Parlare di calcio con Stefano Nazzi

Intervista al giornalista del Post, autore del podcast Indagini e grande tifoso dell'Inter.

«Ma che gol ha fatto Dimarco? Per me non voleva tirare in porta, anche se lui ha detto di sì». La voce che pronuncia questa sentenza con un sorriso a mezza bocca è una delle più familiari per chiunque da due anni a questa parte sia un ascoltatore di podcast. Il timbro grattato e inconfondibile di Stefano Nazzi ha preso vita e volto e forma di fianco a me una soleggiata mattina di novembre. L’Inter ha appena battuto il Frosinone, davanti c’è la pausa per le nazionali e visto che entrambi rientriamo a Bologna da Cesenatico, dove lui è stato ospite di “Sentire le voci”, un festival dedicato ai podcast, facciamo il viaggio insieme. Per un’ora abbondante parliamo di calcio e in maniera più specifica parliamo di Inter, una delle grandissime passioni del giornalista del Post, che ormai da due anni accompagna ogni primo del mese con il suo Indagini. «Sono stato ospite della radio ufficiale dell’Inter con Scarpini e la mattina dopo al bar in cui vado ogni mattina a fare colazione mi hanno subito riconosciuto. Non avevano idea del lavoro che facessi, di Indagini, di nulla. Ma il calcio è più potente di ogni altro mezzo», mi racconta divertito quando stiamo per imboccare l’autostrada. Nazzi ha caldo e spesso tira giù il finestrino. Lo fa all’inizio e non lo farà per un po’ fino a quando il nostro discorso arriva a Ronaldo il Fenomeno, suo idolo assoluto. 

Ⓤ: Che tu sia dell’Inter lo so, ma la prima cosa che voglio chiederti è molto diretta e riguarda la fenomenologia della fede calcistica: sei un tifoso da divano o un tifoso da stadio? 

Sono abbonato, primo anello arancio spostato verso la curva, ma non posso essere considerato un abbonato storico. La tessera stagionale l’ho presa negli ultimi anni, però allo stadio ci sono sempre andato. Nell’ultimo periodo sono stato molto impegnato, e spesso l’abbonamento lo utilizza mio figlio. Ma adesso lui è in Perù e quindi ieri sera il mio posto è rimasto vuoto. Vorrei sapere se i miei vicini di posto se ne sono accorti, siamo sempre noi, ci guardiamo senza salutarci, ci conosciamo. Io vivo la partita in silenzio ma vicino a me c’è un tizio che si incazza sempre. Si incazza se perdiamo, se vinciamo, se la vive sempre così. Vorrei sapere che lavoro fa, chi è nella vita, se è così nervoso tutti i giorni. A volte penso che si tenga dentro le incazzature e le riservi tutte a San Siro, lì insieme a noi. 

Ⓤ: Lo stadio rappresenta una grande illusione: è un luogo che tanti credono di conoscere ma in realtà ha codici e regole che si possono comprendere in modo autentico solo grazie a una frequentazione lunga che a volte mette in crisi il lavoro, le amicizie, le relazioni. Tu Stefano mi sembra che lo conosca alla perfezione, e l’abbiamo anche studiato. 

Sono cresciuto vicino a San Siro e ogni settimana andavo allo stadio a vedere sia l’Inter che il Milan, senza distinzione. Credo sia andato tutto in prescrizione quindi ormai posso raccontarlo: lo stadio, a quei tempi, era un colabrodo e si riusciva a entrare facilmente senza biglietto soprattutto dal lato di via Ippodromo. Noi non pagavamo mai e quell’ambiente mi ha conquistato subito. Era qualcosa di diverso rispetto a ora, c’era un grande spirito di aggregazione e di partecipazione e la violenza non era presente come adesso. Non c’erano le infiltrazioni della criminalità organizzata e tutto quello che si sono portate dietro. Le curve della più importanti squadre italiane attualmente sono in mano a gruppi di estrema destra, un tempo non era per niente così. 

Ⓤ: Da giornalista ti sei occupato a lungo di curva, di ultras e dei meccanismi che adesso imperano all’interno degli stadi. 

Le curve in questi anni si sono trasformate. Basta pensare a quelle di Milan, Inter, Roma, Lazio, Juventus, Torino, per non parlare di quella dell’Hellas Verona. Girano tanti soldi e l’ambiente è polarizzato verso l’estrema destra. Io ho visto con i miei occhi cambiare la curva del Milan con il direttivo della Fossa dei Leoni che è stato cacciato, per sempre, da San Siro. Una delle guide era “L’ultimo Imperatore” che arrivava dall’ambiente dei centri sociali: ecco, lui non ha mai potuto più mettere piede a San Siro. Questo è solo un esempio tra i tanti: pensiamo agli Irriducibili e alla vera e propria guerra contro Lotito, che gli ha tolto la gestione dei negozi dove vendevano il merchandising. Adesso tutte le curve sono governate dal profitto e, così come accade nella criminalità organizzata, molto si gioca sul filo delle alleanze. Nei giorni scorsi i tifosi del Milan hanno attaccato quelli del Paris Saint Germain perché molto vicini a quelli del Napoli – le due curve partenopee sono tra le poche a non essere a destra – che sono rivali dei rossoneri. È un gioco di incroci, a volte anche difficile da seguire e spiegare. 

Ⓤ: Ti sei occupato anche a lungo del problema del razzismo all’interno degli stadi. 

Nel 1996 la Curva dell’Hellas Verona impiccò un manichino con il volto nero e insieme espose lo striscione “El negro i ve là regalà. Dasighe el stadio da netar!” – che significa letteralmente “Il n**** ve l’hanno dato gratis, fategli pulire lo stadio”, e dietro lo striscione c’erano dei tifosi incappucciati come i membri del Ku Klux Klan. Tutto questo scempio rimase esposto per 38 minuti senza che l’arbitro Tombolini disse nulla e i dirigenti della Lega fecero finta di niente. Alla fine la società rinunciò all’acquisto di Maickel Ferrier, un difensore olandese con cui la trattativa era conclusa. E quindi si può dire che i tifosi vinsero la loro battaglia. Non parliamo di secoli fa, ma del 1996. Non possiamo dire di aver fatto grandi passi avanti. La sera del 26 dicembre 2018 ero allo stadio per Inter-Napoli, la partita resa purtroppo celebre dalla tragica scomparsa di Daniele Belardinelli nel prepartita. Bene, a un certo punto di quella partita è stato espulso Koulibaly: mentre usciva dal campo sono partiti una quantità incredibile di insulti razzisti verso di lui. Ma non era uno spicchio dello stadio, non era la minoranza: era la maggioranza. Noi italiani allo stadio ci sentiamo legittimati a fare qualunque cosa. Un’altra volta sempre a San Siro sono partiti degli insulti razzisti e dietro di me un tifoso si è alzato dicendo al suo vicino: «Smettila che poi ci squalificano il campo». Sai cosa gli ha risposto? «Ma si potrà che nel 2018 squalificano ancora i campi per queste cose?». Ecco, io penso che in un ribaltamento di fronte di questo tipo sia descritta alla perfezione cosa significa andare allo stadio in Italia. Penso che a questo ci sia un unico antidoto: al primo insulto razziale l’arbitro deve sospendere la partita. Sospendine una, sospendine due, sospendine tre, così si capirebbe che è ora di smetterla. 

Ⓤ: Sempre sul Post, qualche anno fa hai scritto un pezzo difendendo Balotelli, proprio dopo alcuni episodi di razzismo in Hellas Verona-Brescia. 

Non credo servano commenti di sorta e quella reazione di Balotelli che secondo me andava difesa perché oggetto di cori e versi inaccettabili. Lui non ha mai subìto in silenzio, si è sempre ribellato. E ha fatto bene. Poi sul lato calcistico, io sono un tifoso interista ferito da Balotelli. Ha dilapidato uno dei talenti più puri del nostro calcio. Quando entrò svogliato in quell’Inter-Barcellona del Triplete fece incazzare anche me e lo fischiai. Un professionista deve accettarle i fischi e le critiche, ma il razzismo no. Quello non può mai avere giustificazioni. Pensa che non so neanche dove gioca adesso, ma sarà possibile? 

Ⓤ: Stavo per chiederti del Triplete ma tu mi ha anticipato. È uno dei grandi luoghi dell’anima di ogni tifoso interista: il rifugio, la gioia immensa e più grande che ha segnato un prima e un dopo. È anche un’arma: perché qualunque cosa succeda il mondo nerazzurro ha sempre la sua arma segreta in tasca. Sì va bene però nel 2010…

Quella stagione è la migliore che abbia mai visto giocare dall’Inter. Riconosco un artefice di questo, un protagonista assoluto: José Mourinho. Non mi interessa il dopo, non mi interessa che forse adesso abbia perso il tocco – anche agli allenatori capita di perdere il tocco – ma quello che ha fatto con l’Inter è indelebile. Indelebile perché Mou era interista anche quando non lo sapeva, nerazzurro dalla nascita. La sofferenza, il senso di accerchiamento, l’essere noi da soli contro tutto il mondo fuori significa Inter. E lui l’ha capito subito. Eravamo fatti della stessa pasta e infatti abbiamo vinto come non mai. Poi era iconico, io non penso che nessuna conferenza stampa abbiamo mai fatto godere i tifosi tanto quanto quella di Zero Tituli, nessuno è stato come lui e penso che un’identificazione del genere non l’abbia avuta nessun altro allenatore con nessun’altra squadra nella storia. 

Ⓤ: Ogni tifoso ha la sua squadra, la stagione del cuore, la formazione a cui è più affezionato al di là delle vittorie e delle sconfitte. Però mi hai parlato del 2010 con un trasporto tale che mi viene naturale pensare che il tuo idolo nerazzurro in assoluto sia un calciatore di quell’anno. 

E invece non è così. Il mio idolo assoluto è Ronaldo, e nessuno potrà mai riuscire nemmeno ad andargli vicino. Mi ricordo di avergli visto fare delle cavalcate allo stadio che mai nessuno potrà eguagliare. Sembrava un adulto che giocava a calcio con dei bambini, un alieno planato sulla terra per insegnarci a giocare a calcio. Ha folgorato tutto e ricordo ancora le mani nei capelli di Lippi quando, al rientro all’Olimpico in Coppa Italia contro la Lazio andò giù ancora, di nuovo su quelle ginocchia maledette. Ho sofferto molto con lui e per lui. 

Ⓤ: Gli hai perdonato il passaggio al Milan? 

Io a Ronnie gli perdono tutto. Quando è andato al Real Madrid era un momento storico in cui non si poteva dire no al Real. E poi andare al Milan è stato un errore, certo, ma non era neanche più Ronaldo, non ci ho visto cattiveria. Spesso i calciatori non hanno nemmeno gli strumenti per capire cosa è giusto o sbagliato, cosa gli può far comodo o meno, si affidano ai procuratori che alla fine pensano giustamente al profitto e a nient’altro. Vedi io a Ronaldo voglio bene, perché lui per me è l’Inter: una cosa bellissima che ci fa soffrire come cani. L’ho capito durante una partita precisa. 

Ⓤ: Quella che si è giocata il 5 maggio 2002? 

No, Juve-Inter dell’aprile ’98. Vedi, il 5 maggio è stato un suicidio collettivo di cui ancora non ho capito i motivi e spesso ci ripenso ancora. Ma il fallo di Iuliano su Ronaldo è stato l’apice della nostra sofferenza condivisa, il sopruso perpetrato dalla Juve, la nostra nemica, quella che abbiamo sempre identificato come potente e scorretta. Quel pomeriggio ero a vedere la partita in un bar e quando Ceccherini non fischiò il rigore e invece lo concesse alla Juventus sul ribaltamento di fronte, facemmo così tanto casino che il decoder perse il segnale di Tele+ e non riuscimmo più a vedere niente. Quella squadra bellissima, Gigi Simoni, quella stagione lì non ce la darà mai indietro nessuno, non ci è riuscita nemmeno Calciopoli. Ecco, il simbolo di quel dolore è Ronaldo, perché ne è stato lui il grande protagonista e gli juventini lo buttarono a terra perché non c’erano altre maniere di fermarlo. In quel pomeriggio ci fu un’epifania di cos’è l’Inter. 

Ⓤ: Anche io sono innamorato di Ronaldo, che arrivò nel campionato italiano quando ero un bambino e ci fece vedere un altro modo di giocare a pallone. Quello che mi sorprende però è che gli idoli spesso ce li costruiamo da adolescenti mentre ai tempi del Fenomeno all’Inter non avevi più vent’anni. 

Se penso alla mia giovinezza un calciatore che ho molto amato è stato Roberto Boninsegna, ma niente a che vedere con quello che ho provato con Ronaldo. Una parte consistente di questo amore è legato al fatto che i miei figli si sono appassionati ai all’Inter proprio durante gli anni in c’era cui. Poi è anche un fatto oggettivo e di amore per il gioco, io dal vivo ho visto giocare lui e l’unico ad avermi impressionato di più è stato Diego Armando Maradona. Anche lì andiamo nella sfera della mitologia, del sovrannaturale, di qualcuno che ha trasceso l’essere calciatore per diventare qualcosa di altro. 


 Indagini è il podcast di Stefano Nazzi, prodotto con Il Post. Ogni primo del mese racconta una storia di cronaca che ha avuto un impatto sul nostro Paese. L’ultima puntata è incentrata sull’omicidio di Meredith Kercher.

Ⓤ: Spesso chi è visceralmente innamorato della squadra di club tende a snobbare la Nazionale, o comunque a interessarsene un po’ meno. Regna quella regola per cui una cosa solo nostra l’amiamo di più di una cosa che è di tanti. Vale anche per te? 

È vero ma solo se parliamo della storia recente. Non mi sono entusiasmato per la vittoria degli ultimi Europei, anzi penso che la squadra sia stata esaltata oltre misura. Abbiamo fatto una grande partita contro il Belgio infarcito di assenze, poi la Spagna ci ha preso a pallonate ma ci siamo salvati e con l’Inghilterra è andata come è andata. Non ho sopportato la sbruffoneria di Bonucci e Chiellini con il loro gesto della pastasciutta e tutto il resto. Non è stato sempre così però.

Ⓤ: Immagino che il tuo Mondiale sia stato quello dell’82.

Avevo vent’anni, Italia-Brasile l’ho vista in una casa al mare in Toscana a San Vincenzo in cui mi sembrava di essere insieme a mille persone. Ero talmente emozionato, talmente palpitante che non mi accorsi che avevano annullato il gol ad Antognoni. Così mi guardavo in giro e vedevo tutti preoccupati ma non ne capivo il perché visto che per me eravamo sul 4-2. Poi quando Zoff ha fatto quella parata – a quarant’anni, dopo che lo avevano dato per finito – inchiodando la palla sulla linea mi è sembrato di sentir sospirare tutta l’Italia. Per me quella è la partita della Nazionale, quella tripletta è la tripletta. Ricordo ancora Éder che va sulla bandierina dell’angolo e per la stizza calcia via i cartelloni pubblicitari. Dopo quella vittoria ho capito che potevamo solo vincere il Mondiale, ma la finale me la sono voluta guarda da solo e al fischio finale sono uscito a Milano: gli autobus andavano senza fermarsi davanti a nessuno e suonavano il clacson. Mi ricordo di essere passato davanti a un garage e l’uomo che era in guardiola è uscito e mi ha abbracciato in lacrime. Eravamo felici, l’Italia veniva dagli anni Settanta: erano stato tremendi e non se l’aspettava nessuno di provare una gioia del genere, soprattutto dopo che nel girone eravamo andati male. È stata una gioia collettiva per davvero, e devo dire sinceramente che una gioia del genere per lo sport non l’abbiamo mai più provata. Ricordo a memoria un’intervista di Rossi che raccontava la felicità provata sul campo della finale, ma anche il senso di vuoto dopo aver realizzato di aver vinto. 

Ⓤ: Indagini è diventato un successo incredibile e ha creato un appuntamento fisso il primo del mese, qualcosa di speciale nel mondo dell’on demand che stiamo vivendo. Ci si ritrova ad ascoltare tutti la stessa cosa nello stesso momento, ed è quasi un rito collettivo come accadeva per le trasmissioni cult del passato. Ci sono delle storie sportive che ti piacerebbe raccontare?

Questa cosa del primo del mese è nata un po’ per caso all’inizio, poi abbiamo visto che funzionava bene e con il tempo abbiamo deciso di mantenerla. Può capitare anche di domenica, a Pasqua, o per qualunque ricorrenza: noi non cambiamo, perché sappiamo che in tanti ci aspettano lì. Riguardo alle storie sportive, in tanti durante questi giorni che ho passato a Cesenatico mi hanno chiesto di Marco Pantani. Ma non credo sia il momento, in futuro vedremo. Un caso di cui mi piacerebbe parlare è quello relativo alla morte di Donato Denis Bergamini, non escludo in futuro di lavorarci. 

La foto in apertura è di Giorgio Grande