All’indomani di una finale, di qualsiasi sport, coloro che hanno perso – così come coloro che devono raccontare e analizzare l’andamento della finale – finiscono per porsi sempre la stessa domanda: cosa è mancato per vincere? Nel caso del doppio 6-3 che ha permesso a Djokovic di battere Sinner e di conquistare il settimo titolo delle Atp Finals, nuovo record assoluto nella storia del torneo di fine anno, rispondere a questa domanda è piuttosto semplice: Sinner non ha saputo approfittare dei rari momenti in cui Nole non ha giocato da cannibale, vale a dire nella fase centrale del secondo set. Non è stato abbastanza deciso e abbastanza preciso, evidentemente si è fatto divorare dalla tensione che assale gli esseri umani quando sanno di avere un’occasione difficilmente ripetibile, probabilmente unica. E così la sconfitta si è materializzata in modo chiaro, indiscutibile, anche meritato.
In realtà, a pensarci bene, la prestazione fornita ieri da Djokovic, l’ennesimo apice di una carriera fuori da ogni logica terrestre, dovrebbe scoraggiare un approccio di questo tipo, cioè dovrebbe cancellare l’idea per cui Sinner abbia qualcosa da recriminare. Nel senso: prima di Sinner e dei suoi errori, molto prima, sarebbe giusto parlare di cosa è stato Novak Djokovic nella finale di Torino. Sarebbe giusto parlare della sua incredibile efficacia in battuta nel primo set (73% di prime palle, sette ace), della sua straordinaria interpretazione tattica poche ore dopo la sconfitta contro Sinner nella fase a gironi, delle risposte potentissime ai servizi altrettanto potenti di Jannik, della tenuta fisica e mentale manifestata nell’unico momento di crisi vissuto nel corso del match, della ferocia che gli ha permesso di chiudere la partita alla prima opportunità. Il tutto a 36 anni compiuti da sei mesi, mentre Sinner di anni ne ha appena 22.
E invece discutere di ciò che ha sbagliato Sinner, provare a capire cosa avrebbe potuto fare di più, è la cosa giusta da fare. È la cosa che va fatta. È il modo migliore per riconoscere il valore di Jannik, per celebrare gli enormi progressi che ha mostrato negli ultimi mesi. È stato lo stesso Sinner, al termine della finale, a dire che «adesso sono un altro giocatore rispetto all’inizio della stagione». Il punto è proprio questo: da qualche mese, ancora di più da qualche giorno, Jannik Sinner è entrato in una nuova dimensione. Più aurea, indubbiamente, ma anche più scomoda. È la dimensione per cui una sconfitta, persino contro Djokovic che gioca in modo celestiale, dipende anche da lui. Dai colpi che poteva calibrare meglio. Da un fisico che deve essere sempre al massimo. Da una mente che non può più prendersi pause, a maggior ragione nei momenti decisivi di una partita.
Ormai lo diciamo da vent’anni, forse anche trenta: Pete Sampras e poi (soprattutto) il trio Federer-Nadal-Djokovic hanno portato il tennis maschile ad altezze siderali, mai neanche immaginate in precedenza. L’hanno trasformato in uno sport che, al massimo livello, si pratica un’incollatura dalla perfezione assoluta. A volte, in certe partite, quello scarto micrometrico è stato anche colmato. E poi c’è da tener conto di una nuova, sconvolgente longevità: Djokovic come detto ha 36 anni e mezzo, eppure negli ultimi due giorni ha vinto contro Alcaraz e Sinner, concedendo undici game e sei palle break, tutte annullate, in quattro set complessivi, tutti vinti; anche Federer e Nadal, quando avevano la stessa età che ha oggi il numero uno del mondo, conquistavano ancora i titoli del Grande Slam.
Tutto questo per dire che Sinner – esattamente come Alcaraz e tutti gli altri aspiranti eredi degli imperatori – vive un’era a tennistica dir poco complicata. Un’era in cui toccare la perfezione, non solo lambirla, è l’unica possibilità che esiste per vincere. O per battere Djokovic, due eventualità che quasi sempre coincidono. E allora, in virtù di tutto quello che abbiamo detto finora, bisogna parlare della percentuale di prime palle tenuta da Sinner nel primo set della finale di Torino, un 64% che è davvero troppo basso, e che resta basso al netto delle risposte mortifere di Djokovic; bisogna parlare del 57% dei punti conquistati dopo aver messo la prima in campo e del 9% di punti conquistati dopo la risposta di Nole sulla prima palla, quindi di quanto sia necessario un’ulteriore crescita nella varietà e nell’efficacia in battuta, un aspetto fondamentale per poter comandare gli scambi, per poter indirizzare le partite; bisogna parlare delle due palle break e delle altre occasioni fallite nel secondo set, per esempio nell’ottavo game, quando Jannik si era portato sullo 0-30, quindi della necessità di lavorare di più sulla risposta – Djokovic ha annullato le due palle break con altrettanti ace – e di migliorare il rendimento nei momenti di alta pressione emotiva. È anche un discorso puramente fisico: rispetto alle altre partite disputate in settimana, Sinner è sembrato un pizzico meno rapido negli spostamenti, a volte è arrivato in (leggerissimo, ma decisivo) ritardo sulla palla, e nel primo set è parso decisamente meno fluido in quella che è la sua specialità, ovvero lasciar andare il colpo, spingere a tutto braccio. Tutte cose che non può ancora permettersi, se vuole battere Djokovic nella sua miglior versione.
Insomma, per sintetizzare il tutto in modo brutale: Sinner ha sfidato un alieno in stato di grazia e ci sta che potesse essere stanco, in fondo siamo alla fine di una stagione massacrante, vissuta tutta da protagonista assoluto. Ma queste sono attenuanti che non possono esistere. O meglio: che devono essere rilevate, metabolizzate e poi messe da parte. Subito. Perché il futuro di Jannik, l’ha detto proprio Djokovic, è abbastanza definito: conquisterà almeno uno Slam e si prenderà il primo posto del ranking Atp.
Solo che c’è una differenza tra futuro e destino: il primo va costruito, il secondo si manifesta senza che nessuno possa cambiare le cose. Finora il lavoro di costruzione di Sinner è stato portato avanti alla grande, al punto che oggi Jannik può battere chiunque, ma davvero chiunque. Persino Djokovic, quando fino a un mese e mezzo fa sembrava un’ipotesi ancora discutibile. Ora manca l’ultimo passo, quello notoriamente più difficile: coprire la distanza micrometrica che serve per toccare la perfezione, per vincere uno Slam e/o le Finals, quella che segna la differenza un grande tennista da un vincitore seriale. Quella che passa tra futuro e destino.