La notizia, l’avrete letta, è di quelle che allo stesso tempo fanno sorridere e drizzare le antenne: pare che il Real Madrid abbia puntato Giorgio Scalvini per tamponare l’emergenza infortuni che ha investito il suo reparto difensivo, privato di Alaba e Militão per il resto della stagione. L’ultimo giocatore italiano ad approdare al Real fu proprio un difensore centrale, Fabio Cannavaro: era l’estate 2006, il capitano degli Azzurri campioni del mondo arrivò a Madrid quando aveva quasi 33 anni, subito dopo aver toccato il culmine della propria carriera nelle indimenticabili partite contro Germania e Francia. Fu il terzo italiano ad avere l’onore e l’onere di vestire la maglia più pesante al mondo, dopo Antonio Cassano e Christian Panucci, entrambi nel pieno dei propri venti quando approdarono al Real.
Invece Scalvini, come dice la canzone, “non ha vent’anni ancora” – li ha compiuti da poco, okay, abbonatemela. E, se l’affare si concretizzasse, sarebbe dunque il più giovane italiano di sempre a giocare per il club spagnolo. Una prospettiva che farebbe tremare di ansia e adrenalina chiunque, e che oltre a donargli una nuova luce lo pone inevitabilmente sotto una lente d’ingrandimento. Perché ora Scalvini non è più soltanto il gioiellino dell’Atalanta, uno dei prodotti migliori del modello nerazzurro, un difensore forte di caratteristiche ultramoderne. Ora che Scalvini è oggetto d’interesse da parte del club più vincente della storia, viene naturale guardarlo con occhi diversi. Più rapiti, più stregati. Come quando ci si accorge che l’amico/a carino/a è in realtà più che soltanto carino/a. Ma anche con occhi più critici. Quali sono i suoi difetti? Dove deve migliorare? Volendo subito ridurre la questione all’osso: Scalvini vale il Real Madrid? Avrebbe senso? Secondo me sì. E a parlare non sono la fascinazione prodotta dalle luci madrilene o il patrio campanilismo, piuttosto la consapevolezza di essere davanti a un talento generazionale che, per quanto giovane, ha già dato prova di essere un difensore di prima fascia. O, comunque, di un giocatore dall’altissimo potenziale. Ovviamente, in analisi di questo tipo, l’interdipendenza tra valore del singolo e sistema di gioco è sempre un fattore fondamentale da tenere in considerazione, perciò è lecito porsi delle altre domande: fino a che punto il sistema dell’Atalanta compensa le lacune di Scalvini? E quali sono, invece, le qualità di Scalvini che sussistono al di fuori del gioco di Gasperini?
Innanzitutto, oltre a essere un giocatore giovanissimo e dunque di enorme prospettiva, con vastissimi e rapidi margini di crescita, Scalvini ha un fisico notevole. Non è un freak alla Baschirotto, non basa il suo gioco soltanto sull’atletismo, ma si serve molto della propria altezza e delle proprie lunghissime leve per controllare lo spazio e troncare sul nascere le iniziative degli avversari. Scalvini è un difensore che ama giocare d’anticipo. Basta osservarlo in una partita a caso per rendersi conto di come abbia dalla sua un senso di puntualità innato, un metronomo sul quale livella costantemente le letture difensive e offensive. Ed è tale strumento immaginario a permettergli di rispettare sempre i cosiddetti tempi di gioco, quando sale ad anticipare l’avversario o corre a tagliare il campo, dimostrando non solo affidabilità, ma pure versatilità. E Scalvini è versatile non tanto per il numero di ruoli che può ricoprire, quanto per la capacità di sintetizzare in un’unica interpretazione le qualità che accomunano i migliori difensori e i migliori centrocampisti, ossia tempismo e pulizia tecnica.
Certo, il fatto di giocare in una linea a tre e la meccanica della fase difensiva dell’Atalanta gli permettono di esprimersi attraverso giocate più rischiose della norma, di ricorrere a una tipologia d’interventi che forse non potrebbe concedersi in altri contesti, poiché potrebbero sfociare in errori difficilmente riparabili – mi viene in mente l’uscita a vuoto contro l’Inghilterra, che ha consentito a Bellingham di fare il Bellingham, dunque di mangiarsi il campo. Quando non sbaglia, però, l’approccio di Scalvini ripaga dei rischi. Perché soddisfa il nostro lato più pragmatico, rispondendo a quelle necessità basilari a cui l’italiana arte di difendere deve provvedere. Ma il suo approccio appaga pure il senso estetico dello spettatore nel senso più puro del termine: Scalvini, infatti, decostruisce il gioco avversario non attraverso interventi distruttivi o violenti, ma avvalendosi di un’eleganza che è equipollente a quella di un rifinitore quando apre sul fronte opposto.
Non solo negli anticipi aerei o nei contrasti a terra, ma anche e soprattutto nelle scivolate, il gesto tecnico difensivo più spettacolare e pericoloso. Alcune di esse, a livello di pulizia, per il modo morbido in cui Scalvini sembra farsi tutt’uno con la scia dello slancio, mi ricordano quelle di Alessandro Nesta. E la somiglianza si fa sentire in particolare nell’ultimo tratto dell’esecuzione, poco prima che il fulmine cada al suolo, quando la leggiadra bellezza del gesto, incarnandosi nella sospensione del corpo proiettato a pochi centimetri dall’erba, sembra immobilizzare il tempo, prima di tradursi nell’imperiosità della palla piena. Sì, Scalvini ha un che di imperioso quando si avventa sul pallone con l’eleganza delle aquile. Poi certo, concluso il gesto, il presente riemerge e Scalvini torna a essere Scalvini, ossia un giovane talento che deve ancora dimostrare tutto ad alti livelli e migliorare in quei fondamentali nei quali i grandi campioni come Nesta erano maestri. Eppure, qualcosa di quella sovrapposizione rimane ogni volta.
Questo video-skills si apre con un po’ di scivolate e interventi eleganti. Poi c’è anche il resto
Si usa spesso personalità come termine-ombrello sotto il quale racchiudere aspetti intangibili ma importanti nella valutazione di un calciatore. Per i giocatori meno tecnici, personalità è la capacità di compensare tali limiti attraverso un temperamento aggressivo e altruista, votato al sacrificio. Per chi ha capacità di playmaking, come Scalvini, il concetto si presta ad altre interpretazioni. Nel caso specifico, significa ibridare archetipi: Scalvini ha i piedi di un centrocampista e ragiona da centrocampista, pur giocando (molto bene) in difesa; e la sua atavica propensione a segare il campo, a battere zone anche lontane dalla propria area di competenza, l’aggressività non violenta del suo approccio difensivo e la capacità di controllo del pallone in ambedue le fasi sono tutte espressioni di quella duttilità e affidabilità che lo renderebbero un acquisto sensato per qualsiasi grande squadra. Pure per Quello del Real è un interesse che, se dovesse concretizzarsi nella realtà, potrebbe far sorridere anche i più scettici, come accennavo a inizio articolo. Perché, per quanto Scalvini sia potenzialmente un giocatore fortissimo, pensarlo al Real Madrid sembra una di quelle cose che capitano solo nell’universo di Football Manager. E nemmeno così spesso.
Il punto è che quando si parla di fuga di cervelli, ovviamente in chiave calcistica, in noi italiani subentra – sempre in chiave calcistica – qualcosa di simile alla sindrome dell’ebreo che odia sé stesso. Agli appassionati, i giocatori da esportazione che poi vengono esportati finiscono sempre col piacere di meno, da un punto di vista di simpatia a pelle. Li sentiamo meno vicini, meno nostri. Vedi Verratti: talento cristallino mai del tutto amato e mai del tutto perdonato per aver speso la propria carriera ad alti livelli fuori dall’Italia. La cosa diventa poi labirintica quando si sviscera ulteriormente tale questione da un punto di vista psicologico. Parte di noi – parte di noi popolo di appassionati, ma pure parte di noi intesa come singola parte di noi stessi – non crede che questi giocatori siano all’altezza di queste piazze. Allo stesso tempo, però, non vorremmo mai che andassero via. Dov’è la verità? Nel futuro, come sempre. E Scalvini è il futuro. Perché è un giocatore dallo stile contemporaneo, tatticamente acuto, capace di difendere e impostare, pulito nel trattare la palla e nello sradicarla dai piedi degli avversari. E perché potrebbe essere il primo della sua generazione, il primo calciatore italiano di questo decennio, a finire in un contesto così competitivo e importante. Credere che non sia pronto è lecito, credere che potrebbe fare bene lo è altrettanto. Solo il tempo ci dirà se e quando “cadrà l’inverno anche sopra il suo viso”, e voi tutti “potrete impiccarlo allora”.
Solo che, a differenza del Geordie di De André, Scalvini non ha rubato sei cervi nel parco del re vendendoli per denaro. Non ha, insomma, alcun peccato da espiare. Mal che vada, se la trattativa andasse in porto, la sua avventura all’estero sarà comunque una storia da raccontare, nonché un’esperienza che ne gonfierà il curriculum per sempre, come accaduto a Cassano – che a Madrid perse l’occasione di diventare immortale – o a Cannavaro, che in Spagna giocò al di sotto delle aspettative, crollando sotto il peso del proprio star power. All’epoca, così come quando vi giocò Christian Panucci, che lasciò un buon ricordo, c’era sempre un allenatore italiano a guidare i Blancos: il severissimo Fabio Capello. Oggi Scalvini troverebbe ad accoglierlo un altro maestro della scuola italiana, il sempiterno Ancelotti. È un fattore che potrebbe di certo aiutarlo ad adattarsi al contesto. Non solo, banalmente, alla linea difensiva a quattro delle Merengues, ma anche alla pressione di giocare davanti al pubblico più esigente del mondo, al peso della maglia. Una maglia che, per la crescita di Scalvini, potrebbe rivelarsi una corona d’alloro. O un cappio, forse. Ma pur sempre d’oro. D’altronde essere desiderati dal Real Madrid è un privilegio raro.