C’era una volta Stefano Pioli: un allenatore diverso, umile, tanto entusiasta all’idea di proporre nuove idee di calcio quanto pronto a plasmarle per adattarle alle caratteristiche delle squadre che doveva affrontare, in modo da valorizzare i pregi del suo Milan e colpire gli avversari nelle loro zone d’ombra. Pioli, poi, era un allenatore sobrio nel comunicare, prima ancora che nel preparare le partite. Oggi, nel pieno di un percorso iniziato dopo la vittoria dello scudetto, di quello Stefano Pioli sembra essere rimasto poco. Oggi, infatti, l’allenatore del Milan pare essersi trasformato in un tecnico diverso, che ripropone a ogni partita – è indifferente che debba affrontare il PSG di Luis Enrique e Mbappé, la Juve di Allegri o il Cagliari di Ranieri – gli stessi principi di gioco, lo stesso piano tattico.
Da fuori sembra quasi che, dopo aver vinto, Pioli si sia convinto di non dover più studiare, e di poter vivere di rendita con le nozioni già apprese. Pare sparita la flessibilità, lo studio analitico e minuzioso delle squadre avversarie che lo portava a individuare mosse tattiche in grado di colpirle a sorpresa, come dardi infuocati. Il Milan del 2023 gioca la stessa partita contro chiunque: è così che si sono mostrate evidenti le falle di una squadra divenuta testarda, incapace di imparare dai propri errori e orfana di quello spirito operaio da cui, a suo tempo, traeva moltissima forza.
Mentre sui social, soprattutto quello che una volta si chiamava Twitter, imperversa la fronda del #PioliOut, fatto di account ormai pronti a impugnare i forconi di fronte alla sconfitta di Parigi, è doveroso ricordare che quella di Pioli al Milan è un’esperienza con andamento a parabola. Nei primi due anni e mezzo in rossonero, infatti, Stefano Pioli era l’antitesi dell’allenatore dogmatico ed estremista che appare oggi: pur mantenendo un’identità di gioco riconoscibile contro ogni avversario, tra il 2020 e il 2022 il Milan era una squadra più che capace di adattarsi all’avversario, e proponeva ogni settimana delle varianti tattiche fresche e innovative. Alle prime difficoltà, Pioli si rivelava abile e scaltro nel prendere contromisure, evitando che il fiume di problemi strabordasse. Oggi quell’elasticità pare scomparsa, anzi sembra essersi trasformata in una macchinosa negazione di problemi che si percepiscono in modo chiaro – come quando afferma che la media infortuni del Milan sarebbe eccezionale rispetto alle avversarie.
Sono due i momenti in cui Pioli ha dato sfoggio particolare della sua flessibilità. Il primo risale alla stagione 2020/21. Il Milan parte fortissimo nella prima parte stagione, sulla falsariga del filotto magico che aveva incantato i tifosi davanti a un mojito al mare nell’estate post-lockdown. Solo che a febbraio arrivano due sconfitte pesantissime, 0-3 nel derby contro l’Inter e 0-3 a Roma contro la Lazio. Due partite simili, che in pratica estromettono il Milan dalla corsa scudetto, condannando i rossoneri al girone infernale della lotta per il quarto posto e per tornare in Champions League, un traguardo che fino a qualche settimana prima era dato per scontato. In entrambe le partite, il Milan paga la posizione altissima dei propri centrali difensivi, i quali seguono a uomo Lukaku-Lautaro e Correa-Immobile. A Inter e Lazio basta saltare la prima linea di pressione e attrarre i due centrali (Romagnoli-Kjaer contro l’Inter, Tomori-Kjaer con la Lazio) con movimenti delle punte sincronizzati per bucare alle spalle la difesa rossonera.
Due settimane dopo la disfatta all’Olimpico, il Milan affronta la Juve in una partita decisiva per la qualificazione alla Champions. Stefano Pioli, come un sarto pronto a ricucire l’abito giusto indosso alla sua squadra, troppo “allegra” e ingenua nelle gare precedenti, vara immediatamente delle contromisure: abbassa il baricentro medio di 10/15 metri, e il jolly Brahim Diaz, la cui posizione disorienta la difesa bianconera, apre le marcature per un 3-0 che darà avvio alla cavalcata verso il ritorno in Champions.
Con la stessa premura, Pioli avrebbe forse potuto evitare il rovinoso gennaio 2023, mese in cui il Milan ha subito 15 gol in sei partite tra campionato e Coppa Italia. È in quel momento che i rossoneri hanno perso la possibilità di giocarsi il titolo col Napoli: fino alla sosta per i Mondiali, infatti, la distanza dal primo posto non aveva mai superato gli otto punti. E si era ridotta a cinque subito dopo la ripresa. Nell’autunno 2022, però, il Milan aveva vinto diverse gare in modo striminzito, tra tutte quelle a San Siro contro Spezia e Fiorentina: quei risultati hanno permesso a Pioli di nascondere la polvere sotto al tappeto, ma non gli hanno fatto cambiare approccio. Forse il Pioli del 2020 e/o del 2021 sarebbe intervenuto con più prontezza, bloccando un’emorragia ormai annunciata. E invece ecco il gennaio nero, in cui arriveranno sconfitte roboanti (Milan-Sassuolo 2-5) e derby giocati con formazioni dadaiste (il 3-5-2 visto a febbraio), l’unico modo per convincere l’allenatore a cambiare l’assetto dei rossoneri, ad aggiungere un giocatore difensivo in una squadra piuttosto squilibrata fin da inizio anno: così Malick Thiaw, inspiegabilmente tenuto lontano dal campo fino ad allora, è diventato titolare nel 3-4-2-1 che avrebbe eliminato il Tottenham dalla Champions; così Ismaël Bennacer è stato trasformato nel finto trequartista in grado di schermare Lobotka, perno del Napoli, nelle sfide primaverili contro la squadra di Spalletti, quelle che avrebbero portato il Milan alla semifinale di Champions. E questo è il secondo momento in cui Pioli si è comportato come un allenatore realista, sveglio, intuitivo. Pragmatico e capace di adattarsi alle circostanze.
Lo Stefano Pioli prima dello scudetto non era solo in grado di risolvere situazioni emergenziali, alla stregua del Mr. Wolf in Pulp Fiction: proprio nell’anno che l’ha portato a vincere il primo titolo importante della sua carriera, il tecnico del Milan non ragiona più soltanto come uno studente attento e preparato, ma diventa professore lui stesso. I problemi li propone direttamente agli allenatori avversari, scoprendo come in una battaglia dialettica le falle logiche nelle loro formazioni. In Atalanta-Milan 2-3 della stagione 2021/22, per esempio, il calcio di Gasperini – sì, lo stesso calcio che aveva annichilito il Milan di Pioli a dicembre 2019 con un indimenticabile 0-5 – viene disinnescato con un’intuizione tattica di livello assoluto: i due terzini, Calabria e Theo Hernández, si muovono dentro al campo, quasi da mezzali, manipolando le marcature a uomo degli esterni avversari. Che, disorientati perché privi dei loro riferimenti, non sanno se seguirli o lasciare che se ne occupino i centrocampisti, a loro volta già impegnati a marcare Tonali e Kessié. In questo modo il Milan libera spazio sugli esterni, dove Rafa Leão, ormai diventato grande, può surfare in uno contro uno, ma soprattutto può imbucare in profondità, laddove Calabria – autore del primo gol – e i suoi compagni si inseriscono come assatanati, assaltatori pronti a conquistare la roccaforte nemica.
Una delle vittorie più importanti del’era-Pioli
Sono solo due casi, ma se ne potrebbero citare tanti altri: Stefano Pioli, per due anni e mezzo, aveva trovato la sua isola felice, ed era stato in grado di creare un perfetto connubio tra identità tattica e un intelligente adattamento alle caratteristiche degli avversari, con soluzioni proposte ad hoc, e non riproposte allo sfinimento contro squadre del tutto diverse tra loro – come accaduto quest’anno con Calabria schierato praticamente da mediano, soluzione attuata a oltranza e poi accantonata solo dopo il derby perso 5-1.
Proprio le sconfitte contro l’Inter raccontano al meglio il cambiamento di Pioli, il primo allenatore della storia del Milan ad aver perso cinque derby consecutivi; in queste partite, per altro, i rossoneri hanno segnato un solo gol, quello di Leão nell’1-5 di fine settembre, e ne hanno subiti dodici. La sensazione è che il Milan, in tutte le partite contro l’Inter, abbia fatto harakiri seguendo lo stesso spartito tattico, attuando una strategia fatta di duelli a tutto campo facilmente manipolabili, perfetti per esaltare le qualità dell’Inter, squadra letale in transizione e abile a eludere il pressing in costruzione. Alla vigilia dell’ultimo derby, quando in conferenza stampa gli è stata fatta una domanda sulla possibilità di cambiare piano gara vista l’assenza di Tomori e la necessità di utilizzare Kjaer, Pioli ha risposto sfoderando un sorrisetto sardonico, timido e diabolico allo stesso tempo. E poi ha detto: «Degli ultimi derby persi non mi interessa nulla, conta solo quello di domani. Mi interessa che la squadra trovi le soluzioni per mettere in difficoltà gli avversari. Non ho guardato i derby del passato, bensì le nostre prime tre partite e le loro prime tre». Il Milan alla fine perderà 5-1, e lo farà subendo gli stessi gol incassati nei derby precedenti. Nel corso della gara, alcuni tifosi si stropicceranno gli occhi dalle tribune, crederanno di aver a che fare con reminiscenze oniriche e traumi passati, ma in realtà si stava giocando una nuova partita. Anche se sembra sempre la stessa.
In ogni caso, però, qualcosa di buono c’è ancora. Al momento, infatti, il Milan è secondo a un punto dall’Inter. E, con un’eventuale vittoria a San Siro contro PSG, potrebbe addirittura riaprire il discorso-qualificazione in Champions. Spetta a Pioli tornare a essere l’allenatore di cui il Milan ha bisogno: ritrovare studio e umiltà, la stessa che in due anni e mezzo lo aveva portato a consacrarsi e a conquistare un inaspettato scudetto. Magari può iniziare costruire la sua rinascita già dalla partita di Napoli: proprio contro gli azzurri, adattandosi e abbassando il suo baricentro, accettando una partita di sofferenza difensiva, il Milan ha totalizzato un parziale di 6-1 in tre partite giocate ad aprile 2023. Magari non è stato un caso.