premessa abbastanza ovvia, ossia che nessuno ha il potere di diagnosticare un disturbo psichico sull’onda della pura e semplice sensazione, la sola cosa di cui può rimane lecito discutere è il contesto. Ad esempio, prima di azionare la macchina del fango e calarli nei panni di ennesimi capri espiatori di tutti i mali del calcio italiano, bisognerebbe considerare che calciatori come Tonali, Zaniolo e Fagioli sono cresciuti in un paese in cui scommettere sul calcio è un qualcosa di molto vicino a un fatto sociale. Anche i numeri sono a favore di questa interpretazione: secondo una ricerca diffusa dall’Osservatorio Nomisma, nel 2020 il volume complessivo del gioco d’azzardo ha raggiunto gli 88,38 miliardi di euro, 11 dei quali derivanti dalle scommesse sportive. Sempre stando ai risultati dell’indagine, nello stesso anno il 42% dei ragazzi tra i 14 e i 19 anni ha giocato d’azzardo almeno una volta, sviluppando nel 9% dei casi pratiche di gioco problematiche, con ripercussioni negative sulla sfera socio-emotiva e relazionale. A conferma che alle nostre latitudini giocare non è una devianza, ma un comportamento assolutamente normalizzato.

La tendenza alla “mandrakata” è entrata a far parte del nostro ethos culturale: è facilissimo imbattersi in portali in cui il confine tra informazione e pubblicità del gioco d’azzardo è parecchio sfumato, gli influencer o presunti tali che enfatizzano la loro capacità di “azzeccare i pronostici” infestano i nostri feed quotidianamente e praticamente tutte le trasmissioni sportive dedicano uno spazio considerevole alle scommesse, ad esempio dando notizia delle quote del momento. In breve: le scommesse fanno parte del nostro immaginario collettivo, sono parte integrante della quotidianità di qualsiasi appassionato di calcio. Non dovesse bastare, basti pensare a quanto abbiamo interiorizzato la figura del “calciatore scommettitore”. È un archetipo che affolla le cronache sportive da almeno quarant’anni: parte da Paolo Rossi, passa per Buffon e arriva fino ai giorni nostri.

Insomma: tenendo in considerazione il contesto e lasciando da parte l’ipotetico illecito sportivo, il fatto che tre professionisti del calcio siano stati tentati dalle scommesse non dovrebbe fulminarci sulla via di Damasco. Demonizzare dei ventenni ultraricchi perché potrebbero aver scommesso sul calcio forse placherà i nostri travasi di bile per qualche giorno, ma quando ci risveglieremo dall’incantesimo dovremo parlare di altre cose: la nostra assoluta indisponibilità al garantismo, l’enfasi posticcia sull’elemento della malattia mentale e il costante bisogno di fabbricare un mostro da sbattere in prima pagina, per esempio.