Non escludo il ritorno

Walter Mazzarri al Napoli è solo l'ultima operazione nostalgia delle grandi in Serie A.

«Io ti amo. Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo. Ti amo, ti amo, ti amo, io ti amo, ti amo, ti amo ti amo ti amo…». «Ma che ami ahò? Ma chi cazzo sei?». È così che Carlo Verdone si lascia andare alla segreteria della sua ex moglie, solo che ha sbagliato a digitare una cifra. Il film è Manuale d’amore ed è uscito nel 2005, quando ancora esistevano le segreterie e la possibilità concreta di sbagliare numero, espediente comico di cui Carlo Verdone è insuperabile maestro dai tempi dello sketch della telefonata notturna. Aurelio De Laurentiis è il produttore di quel film, recentemente tirato in ballo – lo scorso 13 settembre – per presentare la sua nuova avventura con Rudi Garcia. «A che film si ispira il nuovo corso? A Manuale d’Amore, la mia prima produzione da quando nel 2004 mi sono avvicinato al calcio. Che sia di buon auspicio». Solo in pochi avveduti, o che si ricordavano del film, fecero caso all’inquietante coincidenza: cioè che Manuale d’Amore fosse diviso in quattro episodi dai titoli e dalla progressione infallibile. 1) Innamoramento 2) Crisi 3) Tradimento 4) Abbandono. La scena di cui sopra, con Verdone – vero alter ego artistico di Aurelio – che stalkera la persona sbagliata, fa parte appunto del quarto episodio. La disperazione si è impadronita della mente e ha sfrattato la ragione: a De Laurentiis non rimane che umiliarsi e rivolgersi all’ex mai dimenticato. Ma qui sta il colpo di scena della vecchia tigre cinematografàra: il ritorno in scena di Walter Mazzarri, il primo uomo sulla Luna – ovvero in Champions League – del Napoli di De Laurentiis, stagione 2010/2011.

Benché sulla carta d’identità il 62enne Mazzarri paghi appena due anni e mezzo al 59enne Garcia, tra i due c’è un abisso estetico e stilistico: il giovanile Rudi è già scappato in Costa Azzurra e sembrava non aspettare altro già dalla terza giornata, la sconfitta contro la Lazio, quando aveva incautamente ricordato a una squadra reduce da uno scudetto con 90 punti che «se non si può vincere, bisogna cercare almeno di non perdere». Chissà le pernacchie. Per fortuna del Napoli, tra Mazzarri e Garcia c’è anche un abisso professionale a vantaggio dell’ispido maître-à-penser di San Vincenzo, abituato a scalare a mani nude la gerarchia del calcio italiano, anche se, come a tanti suoi colleghi, gli è stato fatale il ruzzolone con l’Inter.

Più di dieci anni sono passati dalla fine della prima era-Mazzarri, avvenuta simbolicamente nella primavera 2013 dopo una partita contro la Roma di Andreazzoli, lo stesso allenatore che ieri ha sfrattato Garcia (colui che lo aveva sostituito alla Roma, pensa te che giri fa il pallone) e gli ha aperto le porte del ritorno. Dieci anni nel calcio di oggi sono un’era geologica, tant’è che si fa fatica a ricordare un periodo così ampio tra una Parte 1 e una Parte 2 della stessa gestione tecnica: viene in mente quasi solo la sfortunata rentrée di Cesare Prandelli alla Fiorentina nel 2021, terminata nel giro di quattro mesi per motivi personali, anche se quantomeno Prandelli aveva contribuito in modo decisivo a far sbocciare il giglio Vlahovic.

Ma la minestra riscaldata è una pietanza che si consuma con ingordigia nelle segrete e inconfessabili stanze dei grandi club di Serie A. Più il nome è illustre più l’appetito è irresistibile, anche per via del generoso trasporto garantito dai media italiani, sempre ben disposti a salire trionfalmente sul traballante carro di un vincitore passato. Ci ricorda, forse, quando eravamo felici. Accadde così proprio ai tempi interisti di Mazzarri, novembre 2014, col povero Walter giubilato dopo una frase incauta sulla pioggia che aveva ostacolato la partita dell’Inter contro il Verona: cinque parole bofonchiate a mezza bocca in un’intervista di cinque minuti che furono gonfiate ad arte per crocifiggerlo impietosamente, aprendo il terreno alla “morattata” dell’inconsapevole Erick Thohir. Il presidente indonesiano si rimise in casa il Gran Bollito Roberto Mancini, capace di fallire la Champions League due volte su due, riempiendo la rosa di mezze figure prima di filarsela sdegnosamente allo Zenit San Pietroburgo.

Sì, perché il circo mediatico gioca un ruolo decisivo in queste operazioni nostalgia: l’Italia è un Paese conservatore nell’anima e il calcio ne è fedele specchio. Ancora ieri la Gazzetta dello Sport dava voce in prima pagina ai soliti Sacchi & Capello, due che indossavano i garretti del cavallo di ritorno già trent’anni fa quando il Milan di Berlusconi, dopo anni di trionfi, perse improvvisamente la brocca. Nel dicembre 1996 Silvio si liberò del troppo elegante Tabárez dopo una sconfitta a Piacenza e approfittò della rottura prolungata di Sacchi con la FIGC per riportarlo a Milanello: ma questi era ormai il simulacro del genio d’un tempo e a malapena riusciva a governare la gastrite, figuriamoci uno spogliatoio balcanizzato da Baggio, Savicevic e tutti quei giganti che si accorsero subito di quanto fosse invecchiato in fretta il divo Arrigo. L’estate dopo pure peggio andò a Capello, richiamato all’ovile dal Cavaliere dopo i fasti del Real Madrid: messo a guida di una squadra di marcantoni mittleeuropei del tutto inadatti alle astuzie della Serie A, da Ziege a Bogarde passando per Kluivert e Andreas Andersson, Don Fabio non ci capì niente fin da principio e si inabissò in una serie di rovesci sempre più puntuali e scoraggianti, fino ad ammettere pubblicamente di vergognarsi dopo una manita subita dalla Roma di Zeman.

Per chi vuole, subito dopo la mini-intervista di Capello c’è anche la sintesi di quel vecchio Roma-Milan

La bollitura del revenant è uno dei grandi luoghi comuni del calcio, specie italiano: se riesci a smentire la diceria e dimostrarti più forte degli ostacoli di Padre Tempo, come fecero Lippi alla Juventus (2001-2004) o Spalletti alla Roma (2015-2017), vuol dire che dentro di te hai qualcosa di speciale che ti farà conservare a lungo; e non parliamo nemmeno del ritorno trionfale a Madrid di Carlo Ancelotti, che non a caso è uno dei più grandi esseri umani di tutti i tempi. Insieme inciamparono due leggende viventi come Giampiero Boniperti e Giovanni Trapattoni, che dopo il flop di Maifredi (1991) si erano illusi di riportare la Signora agli antichi fulgori, non avendo fatto i conti con la dittatura tecnico-economica del Milan. Quella Juve spese molto e male, scimmiottando Berlusconi invece di andare su col proprio passo, e finì per essere svillaneggiata dai suoi stessi tifosi, che notoriamente non hanno molta pazienza.

Ma il ritorno più malinconico di tutti, un vero autunno dei sentimenti e della ragione, fu certamente quello di Zdenek Zeman alla Roma, stagione 2012/13, quattordici anni dopo il suo primo addio in una stagione segnata da infinite polemiche arbitrali e di campo. Reduce da una trionfale promozione in Serie A conquistata a Pescara, dove aveva consegnato al calcio italiano i curricula di Insigne, Immobile e Verratti, il Boemo fu richiamato per acclamazione, dopo il fallimento antropologico dell’esperimento Luis Enrique, e naturalmente pretese di essere quello di sempre, con i suoi gradoni, gli otto giocatori sulla linea di metà campo al calcio d’inizio, il 4-3-3 a oltranza e invenzioni surreali come il pachidermico Tachtsidis promosso regista titolare. Fui diretto testimone di una vittoria per 3-1 a San Siro, seconda giornata di campionato, in cui Zeman schierò un centrocampo con il greco a menare le danze e De Rossi (!) e Florenzi (!!) mezzali, e il giochino sembrava in qualche modo funzionare. L’ambiente era carico a pallettoni – del resto Roma non aspetta altro che passare da un’illusione a un’altra – e non neghiamo che il Tramonto Boemo regalò squarci di splendore commovente, come una lezione di calcio pre-natalizia al Milan di Allegri. Ma fu uno sfilacciamento continuo, con i giocatori che lo mandavano a ramengo da bordo campo, i leader che si ammutinavano di sottecchi, oppure scelte tecniche da Settimana Enigmistica come la fiducia al malcapitato portiere Goycochea. Fu proprio lui a tradirlo, in un indimenticabile Roma-Cagliari di venerdì sera. “M’hanno rimasto solo”, fu sorpreso a sibilare in un fil di fumo Zeman come Peppe Er Boxeur ne L’audace colpo dei soliti ignoti, inghiottito anche lui dal cinismo capitolino ben rappresentato da Ennio Flaiano.

In effetti Napoli, specie negli ultimi anni, è stata una piazza di passioni brucianti ma non si è mai rivolta al passato. Gli allenatori sono andati via spesso in modo traumatico, a volte rimpianti, ma mai richiamati: nessun caso di “pasta arruscata”, gli avanzi del ragù che nella tradizione locale si consumano la domenica sera. Mazzarri è il primo allenatore dell’era De Laurentiis ad aver già allenato il Napoli. Questa può essere l’ammissione silenziosa di un errore, e chissà da quanto tempo Aurelio stava segretamente prendendo a capate lo specchio per un così eclatante peccato di hybris. Ora è giusto che, per espiare, si prenda anche lui una parte dei fischi copiosamente piovuti domenica pomeriggio al Maradona. Il Presidente si è sempre divertito a rivolgersi al volgo con superiorità, come Glenn Close/la Marchesa di Merteuil nelle Relazioni Pericolose, e da uomo di cinema si ricorderà come va a finire quel film. Forse, a ben vedere, il ritorno di Mazzarri è il segno inequivocabile che De Laurentiis è diventato vecchio.