La spietatezza di Michael Schumacher

È stato un pilota duro, che non faceva sconti a nessuno, ma anche l'idolo di una generazione.

Il giorno in cui Michael Schumacher si è ritirato dalla Formula 1 io ho smesso di seguirla. Non c’è nulla di razionale in tutto questo, semplicemente è successo. Quando dico che ho smesso di seguirla non intendo solo l’atto pratico di non guardare più le gare, ma penso a qualcosa di più complesso: quello sport è sparito dalla mia agenda, come se lo avessero abolito. Come mai? Mi piaceva tanto, l’ho seguito fin da bambino. Guardavo le gare con mio padre, mi ricordo Niki Lauda, Giles Villeneuve, poi Prost, Senna (altro grande amore), Mansell (uno dei preferiti di papà). Gli amori di una mezza stagione come Damon Hill, o di qualche gran premio come Pironi. Gli insopportabili come Piquet, Gli italiani, Patrese, De Angelis, Fisichella, Alboreto. E poi Alesi e l’amatissimo Eddie Irvine. Sapevo tutto, le regole assurde degli accessi ai box e dei cambi gomme che cambiavano – ma immagino sia ancora così – di stagione in stagione. Il regno dei pit-stop, conoscevo i nomi degli ingegneri, aspettavo il momento in cui a un certo punto avrebbero inquadrato Frank Williams al muretto o nei box. Sapevo quale meccanico della Ferrari facesse questo o quello. Con gli amici parlavamo di strategia. Di come e quando Barrichello avrebbe dovuto lasciare passare il compagno. Negli anni di Schumacher alla Ferrari puntavo la sveglia a qualunque ora della domenica mattina, perdendo ore di sonno del fine settimana, per vedere la gara. Sapevo a che ora si correva in Canada, in Giappone, in Belgio. Sapevo i nomi delle curve. Proprio qualche giorno fa, guardando una mostra di Gabriele Basilico a Palazzo Reale a Milano, ho riconosciuto e indicato ad Anna, in una foto di Montecarlo: quella è la curva del tabaccaio. Mi ha guardato come si guarda un pazzo.

Insomma, quegli anni, dalla metà dei Novanta in poi, il cuore da appassionato di Formula 1 che aveva rallentato i battiti dopo la morte di Senna ricominciò ad accelerare perché c’era un nuovo sportivo da amare. Forse caratterialmente, per il modo di porsi, l’opposto di Senna, ma con il volante tra le mani era altrettanto incredibile, seppur diverso. Di lui si cominciò presto a dire che sembrava una macchina per il modo in cui preparava le vetture, le migliorava facendo i test, le spingeva oltre il limite in gara; ma a me pareva solo un umano di eccezionale talento, anche timido, in grado perfino di commuoversi e quasi di vergognarsene, elevando la timidezza alla potenza successiva. Schumacher piaceva a molti, non a tutti, non piaceva a molti altri piloti che lo consideravano a volte un imbroglione, altre troppo aggressivo, altre ancora scorretto, e così via. Anche loro sapevano la verità: era il più bravo di tutti. Lo sapevamo noi che lo abbiamo visto vincere cinque mondiali di fila (su sette) con la Ferrari e accumulare record su record. Anche quando il risultato pareva al sicuro, con la gara in controllo, aspettavi il prossimo giro veloce, un altro record pronto a cadere.

Schumacher mi piaceva perché non faceva sconti in pista, non aveva timore di superare in punti in cui gli altri non ci avrebbero nemmeno provato. Mi piaceva perché migliorava le macchine, era il primo meccanico. Mi piaceva perché si è preso il cuore dei ferraristi senza essere preda delle cose italiane. Mi piaceva perché tutti, da Hakkinen in giù, erano bravi bravissimi ma non erano come lui, e forse alcuni di loro, almeno in certe domeniche, magari a Monza, magari a Silverstone, avrebbero voluto avere la sua stessa cattiveria. Il pilota è solo, la solitudine di Schumacher era uno dei suoi punti di forza. L’ennesimo.

Tutte le parole scritte fino a qui riguardano cose che avevo dimenticato, come lo sport a cui si riferiscono, ma l’ammirazione per Schumacher è rimasta intatta e me ne sono accorto leggendo Michael Schumacher. L’uomo dietro la visiera, scritto da Alfredo Giacobbe e edito da 66thand2nd. Si tratta di un libro bellissimo, che va molto al di là del racconto biografico e che si tiene molto distante dall’agiografia. Giacobbe scrive davvero bene e mescola all’interno dello stesso capitolo il fattore umano (non solo quello del pilota tedesco) e quello tecnico. Riesce a rendere poetico il susseguirsi di alcune celebri curve, o la dinamica di un sorpasso. Riesce a parlare di gomme, valvole, alettoni e poi di folla festante, di umanità gioiosa; di un uomo a cui davano del robot e che poi si commuove alla fine di una gara e si vergogna. Sembra il pasticcere di Una cosa piccola ma buona di Carver che non sa più come comportarsi. Ma è poi soprattutto questa cosa: «Michael è stato, per il resto del paddock, prima un moccioso, poi un usurpatore, infine un despota. Alla Ferrari è da subito un messia».

Il racconto di Giacobbe suona poetico fin dai titoli dei capitoli, per esempio: Una gramigna da estirpare, oppure Con mezzo secondo in tasca. Si tratta di un racconto vero, c’è molta attenzione per gli aspetti tecnici e tecnologici, molta precisione nella descrizione di fasi di gran premi che sono diventate indimenticabili; su tutti spiccano i duelli con Hakkinen o con Hill, spicca Michael però, in tutta la sua tenacia, determinazione, gioia di correre, consapevolezza di essere il migliore. Si sentono le voci degli addetti ai lavori, e quasi mi commuovo pensando alla bravura di Jean Todt – questi l’unico al di fuori della famiglia che almeno una volta al mese va a trovare Michael, ormai da dieci anni quasi – e Ross Brawn, o Stefano Domenicali. E quante volte, dal muretto, abbiamo visto le espressioni di soddisfazione e di emozione di Jean e di Ross, quando Michael sfrecciava, ed era di nuovo primo, ed era di nuovo il sorpasso impossibile, il giro più veloce in gara o in prova. Merito di Giacobbe di aver riportato i lettori là dove Michael sfrecciava, dove quasi veniva alle mani con Senna, dove alzava il pollice verso il muretto, dove discuteva con Hakkinen. Hakkinen, mi domando, quanto avrebbe vinto ancora senza la comparsa di Schumacher. E cosa sarebbe stato Hamilton senza averlo visto correre, senza aver desiderato eguagliarne i record, superarli.

C’è un prima di Schumacher e c’è un dopo. Il dopo per molti appassionati quasi non esiste, e non era successo nemmeno con la morte di Senna. Ho fatto due chiacchiere con Alfredo Giacobbe e quando gli ho confessato che dopo il tedesco non ho più guardato un Gran Premio, mi ha risposto: «Sai, me lo hanno detto in molti», al perché ho trovato qualche risposta in questo libro. È strano, non abbiamo smesso di guardare il calcio quando ha smesso Maradona, né smetteremo. Non abbiamo smesso di seguire il ciclismo quando ha smesso Pantani, anche se qualcuno di noi ci è andato molto vicino. Non abbiamo smesso di guardare il tennis quando ha smesso Federer. Abbiamo scelto qualcun altro da amare. Nel caso di Schumi no, forse perché lo abbiamo identificato con la Ferrari, forse perché è stato l’ultimo a regalarci quel margine di imprevedibilità, l’azzardo di un sorpasso laddove quasi nessuno non sorpassa più. C’era qualcosa di inafferrabile nello Schumacher pilota, qualcosa di misterioso che aveva a che fare con la durezza dell’asfalto ma anche con la dolcezza di una curva prima dell’accelerazione, come accade nella velocità e certe volte nella poesia.