Maradona oltre ogni cosa

Non più calciatore, non più uomo, qualcosa in più di un'icona: Diego è diventato simbolo eterno che non riguarda solo il calcio, ma anche il paesaggio.

Qualche settimana fa ho sognato Diego Maradona. Non è una novità, mi è capitato spesso di sognarlo sia prima della morte che dopo, sia quando giocava sia quando ha smesso. La novità riguarda la tipologia del sogno: fino a quella notte, nel mio mondo onirico, Maradona ci era entrato nella sua versione ufficiale, quella del più forte calciatore di tutti i tempi, perciò giocando a pallone. Maradona che ripete un gol incredibile, che ne fa uno mai visto, che salta avversari immaginari come birilli e poi passa la palla a me solo davanti al portiere. Io segno e viene giù lo stadio, Maradona mi abbraccia. Sognavo cose così. L’ultima volta invece ho sognato Maradona che camminava per strada a Venezia indossando una pelliccia di visone, un turista miliardario e un po’ ridicolo nel pieno degli anni Ottanta. Mi avvicinavo domandandogli se fosse proprio lui, mi rispondeva che lo era ma pure non lo era perché aveva smesso di essere quell’altro, quello del pallone. Non capivo, lui rideva e voleva offrirmi uno spritz, rifiutavo, non amo lo spritz e poi ero disorientato. La pelliccia era orrenda come nelle foto che abbiamo visto più volte in rete, su Maradona era meno orrenda, Diego non era mai ridicolo nemmeno negli abbigliamenti assurdi che gli abbiamo visto sfoggiare nel corso del tempo.

Svanito il sogno però mi sono chiesto perché diamine mi fossi sognato Maradona in pelliccia al posto di Maradona che fa una rovesciata. Ho ragionato e ho trovato una possibile risposta andando all’indietro. Ho visto me al passato negli ultimi tre anni e ho riflettuto sulle cose che ho fatto più spesso riguardo a Maradona. L’aspetto più evidente è che – eccetto rare occasioni, che sono comunque un buon numero – ho guardato i suoi gol e le sue azioni più belle sempre meno, un poco perché le conosco a memoria, ma soprattutto perché mi pare che il fenomeno argentino sia diventato ormai sempre di più qualcosa che è andata ben oltre il calciatore, oltre perfino quel sistema che ondeggia tra la mitologia e la santità della quale abbiamo scritto e parlato a lungo in questi tempi.

Maradona è andato oltre, è un’immagine che lo replica e lo diffonde allargandone i pixel nel tempo e nello spazio. È l’oggetto transizionale di parecchi di noi, il nostro correlativo oggettivo spruzzato nell’eternità. Nel moltiplicarsi dei murales, delle foto che guardiamo di lui che balla con la Carrà, che si commuove, che canta L’italiano di Cutugno, che posa in slip leopardati, nei reels di Instagram che condividiamo nelle storie. Maradona non è più Dio, lo ha superato e ne ha esteso il concetto, la religione è un campo limitato. Non è un’icona, al massimo è l’icona di sé stesso, l’ipericona. Accettandone l’eternità e diffondendo a ripetizione la sua immagine – oggi è un murale a Pozzuoli, domani è una statuina in un vecchio bar o è il grattacielo illuminato con il suo volto che riflette dalle finestre a Buenos Aires, con un gigantesco 10 che copre tutti i piani sottostanti, dopodomani è la cartolina che abbiamo sulla scrivania e così via: la tazza, i calzini, le maglie, le borsine, gli adesivi – noi proviamo a non invecchiare. Uscire con una borsina con la faccia di Maradona non significa più essere tifosi, significa essere alla moda e significa appartenere a una famiglia. Mi viene da pensare che Maradona non sia più quello che è stato (e che comunque continua a essere) ma soltanto ciò che di lui vediamo.

Riccardo Falcinelli, tra le altre, in Cromorama (Einaudi, 2017) dà una definizione interessante del colore: «Il colore è spesso un’idea o un’aspettativa. Ovvero certe tinte diventano tutt’uno con gli oggetti che le indossano al punto che è difficile pensarli altrimenti». Se sostituiamo per un momento il nome Maradona alla parola colore possiamo ampliare e proseguire il nostro ragionamento. Maradona è un’idea, un’aspettativa? Forse sì, e sia l’idea che l’aspettativa hanno a che fare con la nostra gioventù (perciò passato e memoria) e con il futuro (immaginazione, tempo a venire). Ma la parte ancora più interessante, quando trasposta su Maradona è il resto della definizione, quella in cui il colore, la tinta, diventa tutt’uno rispetto all’oggetto che la indossa e diventa quasi impossibile separarli.

Maradona/colore è diventato l’oggetto che lo indossa: perciò è il muro o la porta di un garage che ospita un murale, la tazza che riporta la frase la pelota no se mancha, è la finestra che ne incastona una parte del volto, è la scuola che lo ospita su una delle facciate, è la mano – non più quella dell’azione – che supera Shilton, ripetuta in ogni forma e tono e oggetto (io ce l’ho su un paio di calzini), è il sigaro che gli abbiamo visto fumare, è una gigantografia sulla parete lunga di un edificio popolare, è il suo sorriso di bimbo dipinto di fianco a un autobus a Villa Sarmiento. Potremmo proseguire, diciamo solo che non ho sognato Maradona in pelliccia, ma la fotografia vista tante volte che lo ritrae in quel modo. Ho sognato una proiezione, una cosa che su chiunque altro detesterei ma che collegata a Maradona amo. Ho sognato una pelliccia che è Maradona.

Maradona ha giocato a Napoli per sette anni, dal 1984 al 1991 (Mario Laporta/AFP/Getty Images)

Se Maradona è il colore di così tanti oggetti, cose tangibili che vediamo e tocchiamo, che possiamo portarci a casa, è evidentemente qualcosa che ha superato il concetto di divino e anche il concetto di merchandising. Gli oggetti maradoniani sono indicazioni stradali, sono pezzi di città che ci orientano, che ci ricordano qualcosa. «Le persone si orientano con gli edifici», afferma l’architetto Paolo Lucchetta. Maradona diventa perciò, a vario titolo, una parte complementare di un luogo, a volte domestico altre urbano, se restringiamo il campo soltanto a due città principali Napoli e Buenos Aires possiamo dire che il fuoriclasse argentino è diventato parte tangibile del tessuto urbano, non fa solo parte della città invisibile ma di quella visibile. Perché noi lo vediamo e diamo indicazioni di questo tipo: Tale bar si trova tra il murale di via De Deo e piazza Trieste e Trento, oppure, Hai presente la casa in fondo alla strada? Quella che ha un Maradona che palleggia disegnato sul Garage? Quando ci arrivi gira a sinistra, da lì in poi non puoi sbagliare. Grazie all’oggetto Maradona fotografiamo palazzi che forse nemmeno guarderemmo, così facendo li collochiamo nel luogo come se esistessero per la prima volta. Inventiamo, e Instagram dovrebbe ringraziarci, un terzo paesaggio che non corrisponde alla definizione del suo inventore Gilles Clément, ovvero che si compone di «tutti i luoghi abbandonati dall’uomo», ma di tutti quelli che sono diventati Maradona e così facendo sono divenuti riconoscibili. Maradona oggetto vale Castel Sant’Elmo o La Recoleta, per questo motivo più di altri sfugge – perché la trascende – la definizione banale del più forte calciatore di tutti i tempi, l’ha superata, dribblata, si parlerà di lui anche fra cent’anni e lo si troverà di certo nei libri che racconteranno il calcio ma anche nei volumi di architettura, di paesaggistica, di studio delle immagini.

L’architetto Louis I Khan in Pensieri sull’architettura (Einaudi 2023, traduzione di Marco Falsetti) scrive: «La forma non ha configurazioni né dimensioni. Semplicemente ha una sorta di volontà di esistenza». Si tratta di una bellissima e interessante definizione, applichiamola al Maradona / colore / oggetto. La forma Maradona così come l’abbiamo conosciuta, quella del corpo reattivo, estroso, che resiste al fallo e crea meraviglie, non esiste più. Esiste però, secondo Khan e secondo me, in questa nuova forma senza dimensione, senza configurazione, che nasce per manifesta volontà di esistere. La volontà dell’esistenza continua della forma Diego viene da due spinte: la prima è quella data dal calciatore per tutto ciò che ha fatto a suo tempo, la seconda viene da chi è stato condizionato/innamorato da quella volontà, al punto di inscenarne una propria che si inserisce in una forma più grande, quella fatta dai muri dietro i quali viviamo.

Se un antropologo arrivasse oggi a Napoli o a Buenos Aires per fare una ricerca della relazione tra la presenza di Maradona e gli abitanti, procedendo con le interviste noterebbe subito una cosa: nella quasi totalità dei casi nessuno risponderebbe, per esempio, è Dio. Ma quasi tutti, guardandosi intorno, indicherebbero la sua traccia tra l’insegna di una pasticceria e l’angolo di un vicolo, esistente nel paesaggio come un numero civico, come una crepa, una finestra appena spalancata.