La nuova Nba che guarda al suo passato e anche al calcio

Inizia una stagione storica, con un nuovo torneo che si sovrapporrà alla regular season: è la scelta giusta per aumentare l'interesse intorno alla lega più cool del mondo?

«Sembra che il senso di questo evento sia andato perso e per questo stiamo pensando a dei cambiamenti per l’All Star Game, a qualcosa che possa rappresentare un ritorno alla tradizione. Negli ultimi anni siamo giunti alla formula attuale, quelle dei capitani e del Draft, ma storicamente questa partita era Est contro Ovest, quindi è un qualcosa cui stiamo guardando con attenzione. Bisogna far capire ai giocatori quanto l’All Star Game sia importante per i fan, anche perché non possiamo dare per scontato che i giovani giocatori abbiano da subito lo stesso rispetto delle tradizioni di coloro che li hanno preceduti. Non ci aspettiamo l’intensità di una partita di playoff, ma quanto meno quel livello di competitività che i tifosi desiderano». Queste parole il commissioner Nba Adam Silver le ha pronunciate qualche giorno fa, in un’intervista concessa al giornalista di Espn Stephen A. Smith all’interno del suo programma First Take. La partita delle stelle, main event dell’All Star Weekend che verrà ospitato alla Gainbridge Fieldhouse di Indianapolis dal 16 al 18 febbraio 2024, è uno dei grandi temi della stagione che comincia questa notte, la numero 78 nella storia della lega. Anche se sarebbe più giusto parlare di una questione rimasta irrisolta fin dal 2018, quando si pensò che affidare ai due giocatori più votati dal pubblico la possibilità di scegliersi i compagni di squadra, proprio come farebbero i ragazzini al campetto, potesse essere un buon modo per restituire interesse a un evento che ormai appariva superato dal mondo e dal tempo, un fastidio evitabile piazzato nel bel mezzo di una regular season sempre più compressa.  

Tanto più in un’epoca in cui il logorio delle stelle legato al numero di partite e la prevenzione degli infortuni sono diventati gli argomenti principali del dibattito extra-campo su quello che sarà, o che dovrebbe essere, il futuro della lega: «Molti dicono che sarebbe necessario che la regular season fosse più corta ma nessuno di noi la pensa in questo modo. Il problema del load management sembra riguardare maggiormente i giocatori più giovani, quelli che entrano nella Nba e sembra quasi che non si aspettino una stagione da 82 partite. Direi che c’è un concorso di colpa tra squadre, giocatori e organizzazione e probabilmente dovremo resettarci tutti quanti da questo punto di vista», ha dichiarato ancora Silver. 

L’All Star Weekend di Salt Lake City del 2023 è stato un successo globale per quello che riguarda i numeri delle interazioni social – i video pubblicati sugli account ufficiali della Nba hanno totalizzato oltre un miliardo e mezzo di visualizzazioni e la gara delle schiacciate vinta da Mac McLung è stata la più vista di sempre. Ma lo spettacolo offerto dalla partita della domenica ha imposto una riflessione sull’opportunità, sugli spazi e sulla rilevanza che un evento del genere dovrebbe avere. In America, è una questione seria. Soprattutto se consideriamo che la vendibilità del prodotto, quantomeno una gran parte, Nba è stata costruita sull’idea di competitività feroce, di confronto al massimo livello possibile tra i migliori giocatori del mondo.  

Un’idea che è stata rinnegata nella sua stessa essenza durante le ultime edizioni, come se fosse andata perduta nei meandri di una partita fine a sé stessa in cui 24 superstar cercano pigramente di intrattenere un pubblico ancora più annoiato di loro: «C’è una via di mezzo tra una partita di playoff molto combattuta e quello che si è visto l’anno scorso», ha dichiarato recentemente Joe Dumars, leggenda dei Detroit Pistons e attuale vicepresidente esecutivo della lega. Per questo le parole di Silver a Espn non devono essere considerate in contraddizione con la visione di una Nba proiettata verso il futuro. Anzi la volontà di un ritorno al passato, alla tradizione, a qualcosa che ha funzionato e che promette di funzionare ancora, incarna perfettamente il modus operandi di una lega che ha costruito il proprio successo sul saper fare le cose giuste al momento giusto 

L’esempio ricorrente in questi casi è il discorso relativo alla possibilità di un allargamento del campionato a 32 squadre, magari creando una nuova franchigia a Las Vegas e restituendo alla città di Seattle i suoi amati Supersonics. Se ne parla da tempo, per certi versi sembra persino inevitabile che accada, ma Silver non intende andare oltre le dichiarazioni d’intenti almeno fino al 2025, quando verrà firmato un nuovo e più ricco contratto con i media che permetterà una maggiore e migliore redistribuzione delle entrate: «Aggiungere nuove squadre significa dividere i guadagni in parti più piccole. Una futura espansione non è una certezza ma una forte possibilità: di sicuro guarderemo con attenzione a Las Vegas  e non c’è dubbio che ci sia grande interesse attorno al nome di Seattle», ha detto a più riprese Silver. Le parole su Seattle e Las Vegas, per altro, risalgono allo scorso luglio, a un’intervista rilasciata nel corso della Summer League che si stava svolgendo proprio nel Nevada. E che aveva in Victor Wembanyama (prima scelta assoluta all’ultimo Draft) e nell’avveniristica The Sphere (il nuovo spazio immersivo da oltre due miliardi di dollari che domina la Strip di Las Vegas) le sue attrazioni principali. 

La possibilità di tornare a un All Star Game impostato sul formato originale East vs West è comunque un segno di discontinuità rispetto a quanto fatto negli ultimi anni, quando la necessità di fidelizzare un numero sempre maggiore di appassionati – negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo, come dimostra la partita di regular season che si disputerà a Città del Messico, seconda “data estera” dopo quella ormai classica di Parigi – si è tradotta nella ricerca di un modo per rendere più interessante una stagione a tratti interminabile. In particolare nei due mesi precedenti l’inizio dei playoff, quando i rapporti di forza erano ormai talmente cristallizzati che le partite si trasformavano in un intermezzo che non interessava a nessuno 

La ricerca si è conclusa nel 2020 con l’introduzione del play-in. Nato come soluzione temporanea per dare un senso all’ultimo terzo della stagione interrotta dalla pandemia, il mini-torneo che mette in palio gli ultimi quattro posti (due per Conference) disponibili per i playoff è stata la miglior risposta possibile alla sempre crescente richiesta di competizione da parte del pubblico, fino a trasformarsi in un gradito “antipasto” della post season. E se nel 2021 Silver raccontava ancora di come stesse cercando di convincere squadre e giocatori a mantenere il nuovo formato, un anno dopo annunciava come il play-in costituisse un altro passo verso l’ennesima rivoluzione: «Ho sempre pensato che il play-in potesse essere l’inizio di una nuova era costruita sulla creazione di stimoli e incentivi che consentissero alle squadre di restare competitive fino alla fine e di lottare per un posto ai playoff. Il cambiamento del format che stiamo perseguendo da tempo potrebbe realizzarsi attraverso altri tornei stagionali». 

Detto, fatto. Il primo aprile 2023 è stata ratificata l’intesa con l’associazione giocatori per la firma del nuovo contratto collettivo fino al 2030 e che prevede l’introduzione dell’In-Season Tournament. Un format che, per stessa ammissione di Silver, è stato mutuato da quello delle coppe nazionali del calcio europeo e che dovrebbe dare nuova linfa a quel periodo della regular season in cui l’eccitazione delle prime settimane viene soppiantato dalla ripetitività delle partite giocate ogni giorno, con il conseguente calo dell’attesa e dell’interesse generale. Il 9 luglio 2023, sul sito ufficiale della Nba, è stato pubblicato questo vademecum della nuova competizione. Poco più di due settimane dopo, è stato il commissioner in persona a spiegare la sua visione di una Nba che, esattamente come Roma, non può essere costruita in un giorno, soprattutto se si parla di nuove tradizioni da introdurre, consolidare e far accettare a un pubblico che spesso non sa quello che vuole, eppure sa sempre di volere di più: «All’inizio probabilmente importerà poco di chi vincerà questa competizione. Ma sono convinto che, con il tempo, entrerà a far parte della cultura del gioco. In ogni cosa che facciamo dobbiamo tenere conto di quei tifosi che hanno bisogno di sapere che c’è sempre qualcosa in più che possiamo offrirgli», ha detto Silver, quasi a voler ribadire la necessità di questa politica dei piccoli passi per avere dei risultati e dei riscontri a medio-lungo termine. Che, poi, è l’orizzonte temporale su cui la Nba è abituata a muoversi, anche dal punto di vista della comunicazione: non a caso le sue prime dichiarazioni su «un progetto che si sta sviluppando negli uffici della lega da circa 15 anni» risalgono addirittura al 2014, poco dopo aver raccolto la pesante eredità di David Stern.  

Ma come funziona quella che è stata subito ribattezzata “Nba Cup”? Il torneo inizierà con una fase a gironi che durerà dal 3 al 28 novembre, con le partite – che verranno conteggiate all’interno del record di regular season di ciascuna squadra – in programma di martedì e di venerdì. Da qui usciranno le otto squadre che il 4 e il 5 dicembre si contenderanno in gara secca l’accesso alla Final Four di Las Vegas, in programma nel weekend successivo. In palio ci sono 500mila dollari a testa per i giocatori della squadra vincitrice, un trofeo nuovo di zecca ancora in attesa di essere intitolato a qualche leggenda passata e/o presente, un titolo di MVP e la possibilità di essere inseriti nel quintetto ideale della competizione. Quindi la Nba pare essere riuscita, almeno sulla carta, a trovare una sintesi tra l’urgenza di offrire qualcosa che aprisse nuove prospettive, per altro a un prodotto che opera in un mercato già saturo, e la necessità di non gravare ulteriormente sulla salute fisica e mentale dei giocatori – visto che, di fatto, solo le due finaliste si troverebbero a disputare appena una partita in più rispetto alle 82 della regular season. Praticamente quello che nel calcio Uefa e Fifa stanno cercando di fare senza successo da anni a livello di club e Nazionali, ingolfando un calendario di nuovi tornei che non piacciono ai tifosi e raccolgono consensi relativi anche tra gli stessi giocatori. 

Certo, le voci discordanti non mancano nemmeno al di là dell’Atlantico. Draymond Green, ad esempio, ha twittato che il compenso previsto per i giocatori è stato ridotto, e di molto, rispetto agli accordi iniziali. Ma, più in generale, le perplessità riguardano la percezione – e, quindi, la quantità di energia che saranno disposti a spendere – che gli atleti stessi potrebbero avere inizialmente verso una competizione che devono imparare a conoscere, con tutte le conseguenze del caso: «Indubbiamente questo torneo assumerà in futuro una propria identità», ha detto Steph Curry. «Ma al momento è difficile prevedere come sarà dal punto di vista dei fan e dei giocatori. Secondo me è giusto dire, che per noi giocatori, è ancora una questione che rientra nell’ambito di quelle 82 partite. Solo con una narrazione diversa». «A essere del tutto onesti a nessuno interessa vincere questo torneo, soprattutto se confrontato con quello che conta davvero per tutti», ha ribadito Marcus Smart. 

Silver, però, ha già dimostrato di saper essere un commissioner paziente, che sa aspettare il momento giusto per parlare e per agire. L’In-Season Tournament è una scommessa. Ma lo era anche il play-in quando doveva convincere squadre e giocatori che giocarsi quattro spot playoff a fine stagione fosse una scelta mediatica e commerciale vincente. E allora ha ragione Steve Aschburner, cronista del sito ufficiale Nba, quando scrive: «Altre due squadre per Conference che accedono alla post-season? No, grazie. Un paio di anelli in ottone che possano attutire il rumore del tanking (quando una squadra perde apposta per ottenere un miglior piazzamento al draft successivo, ndr) e che convincano squadre che altrimenti si accontenterebbero di restare tra il settimo e l’ottavo posto? Oh sì, per favore». Anche solo per vedere l’effetto che fa.